2
Il teatro inglese è stato maschile persino tecnicamente, nel senso
che le recitazioni dei ruoli femminili venivano affidate a uomini
travestiti, così come il travestitismo maschile veniva considerato
opportuno ogni qualvolta la vicenda assegnava ad un personaggio
femminile una funzione significativa (vedi Viola nella Dodicesima
Notte).
La commedia vittoriana al contrario è femmina, e la presentazione
sulla scena di questi personaggi femminili è legata ad una ritualità di
abbigliamento, ora allusivo, ora simbolico, ora esplicativo, che
contribuisce a marcare la loro appartenenza a quelle che potrebbero
definirsi ‘categorie psico-sociologiche’ evidenziate dalle immagini che
tali personaggi offrono al pubblico.
Nella commedia vittoriana il maschio è relegato a ruoli spesso
deboli, discutibili, negativi. Le motivazioni storiche e sociali di questo
affacciarsi e affermarsi della donna sulla scena del mondo e del teatro,
che del mondo è lo specchio, l'amplificatore, talvolta l'anticipatore, sono
numerose e variate, ed hanno formato oggetto di studi critici e di
costume qui logicamente non trattabili.
Molto superficialmente si può forse dire che le guerre napoleoniche,
concluse all'inizio del secolo XIX, avevano tenuto gli uomini lontani
dalle loro case, dai loro affetti ed anche dalla cura dei loro interessi e che
3
le donne avevano, per necessità, dovuto assumersi responsabilità di
conduzione della famiglia, di educazione dei figli, ed anche, talvolta,
della gestione di interessi familiari.
I personaggi femminili della letteratura vittoriana ci offrono esempi
significativi di questi albori di emancipazione. La ‘Shirley’ di Charlotte
Bronte (1849) è perfettamente in grado di gestire le proprie notevoli
risorse economiche ed è osservatrice consapevole dei cambiamenti
epocali in cui vive, del passaggio drammatico da una economia rurale ad
una economia industriale, e quindi delle nuove difficoltà e delle sfide del
vivere. La Lady Laura trollopiana del 'Phineas Finn The Irish Member'
(1867) è un’ anticipatrice dei salotti politici che tanta fortuna
conosceranno ai giorni nostri, ed è una appassionata creatrice ed
influenzatrice di protagonisti parlamentari; la formidabile Betsy
Trotwood dickensiana gestisce la propria vita e quella di tutti coloro che
la circondano senza la minima esitazione femminile, anzi in acuto
antagonismo contro ogni presunta prepotenza maschile (‘David
Copperfield’, 1849).
A questa squadra di donne in cerca di autonomia appartengono
molti personaggi femminili del teatro vittoriano, che si sofferma con
particolare insistenza su certa tipologia femminile, definibile
correntemente come ‘The woman with a past’ e ‘The new woman’,
4
quest'ultima spesso 'figlia' della prima, ossia sviluppo positivo di un
presupposto drammatico e sofferto.
Così, in base all'icona che trasmettono, possiamo distinguere la
donna che non è riuscita a metabolizzare il proprio passato, e lo rivive
come eterno tormento facendosi nemesi di se stesso (Mrs Arbuthnot è la
regina di questa categoria, Oscar Wilde, 'A woman of no importance' ,
rappresentata nel 1893) e la donna che reagisce positivamente al proprio
passato, utilizzando un’esperienza negativa al fine di affermare la
propria indipendenza sociale ed economica (esempio efficace di questa
categoria è Janet de Mullin, St. John Hankin, ‘The last of the Mullins’ ,
rappresentata nel 1908).
Ma la donna con una passato non è la sola protagonista del teatro
vittoriano. Ad essa si affiancano, spesso per contrasto, donne senza un
passato, giovani fanciulle in età da marito, infantili, finte o vere ingenue,
caratterizzate anch’esse dall’abbigliamento voluto per loro da autori e
costumiste.
