3
Per Nietzsche e Arendt, invece, i caratteri che ogni azione deve
possedere hanno tutt'altro aspetto: essa deve essere libera e spontanea,
deve portare ad esistenza qualcosa che prima non c'era, deve essere
imprevedibile e, soprattutto, deve essere valutata e considerata senza
alcun riferimento a categorie disponibili, rigettate in quanto false e
usurate, quali scopi, fini, motivazioni, cause, effetti, per non parlare poi
delle valutazioni di ordine morale, assolutamente estranee al loro
pensiero; unici criteri appropriati per questa forma di attività umana sono
la bellezza e la grandezza, la capacità e la qualità di illuminare il mondo
e mostrare agli altri una singolarità nella sua originale irripetibilità.
Questo esito è reso possibile dal fatto che ogni individuo è, nella sua
assoluta diversità, unico, singolare, senza paragoni né confronti con tutti
gli altri, e per questo motivo può compiere solo azioni uniche ed
originali; essendo diverso da ogni altro, non può allo stesso tempo essere
uguale a tutti gli altri, perché questo implicherebbe proprio il
soffocamento delle qualità più personali e più distintive che possiede. Se
poi la società, per certi fini e per certi motivi, abbia deciso di creare
un'eguaglianza fittizia e artificiale, cui attribuire giudizio e
considerazioni positive o negative, sarà uno dei temi che si tratteranno.
Per Arendt, l'azione così concepita ha luogo nel mondo pubblico, nello
spazio politico, ovvero in quello spazio in cui ogni individuo, reso
uguale artificialmente agli altri cittadini, può, attraverso discorsi
eccellenti e atti grandiosi, raggiungere la gloria, condizione meritevole di
essere ricordata e celebrata, che rende possibile il rinnovarsi delle sue
gesta anche fra le generazioni future.
Per entrare, invece, più specificatamente nel dettaglio della
presentazione di ciò che segue, il lavoro è diviso in quattro capitoli,
ognuno dei quali tratta un argomento specifico, sempre analizzato
4
attraverso il confronto fra Arendt e Nietzsche e la loro teoria dell'azione,
considerara da un punto di vista estetico.
Il primo capitolo riguarda la discussione della società a loro
contemporanea, la valutazione, positiva o negativa, delle sue istituzioni
politiche, e di ciò che esse hanno comportato. Per entrambi, in maggior
misura per Arendt, la stabilizzazione degli stati nazionali e dei loro
governi ha prodotto un avvicinamento, anzi, una confusione, fra il regno
pubblico e il regno privato (considerati come lo spazio politico,
condiviso con gli altri cittadini il primo, e lo spazio intimo, personale,
domestico, il secondo) visto che la crescente affermazione del sociale,
spazio ibrido che caratterizza ogni campo della vita sia individuale sia
collettiva, ne ha cancellate le differenze e le peculiarità. Questa
dimensione sociale è rappresentata e identificata dal governo
burocratico, che regola, tramite norme di comportamento uguali per tutti
e non derogabili, la società di massa, ovvero la società formata dalla
moltitudine indistinta e indifferenziata delle persone, la cui importanza
deriva dalla comune appartenenza al Tutto, dall'utilità a favore
dell'insieme, dove la pretesa di distinzione, di indipendenza è un pericolo
e un affronto all'armonia e alla sicurezza della comunità. Sullo sfondo di
questo discorso, Nietzsche e Arendt fanno riferimento all'isituzione della
polis greca, considerata e indicata per le molte qualità peculiari nel
rapporto tra singolarità e politica che rappresentava (e rappresenta
tutt'oggi), modello a cui fare riferimento e dal quale prendere ispirazione,
non certo nostalgico e patetico tentativo di ritorno al passato.
