INTRODUZIONE
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politiche ed economiche in materia fiscale, che rendono tale campo di estremo interesse per la
Psicologia Economica, tanto da aver determinato lo sviluppo, a partire dagli anni ’60, con i lavori di
Schmolders (1959, 1970, 1975), Muller (1963) e Strumpel (1969), di una specifica area di indagine,
la Psicologia Fiscale.
Tale disciplina ha conosciuto un rapido sviluppo negli Stati Uniti, in Australia ed in numerosi paesi
dell’Europa continentale e settentrionale, caratterizzandosi per un approccio prevalentemente
empirico e di carattere psicosociale, applicando con successo ai propri oggetti di studio molte delle
più rilevanti conquiste teoriche proprie della Psicologia Economica, come nel caso della Prospect
Theory di Kahneman e Tversky, e giungendo, in anni recenti, ad una crescente integrazione tra i
suoi specifici ambiti di indagine, nonché ad un loro ampliamento al di là del tradizionale focus
sull’evasione.
Se, quindi, lo stato dell’arte della disciplina risulta, a livello internazionale, piuttosto maturo ed in
crescente evoluzione, altrettanto non può dirsi per il contesto italiano, nel quale la letteratura
psicologica in ambito fiscale è pressoché inesistente, fatta eccezione per alcuni recenti contributi
3
.
Ciò, inoltre, appare in contrasto con la concreta situazione del nostro paese, tanto per l’elevato
livello della pressione impositiva, che risulta tra le più alte in Europa
4
, quanto per le drammatiche
proporzioni assunte dal fenomeno dell’evasione che, secondo dati ufficiali dell’Agenzia delle
Entrate, ha raggiunto, nel 1998, una quota pari al 46% rispetto al dichiarato
5
(Petrini, 2005).
In considerazione di tutto ciò, l’obiettivo che ci si pone con il presente lavoro è quello di indagare,
nel contesto italiano e da un punto di vista prettamente psicologico, una tematica inerente la
tassazione, ma finora oggetto di scarse attenzioni, quale un bonus fiscale, con particolare attenzione
per gli effetti che il frame e l’appartenenza a diverse categorie contributive esercitano sulle
percezioni dei soggetti in merito ad esso. La scelta di tale oggetto di studio, oltre che dalla sua
originalità e rilevanza teorica e pragmatica, è stata motivata dalla volontà di interpretare i risultati di
un sondaggio, svolto in Italia nel 2005 da Eurisko, relativo alle opinioni dei cittadini in merito ad
una riduzione delle tasse operata dal governo allora in carica, dal momento che alcuni limiti
3
Berti e Kirchler, 2001 e 2002.
4
Nel 2003 la pressione fiscale ha raggiunto in Italia il 42,8%, contro la media del 41,5% dei paesi UE (Fonte: Istat,
Rapporto annuale 2003).
5
Ciò significa, quindi, che per ogni 100 euro di imponibile dichiarato, gli italiani nascondono al fisco altri 46 euro.
INTRODUZIONE
7
metodologici non avevano consentito di comprendere in modo univoco quali, tra vari fattori
6
,
avessero influito sui giudizi espressi dai soggetti coinvolti
7
.
Lo scopo della ricerca sarà perseguito con un duplice percorso: da un lato, infatti, verrà condotta
un’analisi teorica sul tema, prendendo in considerazione i contributi che maggiormente risultano
rilevanti per comprendere, da una prospettiva originale ed in linea con le più recenti acquisizioni
teoriche e metodologiche proprie della Psicologia Fiscale, l’oggetto di indagine; dall’altro sarà
progettata e condotta una ricerca sperimentale che, incentrandosi su un bonus fiscale, consenta di
raccogliere evidenze relative agli effetti del framing e dell’appartenenza a differenti categorie
contributive sulle percezioni, nonché di integrarle con numerose informazioni in merito alle
opinioni ed agli atteggiamenti che i diversi gruppi di contribuenti coinvolti condividono sulla
tassazione.
Il presente lavoro si compone, quindi, di quattro parti. Nella prima sarà presentata una breve
panoramica storica sull’evoluzione della Psicologia Fiscale, con particolare attenzione al suo
inserimento nel più ampio quadro teorico degli studi psicologici sulla materia economica, per poi
passare ad affrontarne le principali aree di indagine, con alcuni cenni alle sue caratteristiche
metodologiche ed ai costrutti oggetto di analisi, al fine di delineare lo stato dell’arte della disciplina.