5
CAPITOLO I
Analisi storico sociale dell’epoca vittoriana
Il lungo regno della regina Vittoria inizia nel 1837 e si protrae fino al
1901, segnando un’epoca decisiva nella storia della Gran Bretagna e
dello sviluppo dell’impero britannico; dal suo nome viene infatti definita
un’era, quella “vittoriana”, con particolari caratteri nell’evoluzione
politica e sociale, e anche nel movimento intellettuale e letterario
dell’Inghilterra moderna. Vittoria sale al trono più antico d’Europa, se si
esclude il soglio pontificio, imparentata con la maggior parte delle
famiglie regnanti del vecchio continente: è, in pratica, l’incarnazione di
una gloria e di una grandezza alle quali i grandi stati guardano, ancora
oggi, con un certo interesse reverenziale; è definita più volte la “madre
bianca” di tanti popoli colonizzati ed è una donna che, con
un’esperienza non comune, riunisce in una sola persona le condizioni
ottimali in grado di consolidare l’istituzione monarchica e mettere fine
ad ogni velleità repubblicana che viene a presentarsi nel corso del suo
regno
1
.
1
R. Marx, La regina Vittoria e il suo tempo, Il Mulino, Bologna 2000, p.8
6
1.1 La regina Vittoria e il suo regno: brevi cenni biografici.
Vittoria nasce il 24 maggio 1819 da Edoardo, duca di Kent e da
Vittoria Maria Luisa di Sassonia – Coburgo e appena diciottenne
succede allo zio Guglielmo IV, con il quale si estingue la dinastia degli
Hannover. L’avvento al trono di Vittoria ha come prima conseguenza la
separazione delle corone del regno d’Inghilterra e del regno di
Hannover, unite sin dall’epoca di Giorgio; sotto il breve regno di
Guglielmo IV (1830 – 1837) si erano prodotti in Inghilterra degli eventi
importanti: la riforma elettorale (1830 – 1832), che aveva aperto le vie
del parlamento alle nuove forze industriali e commerciali delle grandi
città, abbattendo il predominio della grande aristocrazia terriera; gli inizi
delle agitazioni irlandesi con O’Connel e del movimento cartista; la
prima fase della campagna liberista di Riccardo Cobden; i primi
esperimenti e tentativi di riforme sociali. Mentre attraverso questi eventi
si preparavano trasformazioni profonde in un’atmosfera d’irrequietezza
e di lotta, la posizione della corona e della dinastia era apparsa scossa
dagli scandali che avevano caratterizzato il regno di re Giorgio IV e la
sua vita familiare, tanto che erano nate non trascurabili tendenze e
correnti repubblicane.
Nei primi anni del regno riesce preziosa alla regina l’assistenza del
primo ministro, il vecchio lord Melbourne, che la guida e la istruisce nei
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suoi compiti per i quali la preparazione precedentemente ricevuta, sotto
lo stretto controllo della madre duchessa di Kent, non è certamente
adeguata al ruolo regale da svolgere. Liberandosi dai vincoli materni,
Vittoria mostra subito una forza di volontà e un senso dell’autorità del
suo ruolo che andranno via via sviluppandosi attraverso le fasi del suo
regno; questo costa al figlio maggiore e erede al trono, il futuro Edoardo
VII, una quasi totale esclusione dalla vita dello stato, anche quando
l’esperienza e l’età del principe di Galles potrebbero giustificare una
posizione ed un’attività di più vasta portata. Una sola persona viene ad
esercitare sulla regina un notevole influsso e viene ad assumere una
posizione che, in certo senso, è destinata a dominare e a guidare
l’esplicazione delle sue caratteristiche autoritarie: il marito Alberto di
Sassonia – Coburgo, sposato nel 1840. L’influenza del principe
consorte, che sostituisce quella di lord Melbourne, è decisiva per la
regina che, fra l’altro, da lui apprende il senso del lavoro tenace,
metodico e ordinato, essenziale per un sovrano, nonché il rispetto ed il
culto delle virtù familiari, che rendono la famiglia reale un modello di
rispettabilità e di decoro. Negli anni che vanno dal 1840 al 1861
l’influenza del principe Alberto va crescendo, non solo nell’ambiente
familiare e di corte, ma anche nella direzione dello stato, in politica
interna come in quella estera. La sua morte, avvenuta alla fine del 1861,
8
costituisce un grave colpo per la regina e tuttora proverbiale resta una
caratteristica, che la ha resa estremamente benvoluta dal suo popolo,
quella della sua grande devozione per il marito.