Nel secondo capitolo il tema sviuppato è quello dell'esistenza o
meno di una realtà oggettiva e delle sue manifestazioni. Per Nietzsche e
Arendt non è possibile separare due mondi, uno vero e uno apparente,
come è stato fatto in tutta la storia della filosofia, in forme diverse, ma
5
che sempre presupponevano un mondo delle esperienze, terreno, e uno,
ultraterreno, dove veniva decisa e giudicata la nostra sorte. Questa
separazione è da negare nel modo più deciso, così come è da affermare,
infine, che essere e apparire coincidono. Questa realtà, d'altra parte, può
manifestarsi in vari modi: per Arendt, ciò che è visto e sentito da tutti la
costituisce, e quindi il suo carattere fondamentale è la pluralità, la
presenza di più sguardi e ascolti attorno ad un fatto o ad un fenomeno.
Questa stessa realtà può manifestarsi attraverso espressioni non materiali
quali l'immaginazione, il Mito, la metafora, vale a dire manifestazioni
create dagli esseri umani, condizioni che rappresentano la verità per
ognuno di noi, ma che devono la loro origine e la loro istituzione e
consolidamento alla volontà degli individui, al loro accordo, alle
convenzioni immutabili e inattaccabili che rendono la vita in comune
stabile e priva di pericoli, di incertezze, di dubbi. Da questo punto di
vista, sia Arendt sia Nietzsche (soprattutto quest'ultimo) cercano di
mettere in luce come queste regole, queste certezze che teniamo per vere,
per fisse, per "naturali", altro non siano che una nostra opera, e come la
dicotomia verità/menzogna (essere/apparire) si situi in un terreno
intricato e complesso, dimenticato e inesplorato (inesplorabile?).
Nel terzo capitolo, la cultura e l'arte hanno lo spazio per
dimostrare l'importanza e l'interesse che rivestono per i due autori
considerati, in quanto fenomeni che allietano e permettono un'esistenza
serena agli esseri umani, degna e meritevole di essere vissuta. L'arte,
come manifestazione estetica che irradia bellezza e grandezza, è la
pratica con cui gli individui possono attraversare il mondo, possono
celebrare, gioiosamente, la esclusività dell'esistenza, possono addirittura
giustificare la loro venuta sulla terra. La cultura, e l'opera d'arte, al suo
interno, ha la caratteristica decisiva di essere priva di funzione (in un
6
mondo dove il principio di utilità prima, e di soddisfazione per il
maggior numero di persone poi, è il criterio per valutare ogni cosa), di
essere senza praticità, senza un valore materiale e immediato, e proprio
in questo risiede la sua importanza, oltre che nel fatto che, nelle sue varie
forme, è il mezzo attraverso cui gli individui vengono legati e compresi
nella società, trascendendo e prescindendo dai singoli, nel senso che è un
modello di riferimento istintivo, implicito nella formazione e nella
crescita di ciascun individuo. I modelli culturali, allora, data l'importanza
che rivestono per il singolo individuo e per il rapporto che questo ha con
gli altri individui e con la società nel suo insieme, vengono studiati nel
loro rapporto con due campi fondamentali della vita di tutti, cioè la
politica e la scienza.