Il secondo capitolo sarà dedicato alle principali acquisizioni della Psicologia Fiscale in merito ai
fattori di carattere psicologico e sociale capaci di influenzare percezioni, atteggiamenti e
comportamenti dei contribuenti relativamente alla tassazione, focalizzandosi sulle conoscenze, sugli
orientamenti etici e sulle norme sociali che ne orientano i giudizi e le azioni, con particolare
attenzione a quanto concerne la loro appartenenza a specifici gruppi professionali e categorie
contributive. Nel terzo capitolo verrà presentato uno degli approcci più rilevanti nella ricerca
psicologica in ambito fiscale, ovvero quello, teoricamente ancorato alla Prospect Theory, relativo
agli effetti del framing, al fine di evidenziarne la rilevanza per lo studio dei comportamenti e dei
giudizi dei contribuenti e, avvicinandosi allo specifico oggetto di indagine di questo lavoro, per
trarre indicazioni sulla sua utilità nella comprensione delle percezioni e delle reazioni
all’introduzione di un bonus fiscale. Il quarto capitolo, infine, presenterà i risultati dell’indagine
sperimentale condotta e, a partire da questi, fornirà spunti di riflessione teorici ed indicazioni
pragmatiche in merito agli effetti esercitati dalle variabili indipendenti sulle risposte dei contribuenti
all’introduzione di un bonus fiscale, consentendo anche di formulare un’interpretazione per i
risultati del sondaggio condotto nel 2005 e precedentemente descritto.
6
In particolare non era stato possibile chiarire se quanto emerso fosse da attribuire al frame entro il quale il bonus era
stato presentato oppure alla categoria contributiva di cui i rispondenti facevano parte.
7
Per informazioni più dettagliate sul sondaggio in questione cfr. par. 4.1 (pag. 124-127).
INTRODUZIONE
8
In conclusione, quindi, si possono individuare due fondamentali obiettivi per questo studio: a livello
speculativo, infatti, si sono indagati, da una prospettiva psicologica, le percezioni, gli atteggiamenti
e le reazioni emotive dei soggetti all’introduzione di un’iniziativa di politica fiscale, al fine di
comprendere i processi attraverso i quali essi sono influenzati dal frame e dalle caratteristiche
psicologiche e sociali dei contribuenti; a livello pragmatico, parallelamente, si sono indagate, nel
contesto italiano, le conseguenze che l’introduzione di un bonus fiscale, ed in particolare la
modalità con cui esso viene descritto, possono esercitare, tanto sugli atteggiamenti e le opinioni dei
cittadini verso la fiscalità, quanto sulla loro propensione al consumo ed al risparmio, con evidenti e
rilevanti ricadute sia di carattere politico e sociale, sia di tipo economico.
CAPITOLO 1
9
Capitolo 1. LA PSICOLOGIA E LE TASSE
La rilevanza delle componenti psicologiche nei processi e nei fenomeni relativi alla tassazione ha
fatto sì che, a partire dagli anni ’60, alcuni studiosi della Psicologia Economica (tra questi,
Schmoelders, Muller e Strumpel, ma anche lo stesso Katona) dedicassero le loro attenzioni
all’ambito fiscale, dando vita ad un ramo di studi che, nel decennio successivo, assunse una sua
indipendenza, sviluppando oggetti di indagine peculiari e specifiche metodologie di ricerca: la
Psicologia Fiscale.
In questo capitolo saranno esplorate alcune delle principali caratteristiche della disciplina,
soffermandosi inizialmente sul background entro cui essa si è sviluppata, ovvero la Psicologia
Economica, per poi tracciare le linee della sua evoluzione storica fino ai giorni nostri (par. 1.1) e
descriverne le principali aree di indagine (par. 1.2), tra le quali assumono particolare rilievo quelle
relativa alle conoscenze, percezioni ed atteggiamenti dei contribuenti in merito alla tassazione (par.
1.2.1), all’evasione (par. 1.2.3), agli effetti delle riforme fiscali (1.2.3), alle relazioni tra autorità e
cittadini (par. 1.2.4) ed al rapporto tra tasse ed offerta di lavoro (par. 1.2.5). In seguito saranno
fornite alcune definizioni e descrizioni dei principali costrutti psicologici indagati dalla disciplina,
cioè percezioni, atteggiamenti e comportamenti (par. 1.4), per poi concludere con brevi cenni di
carattere metodologico (par. 1.5).