Nonostante il grave lutto Vittoria continua ad occuparsi
costantemente della politica britannica, anche quando questa viene
guidata da eminenti statisti e, acquistando la personalità della regina
sempre maggior rilievo di fronte all’opinione pubblica, questa sua
partecipazione va accentuandosi maggiormente nel corso degli anni. Il
periodo culminante della progressiva ascesa della personalità di Vittoria
si delinea dal 1874 con il ritorno dei conservatori al potere, sotto la
guida di Disraeli, che viene ad occupare, nell’affetto e nella stima della
regina ormai declinante verso la vecchiaia, quel posto già tenuto, agli
inizi del regno, da lord Melbourne, mentre il grande rivale di Disraeli,
Gladstone, ispira alla regina solo diffidenza ed antipatia. Va ricordato
che, immediatamente prima dell’avvento dei conservatori, quando al
potere erano i liberali e Gladstone primo ministro, la popolarità della
regina viene ad avere un momento di stasi, a causa di tendenze
repubblicane e di attacchi al parlamento per le spese della corte, ritenute
eccessive. Con le elezioni del 1877, il cui esito è trionfale per i
conservatori imperialisti, il prestigio della monarchia e della stessa
regnante sale invece più in alto che mai.
9
Disraeli, divenuto primo ministro, prende l’iniziativa della
proclamazione di Vittoria a Imperatrice delle Indie, segnando la ripresa
dell’imperialismo britannico, con l’acquisto di Cipro, l’insediamento in
Egitto, l’occupazione di vasti territori in Africa e la politica aggressiva
contro i Boeri, che sfocia nella guerra del 1899, di cui la regina non vede
la fine.
I grandiosi successi di quest’ultima parte di regno, a cui si
accompagna un sempre più crescente sviluppo economico e produttivo,
viene ad innalzare sempre più la figura della regina presso il popolo
britannico. Cosicché quando muore, il 22 gennaio 1901 all’età di
ottantadue anni, la sua personalità viene scelta a rappresentare ed a
simboleggiare la stessa straordinaria ascesa della potenza britannica.
Dopo i sessantaquattro anni del suo regno l’Inghilterra viene infatti
a trovarsi in un’era d’invidiabile prosperità e di sicurezza interna ed
estera, alla testa del più grande impero costruito in epoca moderna. Il
contrasto di tali condizioni con quelle iniziali della sua salita al trono
costituisce sicuramente uno dei titoli fondamentali della sua fama e di
quella dell’epoca che da lei prende il nome.
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1.2 Le masse popolari, il ruolo della monarchia, il progresso del
capitalismo e la miseria, dal 1837 al 1850.
Il Regno Unito, negli anni che vanno dal 1837 al 1850, non appare
al riparo da problemi che aggravano tensioni popolari e, anche in un
sistema dominato da un’élite, si organizzano comunque grandi
movimenti che coinvolgono le masse popolari al fine d’imporre
ideologie innovatrici. Crisi ricorrenti, fra le quali quella del primo
periodo del regno di Vittoria, fino al 1848 circa, e fasi di crescita e di
recessione aggravano le tensioni esistenti in precedenza. Sebbene la
regina segua attentamente certi processi, le sorti della monarchia
dipendono dall’abilità e dalla fortuna dei governanti e la popolarità
crescente della corona contribuisce a sventare la minaccia di un crisi che
le sarebbe fatale.