Nel quarto e ultimo capitolo viene analizzata l'azione nei suoi
aspetti di unicità e irripetibilità, vengono enumerati i caratteri che
accomunano le teorie di Arendt e Nietzsche, viene ribadita e riaffermata
la sua importanza contro l'oblio e l'inutilità in cui è stata confinata
dall'usurpazione tecnocratica e utilitarista dell'epoca moderna, la sua
indipendenza da cause, motivi, fini, effetti e scopi, e l'esclusività del suo
unico criterio valutativo, la bellezza e la grandezza della sua
performance, senza riferimenti ad un prodotto o ad una realizzazione
finale, ma solo all'esecuzione in se stessa. Entrambi, ancora, celebrano la
sua caratteristica di essere unica e originale, distinta da ogni altra, dato
che ogni individuo è unico e distinto da tutti gli altri membri
dell'umanità, e ognuno deve porsi e adeguarsi a propri criteri
interpretativi e valutativi, personali e indipendenti. Ogni individuo, in
ogni caso, non è un unico "io", ma una pluralità di sé, e l'identità che si
manifesta nelle sue azioni e nelle sue parole non è la sua vera e più
personale essenza, che non è mai conoscibile completamente e fino in
7
fondo. L'azione viene vista come discorso (politico) per Arendt,
manifestazione che non può mai essere separata dall'atto stesso, e come
linguaggio per Nietzsche. La parola, in tutte le sue forme, le sue regole, i
suoi utilizzi, ha importanza basilare, perché ha a che fare sia con la
formazione e la manifestazione del pensiero in ciascuno, sia con la
comunicazione con gli altri individui. E' inoltre tramite di relazione, di
apprendimento, di presa di coscienza individuale, e in rapporto alla
comunità, per cui, anche in questo caso, si ha il problema
dell'indipendenza, dell'autonomia e della possibibilità di una scelta fra
varie alternative, della formazione della parola e delle sue cause ed
origini, del suo controllo e della sua trasmissione e trasformazione, in
una parola, del suo significato all'interno della ragnatela delle relazioni
umane.
8
Capitolo 1
CRITICA DELL'ETA' MODERNA
Di estrema attualità appaiono ancora oggi le molte espressioni di
critica, di rifiuto, o quantomeno di disapprovazione che Arendt e
Nietzsche rivolgono ad alcuni aspetti della modernità, riferendosi certo
alle civiltà e alle istituzioni occidentali, ma che tanto si sono imposte da
diventare punti di riferimento universali.
Il punto di partenza è che la critica rivolta a principi, istituzioni,
comportamenti, valori dell’età moderna non comporta il rigetto della
modernità nella sua interezza, motivato magari da un progetto di ritorno
alle istituzioni ed ai valori dell’antichità e dell'amata Atene (cui qualche
critico allude saltuariamente), oppure, come si direbbe soprattutto oggi,
un ritorno al “buon selvaggio” e al “buon tempo antico”. L’allusione alla
polis greca serve ai due come modello a cui fare riferimento per
migliorare, oppure per accentuare, la censura di un aspetto dell’era
moderna che respingono. La modernità coincide in questo senso con il
progresso come livello tecnologico, sociale e culturale raggiunto, le
istituzioni politiche e sociali che si andavano diffondendo in Europa con
quello che ciò comportava, principalmente l’entrata in scena trionfale e
pomposa delle masse, i valori e i principi politici e morali prevalenti, e il
conseguente comportamento dell’uomo e della donna sul piano
individuale e collettivo.
9
Il confronto fra Nietzsche e Arendt, due pensatori che concordano
fortemente su alcuni punti pur differenziandosi per altri versi, è qui
proposto allo scopo di mostrare una via, un mezzo per non fermarsi ad
una critica dei lati negativi dell’epoca moderna, non arrendersi ai valori
morali e politici dominanti che rendono l’Uomo un essere indistinto e
spersonalizzato, membro indifferenziato di una società omogenea e
asettica, ma di oltrepassare il rifiuto all'attività e all'apatia proponendo un
diverso approccio all’azione (politica) che valorizzi l’individuo come
unico e vitale. I due pensatori sono messi a confronto per la loro comune
teoria riguardante l'azione politica che dà un senso alla vita degli esseri
umani, attribuisce un significato alla loro esistenza, permette loro di
distinguersi e compiere atti degni di essere ricordati e celebrati, che
servano da esempio per le generazioni future che li ricorderanno e li
tramanderanno attraverso le loro storie. Questa teoria dell'azione politica
è definita da un punto di vista estetico, nel senso che l'azione si inserisce
in un mondo dove le cose hanno un'apparenza, un aspetto, e la loro
bellezza o bruttezza ha un significato, perché il loro compito è di dare un
sollievo, una giustificazione alla venuta dell'uomo e della donna sulla
terra. Come asserisce bene Villa: “The aesthetic attitude toward existence
propounded by Nietzsche and the aestheticization of political action proposed by
Arendt have as their raison d’etre the redemption of a world rendered valueless by
the collapse of absolutes and authority”1. La bellezza e la grandezza degli
individui viene quindi rivelata dall'azione politica, dalla sua caratteristica
di essere unica e innovativa, di essere in strettissimo rapporto con l'arte e
la cultura.