1.1 Il contributo della psicologia all’indagine sul tema fiscale
1.1.1 Il background: la Psicologia Economica
Una sintetica definizione della Psicologia Economica è offerta da Warneryd (1988, pag. 9) secondo
il quale si tratta di “una disciplina che studia i meccanismi ed i processi psicologici che sottostanno
al consumo ed ad altri comportamenti economici. Essa si occupa delle preferenze, scelte e decisioni
e dei fattori che le influenzano, come delle conseguenze delle decisioni e scelte rispetto alla
CAPITOLO 1
10
soddisfazione dei bisogni. Inoltre essa tratta dell’impatto degli eventi economici sul comportamento
e sul benessere delle persone. Questi studi possono riferirsi a differenti livelli di aggregazione:
dalla famiglia al singolo consumatore al macrolivello di gruppi e nazioni”.
Già alla fine dell’800 l’affermazione delle Teorie Neoclassiche all’interno del pensiero economico
determinò, sebbene per un breve periodo, un avvicinamento tra questa disciplina e la psicologia.
Infatti, il concetto di utilità su cui tali teorie si basavano, identificandola come origine del valore
economico, assunse inizialmente la valenza di uno strumento di unificazione delle scienze umane;
tale suggestione era accentuata proprio dalle dimensioni psicologiche che il concetto presentava, in
quanto apparentemente misurabile con la strumentazione della nascente Psicologia Scientifica. Alla
base di questa impostazione vi era l’idea che l’Homo Oeconomicus fosse caratterizzato da una
“natura umana omogenea, indipendentemente dalle differenze degli individui” (Demenualaere,
1996, cit. da Ferrari e Romano, 1999, pag. 2) e che il movente fondamentale del suo agire potesse
essere oggetto di un approccio scientifico, al pari di una variabile fisica. Il paradigma neoclassico
negli anni successivi subì una notevole evoluzione, allontanandosi in modo sempre più marcato da
tali formulazioni psicologiche, tanto che il successivo confronto tra le due discipline sarà connotato
da una fondamentale divergenza di opinioni, specie per quanto concerne la concezione di utilità e la
visione di uomo sottesa.
L’interesse della psicologia per la materia economica, infatti, conobbe un rapido sviluppo solo a
partire dagli anni ’50, ponendosi da subito in una posizione decisamente critica rispetto alla
prospettiva condivisa dalle teorie economiche neoclassiche, soprattutto attraverso i contributi di
alcuni autori nel campo della Psicologia Sperimentale e di quella Sociale.
Rispetto al primo ambito sono certamente degni di essere menzionati Edwards (1953), per la sua
Teoria dell’Utilità Attesa, che contribuì allo studio del decision making umano, integrando la
classica teoria economica con una componente soggettiva, espressa dal valore che ogni decisore
attribuisce all’utilità, e Simon (1976) che, sottolineando come le capacità computazionali del
sistema cognitivo umano siano limitate, suggerì di sostituire la concezione astratta di razionalità
propria dell’economia (substantive rationality) con una che tenesse conto dei limiti imposti dalle
capacità umane e dal contesto (procedural o bounded rationality), giungendo così ad abbandonare
la visione classica dell’ Homo Oeconomicus perfettamente razionale.