In un paese che nel complesso va producendo sempre maggiore
ricchezza, impone la sua supremazia tecnica e le sue capacità industriali
e commerciali, non è facile spiegarsi il dilagare della miseria. Percorrere
i distretti industriali, ancora verso l’anno 1845, basta per cogliere
l’inadeguatezza di certe statistiche trionfalistiche relative al benessere
delle classi inferiori e per misurare l’inconsistenza delle tesi di chi,
liberale ad ogni costo, si ostina a mettere in correlazione la povertà col
vizio, affermando che essa è dovuta solo all’alcolismo, agli eccessi
11
sessuali, ai troppi figli, all’imprudenza e che lo Stato, per questi motivi,
non è tenuto a fare beneficenza. Lo spettacolo della povertà è meno
tragico nei centri più piccoli, ma la miseria si palesa in tutto il paese a
causa delle rare leggi sociali e della mancanza di approvazione di quelle
che sarebbero necessarie.
La lotta di classe non è facile, nonostante l’avvento del
sindacalismo e, negli anni 1835 – 1837, l’educazione di massa è solo
agli inizi; non vi è informazione per i ceti più bassi, sia per il diffuso
analfabetismo che per il prezzo troppo alto dei giornali. La miseria
suscita reazioni: alcuni borghesi auspicano una crescita economica più
rapida che risolverebbe molti problemi; altri reputano la democrazia
l’unico strumento per una grande mutazione e auspicano una Carta del
Popolo che apra la via all’uguaglianza; altri sperano nell’avvento di un
vero socialismo, attirandosi l’opposizione di quanti evocano lo spettro
del comunismo.
Fino al 1850 si susseguono in Gran Bretagna vari movimenti; basti
qui ricordare quello liberalscambista di R. Cobden e il movimento
cartista (erede dei contestatori del passato e che deve il proprio nome
alla Carta del Popolo, documento che si sarebbe voluto trasformare in
costituzione).
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Dal 1846 al 1848, dopo alcuni anni relativamente tranquilli, la crisi
economica che si manifesta determina un estremo tentativo del
movimento cartista, con una petizione sottoscritta da sei milioni di
firme, raccolte dall’irlandese O’Connor, per indurre il Parlamento a
tenere conto delle condizioni dei ceti più bassi. La petizione si presenta
nel clima di entusiasmo e di speranza suscitato, nel 1848, dai successi
rivoluzionari sul continente, con la caduta della monarchia francese, con
le difficoltà di sopravvivenza dell’impero degli Asburgo e con il
vacillare, seppur momentaneo, dello stesso potere temporale del papato.
Il governo, ritenendo di trovarsi di fronte ad un tentativo
d’insurrezione popolare, reagisce aprendo la strada ad una soluzione
pacifica che finisce col gettare nel ridicolo la petizione stessa, segnando
la fine di un movimento che, per taluni lati, avrebbe giovato alle masse
popolari, la cui insufficiente organizzazione è alla base di tale
fallimento.
Il placarsi delle tensioni in Inghilterra e un riaccendersi solo
passeggero della rivolta nazionalista in Irlanda, dove una grande carestia
decima la popolazione e soffoca la spinta rivoluzionaria, fanno
gradualmente dimenticare alla corona la paura di una crisi del suo stesso
regno.
13
1.3 Il decennio 1851 – 1861.
L’epoca vittoriana viene usualmente suddivisa in periodi e una
linea divisoria viene tracciata alla metà del secolo, contrassegnando il
periodo come l’età vittoriana di mezzo, quale la più proficua per il
progresso dell’Inghilterra, dove si ritiene che la civiltà debba essere
basata sul trinomio “ pensiero, lavoro e progresso”.