Arendt e Nietzsche seguono lo stesso percorso individuando nella
tradizione politica e filosofica occidentale (da Platone in poi, passando
per l’avvento e il consolidamento del Cristianesimo) una netta ostilità
10
all’azione, alla libertà d’iniziativa dell’individuo. Arrivati in epoca
moderna, le sicurezze e i pregiudizi che hanno accompagnato la storia
degli umani indirizzandoli a ciò che era giusto e buono e ciò che non lo
era, iniziano a vacillare, e si va alla ricerca di nuovi valori che
sostituiscano i vecchi ideali, ammuffiti e colpevoli, denunciati come non
più veri e non più vincolanti. Per entrambi la soluzione per uscire da
questa incertezza, per ridare un senso all'esistenza è agire, riaffermando
la dignità e il significato della politica, della vera politica, che è fatta di
azioni e discorsi, ed è il luogo dove tutti gli esseri umani che ne vogliono
fare parte possono incontrarsi, interagire fra loro e creare il mondo che,
precedendo la loro venuta, seguirà la loro dipartita. Rivelando il proprio
"io" unico e irripetibile nell'azione, nella vita politica, ogni singolo
raggiunge la vera libertà, mostra la volontà di avere un significato nel
mondo, di celebrare la bellezza dell'esistenza.
Da questo punto di vista, l'aspetto più importante è che all’azione non
possono più essere accostati criteri di valutazione quali motivi, scopi,
conseguenze: il parametro che si dovrà utilizzare da lì in avanti diventa
la performance stessa, l'esecuzione come un fine in sé. L’azione, quindi,
può e deve venire concepita e giudicata solo nei termini della sua
grandezza e/o della sua bellezza; l'azione libera e creativa offre la
possibilità di oltrepassare il quotidiano, il noto, di andare al di là del bene
e del male: “Aestheticizing action reedems its meaning, restores its
innocence, and places it beyond good and evil”2.
L’azione è, secondo Arendt, un fine in sé (e in questo si avvicina alla
concezione di Machiavelli e di Aristotele): “Diversamente dal mero
“comportamento” umano - che i greci, come tutti i popoli civili, giudicavano
secondo i “criteri morali”, tenendo conto di motivi e intenzioni da una parte e di
scopi e conseguenze dall’altra – l’azione può essere giudicata solo mediante il
11
criterio della grandezza”3; infatti i motivi e gli scopi, per quanto possano
essere ambiziosi e grandiosi, non sono mai univoci, perché appartengono
a diverse persone che hanno diverse qualità, diversi talenti, diversi punti
di vista, diversi interessi; è per questo che la grandezza e il significato di
ogni specifico atto può risiedere solo nella mera esecuzione, e non nella
sua realizzazione né nella sua motivazione.4
Dal punto di vista nitzscheano, d'altra parte, l’importanza dell’azione
risiede nel fatto che non c’è distinzione tra chi agisce e l’azione stessa,
così come è sempre stata concepita dalla tradizione occidentale, vale a
dire che non esiste nessun "essere" dietro od oltre il fare, il divenire;
"colui che agisce" è aggiunto come finzione al fare, perché il fare è
tutto,5 e non c’è differenza tra significato e significante. Agendo, l’attore
acquisisce un proprio, distinto stile, si differenzia, emerge, diventa “un
artista”, crea. Arendt associa la sua teoria dell'azione politica, che
descrive come un impegno e una partecipazione nella vita pubblica in
modo da raggiungere la vera felicità, "the public happiness", ad una
concezione del potere inteso come capacità di accordarsi su una linea di
condotta comune attraverso una comunicazione libera e mediata dal
dibattito. Al pari di Nietzsche, contrasta la riduzione di significato di
ogni azione alla morale, alla relazione con lo scopo, alla relazione
causa/effetto. Al contrario del pensatore che l'ha preceduta, però, è
conscia del pericolo di dare eccessiva enfasi ad uno spirito fieramente
agonistico dietro tutte le azioni genuinamente politiche; per questo
motivo, alla centralità nietzscheana della qualità agonistica dell'azione,
aggiunge l'elemento deliberativo che scaturisce dal confronto e
dall'accordo sia con l'azione sia col giudizio altrui. La modifica
dell'"agonismo esteticizzato" fa riferimento non a misure esterne od
estranee, ma al gusto. Secondo Dana Villa, infatti, la teoria arendtiana