Nonostante la rilevanza di questi studiosi, è nell’ambito della Psicologia Sociale che si registra il
contributo più importante per lo sviluppo dell’indagine sul comportamento economico, con la
pubblicazione, nel 1951, da parte di Gorge Katona, dell’opera Psychological Analysis of Economic
CAPITOLO 1
11
Behavior, nella quale è introdotto il concetto di aspettative, che costituisce una delle più fertili
connessioni tra Psicologia Sociale ed economia. Infatti esso non si limita a fare riferimento al grado
di incertezza relativo all’anticipazione dei risultati delle scelte economiche effettuate dai soggetti,
ma considera le modalità attraverso le quali tali aspettative di sviluppano a partire dall’esperienza
passata e dalle attese che le persone formulano riguardo alla loro futura situazione economica e a
quella più generale del paese in cui vivono. E’ proprio questa visione dinamica del comportamento
economico a rendere evidente come aspetti psicologici quali le percezioni, le attese, i sentimenti e
gli atteggiamenti dei consumatori abbiano un’influenza rilevante non solo sulle scelte individuali
ma anche, ad un livello aggregato, sull’andamento macro-economico. Tale concetto è anche
operazionalizzato da Katona attraverso l’ Index of Consumer Sentiment, l’indicatore utilizzato nelle
survey condotte dallo psicologo per rilevare i Climi di Consumo, ovvero le percezioni, le aspettative
e la fiducia dei consumatori, e per comprendere come essi possano influire in modo rilevante
sull’andamento dell’economia. Tali indagini hanno anche consentito di mettere in rilievo come ad
influire sulle scelte di consumo e risparmio non siano tanto i valori assoluti in termini di guadagni e
prezzi, né le oggettive politiche economiche, quanto le percezioni ed i sentimenti delle persone
rispetto alle loro variazioni; ciò, inoltre, si rivelerà di particolare rilievo proprio rispetto alla
tassazione, dal momento che lo stesso Katona sottolinea come anche i cambiamenti nelle politiche
fiscali, spesso, non diano i risultati attesi, a causa dell’influenza esercitata sul comportamento dei
contribuenti da elementi psicologici, quali la fiducia nel governo, gli atteggiamenti verso il fisco e
la percezione delle riforme in questione. E’ bene sottolineare come tali considerazioni non
conducano Katona a rifiutare in modo netto la teoria economica, ma siano la base per evidenziare
alcune aree in cui essa risulta inadeguata, rendendo auspicabile un’integrazione con concetti di
ordine psicologico, quali le modalità di processazione dell’informazione ed il decision making,
l’influenza sociale e le motivazioni alla base dell’azione umana. Ciò che, invece, viene respinto in
questa visione dell’agire economico, in quanto incapace di rendere conto di come effettivamente le
persone affrontino la realtà e prendano le loro decisioni, è l’idea di Homo Oeconomicus quale attore
universale razionale, guidato nel suo comportamento dal fine ultimo di massimizzare l’utilità
ottenibile tramite le proprie scelte, mosso da scopi egoistici e non soggetto all’influenza del suo
contesto sociale. Infatti, le persone hanno capacità cognitive limitate e considerano le varie opzioni
che si presentano loro in funzione delle esperienze passate, delle abitudini e delle aspettative e dei
desideri per il futuro; le loro scelte sono sempre influenzate dal contesto sociale entro cui si
realizzano e dal quale non possono essere isolate; infine le motivazioni incidono fortemente
CAPITOLO 1
12
nell’orientare l’attenzione degli individui solo verso alcuni stimoli provenienti dall’ambiente, che,
perciò, esercitano un influenza selettiva sui loro processi decisionali. Il risultato di tutto ciò è che gli
effetti dei concreti cambiamenti economici sul comportamento non possano essere previsti a priori,
senza includere la considerazione di tutte queste variabili di mediazione di carattere prettamente
psicologico.
Un altro contributo fondamentale allo sviluppo della Psicologia Economica è rappresentato dalla
Prospect Theory, elaborata da Kahneman e Tversky nel 1979
8
a partire da alcune critiche alla
Teoria dell’Utilità Attesa, basate sulla sua inadeguatezza quale modello descrittivo e predittivo del
comportamento economico e delle scelte in condizioni di incertezza. In particolare gli autori
riportano numerose evidenze empiriche capaci di smentire alcuni degli assunti fondamentali di
questa teoria, tra i quali: l’idea che le decisioni siano effettuate solo in funzione del valore assoluto
dello stato finale cui conducono, il principio per cui i decisori sarebbero avversi al rischio tanto per
le scelte che implicano guadagni quanto per quelle determinanti perdite e l’assunzione che i risultati
siano soppesati solo in funzione della loro probabilità di realizzazione.
A partire da tali evidenze è quindi formulata la nuova teoria, secondo la quale il valore delle varie
alternative è assegnato attraverso il confronto tra esse ed un punto di riferimento soggettivo che
conduce a considerarle in termini di guadagni e di perdite, anziché del loro valore assoluto, ed in cui
alle probabilità sono sostituiti pesi decisionali capaci di riflettere l’importanza soggettivamente
attribuita all’opzione nel contribuire al risultato finale. Ciò che ne deriva è una funzione concava
nell’area dei guadagni e convessa in quella delle perdite, presentante una maggior pendenza sia in
quest’ultima parte del piano cartesiano che in prossimità del punto di riferimento. Già queste
basilari caratteristiche della teoria sono sufficienti per illustrare come essa smentisca due dei
presupposti fondamentali della concezione dell’attore economico come di un decisore razionale,
ovvero la sua costante massimizzazione dei profitti in termini di valori assoluti e l’invarianza delle
sue preferenze. Infatti la dipendenza delle valutazioni dal punto di riferimento e l’avversione alle
perdite fanno sì che i soggetti effettuino scelte assai diverse a seconda del Frame, cioè delle
modalità con cui il problema e le varie alternative sono loro presentate, nonché in funzione della
loro situazione attuale, della lettura personale che essi ne danno e delle loro aspettative. In seguito le
prime formulazioni della teoria sono state estese a scelte prive di rischio, per spiegare il cosiddetto
“Effetto Dotazione” (Thaler, 1980) e a numerosi ulteriori ambiti oltre a quello economico;
nonostante non in tutti i casi si siano trovati riscontri per i fenomeni previsti dalla teoria e siano
8
Cfr. par. 3.1 (pag. 80-86).