Nel 1851 la regina Vittoria, trentaduenne, regna già da quattordici
anni e, affiancata dal marito, determina una stabilizzazione della
monarchia legata a fattori diversi, quali le modificazioni strutturali, il
miglior funzionamento delle istituzioni e la stessa popolarità della
famiglia reale. Il sistema politico, sebbene ancora lontano dalla
democrazia, con tale stabilizzazione lascia intravedere nuove prospettive
di evoluzione; ciò è dovuto in buona parte all’instaurarsi di una
stupefacente fase di crescita, legata anche all’affermazione di statisti di
prima qualità (fra gli altri, Gladstone e Disraeli) che entrano nei governi
con incarichi importanti o a seguito di numerose lotte che mostrano, fra
l’altro, la monarchia inglese quale solido pilastro dell’ordine
costituzionale
2
. Questo periodo segna il trionfo dell’età industriale e
capitalistica: si sviluppano le industrie, si allargano i commerci, nascono
le prime ferrovie e si costruiscono le prime navi a vapore.
2
A. Briggs ., L’Inghilterra vittoriana, Editori Riunti, Roma, 1978, p.11
14
L’industrializzazione implica la produzione di fabbrica e un
ampliamento progressivo della società di mercato, nonché fenomeni
migratori dalle aree rurali verso le città sedi di fabbriche. Si fanno
sentire in misura minore le difficoltà economiche e si stabilisce un
equilibrio d’interessi; la progressiva riduzione delle tasse sui prodotti
alimentari e quella delle giornate lavorative permisero un progresso che
non ha confronti precedenti anche nella stessa classe operaia. Nasce il
proletariato che comincia a chiedere il diritto di voto, pari a quello
concesso alla borghesia con il Reform Bill del 1832 e a richiedere
l’elezione di propri rappresentanti al Parlamento.
Si organizzano i primi sindacati che si consolidano grazie ad una
maggiore stabilità dell’occupazione. L’affermazione di un sindacato
duraturo è legata alla nuova fase storica ma lo è anche alla definizione
del nuovo assetto urbano e alla funzionalità di una società comunque
classista.
Il problema sociale delle classi più povere si presenta come quello
di una irresponsabilità nel recente passato dell’intero contesto sociale
nei riguardi delle sofferenze e delle necessità individuali e collettive di
tali ceti. Il vero trauma non sono tanto le condizioni di fabbrica quanto il
mutamento dell’ambiente sociale che non può essere misurato con il
metro dell’evoluzione del tenore di vita espresso esclusivamente in beni
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di consumo acquisibili. Bisogna infatti tener presente l’espansione
demografica ed economica, l’urbanesimo accelerato, la generalizzazione
dell’economia di mercato, la monetizzazione dei rapporti sociali
(mercificazione dei prodotti e del lavoro) e il trionfo del libero
commercio, sostenuto coerentemente dall’iniziativa della classe politica
e dello stato. Nella tradizione puritana, lo sviluppo di un nuovo
atteggiamento verso il lavoro è rintracciabile già dagli ultimi decenni del
Settecento; il nemico della società viene individuato nell’ozio e nelle
ricreazioni brutali e superstiziose. L’avvento della fabbrica crea di colpo
il problema di foggiare su scala di massa una classe operaia idonea,
disciplinata secondo i ritmi oggettivi della macchina, disposta a
rinunciare ai costumi di libertà, d’irregolarità d’impiego ed alla
concezione del lavoro considerato esclusivamente per la semplice
sopravvivenza e che rappresentano la caratterizzazione della società pre-
industriale. Si richiedono invece orari precisi, regolarità di applicazione,
riduzione delle vacanze volontarie, disponibilità di lavoro sotto
sorveglianza e direzione esterna, abiti sobri, ricettività agli incentivi
morali-pecuniari. D’un colpo l’attività del lavoro deve essere superata e
nettamente distinta da quella ricreativa
3
.
3
E. Grandi L’Inghilterra vittoriana, in F. Marucci, Il Vittorianesimo, Il Mulino,
Bologna, 1991, pp. 362-363.