12
del giudizio politico limita un eccessivo agonismo, senza abbandonare
l'esteticizzazione della politica: é l'appropriazione della Terza Critica di
Kant che permette di preservare la pluralità e la vera politica dal marcato
soggettivismo di Nietzsche e del suo modello agonistico.6 Ne risulta una
teoria dell'azione in cui virtù, agonismo e teatralità dominano il campo
pubblico che coinvolge tutti noi in quanto cittadini. Ma quello che a noi
più interessa è che entrambe le teorie rispondono all’esigenza e alla
volontà di sfondare la gabbia dell’uniformità, della mancanza di
creatività, di elevarsi e sottrarsi al numero, al gregge, al tentativo di
sostituire l’azione al comportamento, vale a dire l’iniziativa creativa,
originale, alla condotta e all’atteggiamento imposto, meccanico. Per
riaffermare la libertà dell’individuo e il suo significato nel mondo, il
tentativo qui proposto è la rivalutazione e la distinzione dell’io nella
società attraverso il compimento di azioni eccellenti ed espressive, che
vadano oltre il quotidiano e il prevedibile.
Sebbene strutturalmente simili, le due teorie hanno anche importanti
differenze. Ad esempio, l’estetica nitzscheana è per gli individui e non
per i gruppi, e i suoi effetti sono di individuare e, anche, isolare le
persone, piuttosto che metterle assieme, perché Nietzsche pensa che
nell’epoca attuale le condizioni negative dovute alla massa, alla folla,
alla presenza e al dominio del maggior numero possibile di persone, si
presentano tutte le volte che le persone si riuniscono, si concentrano per
un qualsiasi motivo, mentre per Arendt l’azione politica ha sempre
bisogno di pluralità, di uno spazio pubblico, di attori che agiscono e
discorrono, giudicano e sono giudicati, vedono e sono visti.
Arendt ritiene che la soluzione per uscire dalla confusione generata
dall'assorbimento dei vari gruppi sociali in una società unica, dal
discredito e dal disinteresse verso la vita pubblica e la politica, sia
13
riaffermare la possibilità di un’autentica azione politica che contrasti, o
almeno resista, alla crescita del sociale e dell’amministrazione
burocratica dello stato moderno. Cerca quindi un’affermazione pubblica,
un luogo dove dimostrare, attraverso l’interazione e il discorso con gli
altri, la propria virtù e individualità per raggiungere il vero scopo che è
quello di un’esistenza degna di essere vissuta, celebrata e ricordata, e,
chissà, addirittura tramandata7; infatti l'azione, che fonda e conserva gli
organismi politici, istituzioni, cariche e norme, crea le condizioni per il
ricordo, vale a dire la storia. Nietzsche invece ritiene che un periodo di
preparazione e di educazione debba precedere l’avvento di una grande
politica del futuro, che sarà aristocratica, in cui si avrà il dominio sulla
massa da parte di pochi uomini superiori, leaders eroici glorificati in
quanto individui che affermano una creatività concepita senza limiti
politici e sociali.8
14
I - SOMIGLIANZE E DIFFERENZE
La teoria di Arendt e quella di Nietzsche hanno in comune la premessa
fondamentale che non c’è differenza tra azione e agente, che colui il
quale compie un’azione e l’adempimento stesso di quella determinata
azione sono la stessa cosa, coincidono. Da questo discende che la
divisione, la gerarchia tra causa e effetto, il vedere nel manifestarsi di
ogni fenomeno due momenti separati e separabili fra di loro, il pensare
l’azione come effetto successivo e inevitabile di qualcosa di
precedente, di intenzionale, come derivata da qualcosa che può essere
chiamata volontà, o intenzione o quant’altro che ne determina
l’accadimento, è per entrambi una falsificazione da contrastare, come
in effetti fanno con tono deciso. A questo proposito, Nietzsche riporta
il famoso esempio dell'interpretazione popolare del fulmine, che
separa il fulmine dal suo baleno, considerando quest'ultimo come un
fare, azione di un soggetto chiamato fulmine, per descrivere la morale
popolare che separa la forza dalla manifestazione della forza,
credendo erroneamente nell'esistenza di un soggetto che con la sua
determinata volontà provoca un effetto, l'azione, che deriva da lui ma
ne è separato.