CAPITOLO 1
13
state necessarie alcune revisioni rispetto alla formulazione iniziale, essa resta a tutt’oggi il miglior
modello descrittivo del comportamento di scelta umano.
A partire da questi fondamentali apporti teorici, la psicologia ha raggiunto una comprensione
sempre più approfondita del comportamento economico, ed ha sviluppato strumenti e metodologie
di indagine sempre più efficaci
9
.
Se, da un lato, tali sviluppi hanno indotto vari economisti ad includere elementi di carattere
psicologico nelle loro indagini, dall’altro le distanze tra le due discipline continuano ad essere
sostanziali, sia per quanto concerne gli assunti teorici di base sia riguardo ai presupposti
metodologici. Sul piano speculativo, infatti, l’economia continua a fare riferimento a tre assunzioni
relative all’agire umano che, come si è visto, sono state respinte dalle indagini psicologiche: la sua
motivazione fondamentalmente egoistica, la sua razionalità, intesa come massimizzazione
dell’utilità attesa, e l’invarianza delle preferenze che lo guidano. Al contrario la psicologia
sottolinea come le scelte dell’uomo siano sempre dipendenti dal contesto sociale, dalla modalità di
lettura della situazione e dal punto di riferimento con cui i possibili esiti sono confrontati,
conducendo perciò a risultati che spesso si discostano notevolmente dalla massimizzazione
dell’utilità per il singolo. E’ bene precisare che tale concezione dell’attore economico non conduce
a delinearlo come un essere irrazionale, le cui azioni risulterebbero perciò imprevedibili ed
aleatorie, bensì a sostituire una visione astratta della razionalità, così come potrebbe essere definita
da un osservatore esterno, con una situata, cioè strettamente connessa con le variabili situazionali,
sociali e soggettive che rendono una scelta sensata per quel particolare individuo, entro una
specifica situazione. Tali discrepanze a livello teorico sono strettamente riconducibili ad una
fondamentale differenza negli impianti metodologici delle due discipline: mentre l’economia
privilegia un’impostazione principalmente analitica, finalizzata alla costruzione di teorie generali e
normative sul funzionamento dell’attore economico, la psicologia (e quella sociale in particolare)
privilegia metodologie a carattere induttivo, capaci di descrivere, spiegare e prevedere con maggior
precisione, sebbene con un livello di generalizzazione assai più limitato, il comportamento
dell’uomo.
Sebbene tali differenze rendano ancora lontana la realizzazione di teorie e modelli comuni,
l’apporto della psicologia alla comprensione dell’agire economico è ormai riconosciuto in numerosi
ambiti, tra i quali quello fiscale risulta uno dei più promettenti, in virtù della rilevanza che in esso
assumono le percezioni, gli atteggiamenti ed i comportamenti dei contribuenti, ai quali spetta, in
9
Per un quadro complessivo cfr., ad esempio, Lewis, Webley, Furnham, 1995
CAPITOLO 1
14
ultima analisi, la decisione di collaborare con l’autorità o, al contrario, attuare comportamenti
elusivi o evasivi, con le conseguenti ripercussioni che, a livello aggregato, tali scelte comportano
sull’economia e la politica di un intero paese.