Fin dall’antichità si è sempre posto il valore di un’azione
nell’intenzione, nello scopo per cui si è agito; ora che diventiamo
sempre più consapevoli della mancanza di motivazioni in ciò che
avviene, ogni cosa è priva di senso: “ogni senso si trova nell’intenzione, e
posto che l’intenzione manchi completamente, manca anche completamente il
senso. Per questo apprezzamento si era stati costretti a trasferire il valore della
vita in una “vita dopo la morte”, o nella progressiva evoluzione delle idee, o
dell’umanità, o del popolo, o in un’evoluzione che porta al di là dell’uomo. (…)
Bisogna capire che un’azione non è mai causata da uno scopo; che scopo e mezzi
15
sono interpretazioni”9. Tra essere e apparire non c’è una frattura, una
separazione, è solamente una menzogna operata dall'individuo,
soprattutto attraverso il linguaggio, in vista di particolari fini, per
esempio la possibilità e la comodità di credere in un soggetto
indifferente libero di scegliere, di poter imputare al forte la sua stessa
forza, e al debole la sua debolezza come libera scelta, come volontà.
Per Arendt, la credenza che una causa debba essere di rango superiore
all’effetto, in modo che si possa agevolmente svalutare l’effetto
riconducendolo alla sua causa, è tra le falsità metafisiche più antiche e
radicate.10 In effetti, questa scomposizione ha permesso di dare alla
realtà e all’effettualità un carattere illusorio, in cui tutto dipende da
qualcosa di altro, di distaccato, col risultato che ogni cosa fatta poteva
essere fatta diversamente, allo scopo di screditare l’azione, di darle un
connotato pericoloso e di incertezza che allontana l’individuo da essa
e rivaluta la non-azione, la contemplazione, la passività, l'accettazione
e la rassegnazione, perfino la fatalità. L'intrinseca contingenza
dell’azione politica frusta la determinazione di scopi da parte
dell’attore, ne accresce l’ostilità verso di essa – sentimento che tutti e
due affermano essere alla base della nostra tradizione filosofica.
L’uomo, secondo Arendt, ha allora cercato un modo per sfuggire a
questa contingenza, ha cercato un sostituto a questa azione di cui non
poteva conoscere il risultato e, con Platone, ha dato all’agente il
mezzo di controllare quello che aveva iniziato, neutralizzando la
pluralità e reinterpretando l’azione come fabbricazione; con ciò,
l’azione diventa semplicemente l’esecuzione delle operazioni
necessarie al raggiungimento di un dato fine, perdendo così il suo
carattere di originalità e imprevedibilità. Nietzsche invece, nella
Nascita della tragedia, critica Socrate, in cui vede un mutilatore
16
dell’esistenza, in quanto per lui ogni cosa deve essere intelligibile per
essere bella, e poiché la realtà non lo è, stabilisce che essa è assurda e
vorrebbe quindi correggerla col ricorso alla dialettica, credendo
erroneamente che il pensiero giunga, sul filo conduttore della
causalità, nelle profondità più abissali dell’essere: dei concetti di
causa ed effetto bisogna servirsi allora solo come di concetti, di
finzioni convenzionali che adottiamo solamente per indicare,
intendersi, comunicare, ma non per spiegare, in quanto soltanto noi ci
siamo inventati, abbiamo creato ed attribuito le cause, le motivazioni,
gli scopi, le relazioni, le leggi, perfino la libertà.11
Entrambi quindi denunciano la tendenza degli “schiavi” a separare
atto e agente: in questo modo, la credenza che l’identità precede e non
si confonde con l’azione è immensamente confortante per il debole,
perché gli permette di vedere la propria impotenza e incapacità ad
agire e distinguersi come una scelta; per entrambi, invece, la libertà
(che si raggiunge solo con il compimento di grandi azioni) non può
trovarsi nella scelta di non agire, né l’identità può essere qualcosa di
separato o separabile che precede l’azione. Ancora, tutti e due
avversano Platone in quanto il dualismo platonico tra “mondo
sensibile” e “mondo delle idee” appare loro come il preannuncio della
divisione che è stata operata anche dal cristianesimo e dalla metafisica
tra un “al di qua” terreno e un “al di là” divino, una separazione tra un
mondo vero, reale, ed uno apparente. Per Nietzsche c’è solo questo
mondo, non esiste nessun mondo vero dietro o oltre esso: proprio
perché nessun’altra realtà esiste, questo mondo non è più un mondo
apparente, è il mondo. Contro tutta la tradizione della religione, della
morale, della filosofia che ha creato valori trascendenti, ha creato
l’illusione di un aldilà ultraterreno svalutando l’esistenza, Nietzsche e
17
Arendt riaffermano la possibilità, la volontà, la capacità dell’uomo e
della donna di dare un significato alla propria vita e alle proprie azioni
senza farle dipendere da qualcosa o qualcuno d’altro o di diverso da
loro stessi.
Se su questi temi le due teorie convergono, per altri aspetti invece
presentano differenze anche marcate. La più importante, al riguardo
del vero o falso binomio essere e apparire, è che, mentre per Arendt la
realtà è costituita da ciò che appare, da ciò che è visto e sentito dal
maggior numero possibile di persone, per Nietzsche non ci sono cose
vere in sé, i fenomeni sono solo interpretazioni a loro attribuite che
possono derivare da diverse prospettive. L’essenza di una determinata
cosa è solamente un’opinione riguardo a quella cosa, la cosa "in sé" è
un controsenso, una falsità che noi aggiungiamo alle cose allo scopo
di intenderci, di definire esattamente e convenzionalmente il mondo
che ci circonda.12 Da combattere è perciò la finzione, la
rappresentazione dogmatica che le cose hanno un’essenza in sé. Allo
stesso modo, il valore attribuito alle cose non è qualcosa di intrinseco
ad esse, di connaturato ad esse, ma una qualità, una proprietà che gli
individui hanno attribuito loro perché non lo possiedono
spontaneamente, è un artificio, un’aggiunta imposta dalla società: “ciò
che soltanto ha valore nel mondo attuale, non è che lo abbia in se stesso, secondo
la sua natura (la natura è sempre priva di valore): il fatto è invece che questo
valore gli è stato dato, donato una volta, e noi fummo a dare e donare! Soltanto
noi abbiamo creato il mondo che in qualche modo interessa gli uomini”13. La
dimostrazione di questo fatto è facilmente riscontrabile nel senso che i
valori, morali e non, attribuiti alle cose e ai fenomeni non rimangono,
nel corso della storia, sempre gli stessi, e neanche il grado di
approvazione o disapprovazione verso di essi rimane inalterato.