1.1.2 La Psicologia Fiscale: evoluzioni della disciplina e lineamenti di base
Un promettente ma, purtroppo, isolato contributo nel campo della Psicologia Fiscale ci è offerto, già
all’inizio del secolo scorso, da un’economista italiano, Amilcare Puviani. Egli, infatti, fu tra i primi
ad intuire la rilevanza delle dimensioni psicologiche nella finanza pubblica, sia a livello delle
conoscenze diffuse in campo fiscale, che rappresentano spesso il risultato di varie e sistematiche
distorsioni cognitive, sia a livello delle modalità con cui uno stesso tributo è percepito dai
contribuenti, soprattutto per quanto concerne la sua tollerabilità, che può variare a seconda di
numerose circostanze, quali lo stato emotivo della persona, o il fatto che il pagamento sia più o
meno frammentato. Sebbene il suo apporto risulti ormai datato sotto vari aspetti, risulta ancora
attuale l’enfasi posta dall’autore sulla centralità, nel problema fiscale, delle conoscenze e delle
percezioni dei contribuenti.
Solo a partire dagli anni ’60, però, si registra un vero sviluppo della disciplina, soprattutto in
Germania, Gran Bretagna, Olanda e nei paesi Scandinavi, seguiti, alcuni anni dopo, da USA e
Canada. Un pioniere in questo ambito di ricerca fu sicuramente Gunter Schmolders che, in un
volume intitolato “Fiscal Psychology: a new branch of public finance” (1959), descriveva la
Psicologia Fiscale come una nuova ed importante branca della finanza pubblica, capace di
incorporare sia analisi psicologiche dei processi decisionali dei politici in materia fiscale, sia,
soprattutto, una valutazione della tax mentality dei contribuenti, concetto con cui l’autore faceva
riferimento alle convinzioni sull’equità del sistema fiscale ed alla fiducia nella pubblica
amministrazione. In un lavoro successivo (1970) egli approfondì tale analisi, evidenziando
soprattutto come gli atteggiamenti dei contribuenti dipendano in larga misura dalle loro percezioni
delle caratteristiche del sistema fiscale, quali la solerzia dei controlli da parte delle autorità ed il
costo personale assunto dall’osservanza delle regole.
Lo stesso Katona, a partire da dati raccolti attraverso alcune survey condotte nel corso degli anni
’60, evidenziò un punto di estremo rilievo per la prospettiva psicologica nello studio della materia
fiscale, ovvero la non corrispondenza tra riforme nelle politiche fiscali e percezioni e
CAPITOLO 1
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comportamenti dei contribuenti. Ciò, se da un lato può essere attribuito ad una semplice ignoranza
dei cittadini rispetto ai cambiamenti occorsi, dall’altro, come enfatizza l’autore, è dovuto al fatto
che le persone siano guidate, nelle loro valutazioni e scelte, dalle loro abitudini, previsioni e
aspettative sull’andamento economico, più che dai fatti reali. Emerge, quindi, come siano aspetti di
tipo psicologico, quali la fiducia e le percezioni delle riforme fiscali, più che le caratteristiche
oggettive di queste ultime, ad avere un’importante influenza sulle azioni dei contribuenti.
Furono, però, due collaboratori di Katona, Eva Muller e Burkhard Strumpel, a condurre ricerche
ancora più focalizzate sugli atteggiamenti relativi alle tasse ed alla spesa pubblica, piuttosto che
sugli effetti delle politiche fiscali sui comportamenti. In particolare il lavoro della Muller (1963) si
incentrò sull’origine e sulla coerenza degli atteggiamenti verso le tasse e le politiche di spesa
pubblica, mentre Strumpel (1969) si interessò soprattutto delle percezioni e attitudini dei
contribuenti, aggregate nel concetto di tax mentality, quali variabili intervenienti tra il sistema
fiscale e la conformità dei cittadini alle sue norme.
Negli anni ‘70 numerose survey e valutazioni della tax mentality sono state condotte in Europa, per
indagare atteggiamenti ed esperienze di specifici gruppi di contribuenti, oltre che di interi aggregati
nazionali, al fine di comprenderne il ruolo nell’influenzare la propensione all’evasione, fenomeno
che ha sempre ricevuto un’attenzione prioritaria in quest’ambito di ricerca, sia per l’interesse che
assume a livello psicologico, coinvolgendo elementi valoriali, sociali ed etici, emotivi, cognitivi e di
problem-solving in condizioni di incertezza, sia per le profonde ripercussioni che il problema
comporta nel concreto funzionamento dei sistemi fiscali. Tutti gli approcci psicologici al tema si
sono nettamente distanziati da quello tipicamente economico, esemplificabile con quanto espresso
da Allingham e Sadmo (1972), che descrivono il contribuente come un essere razionale, disposto a
pagare le tasse finché la possibilità di essere scoperti e l’ammontare dell’ammenda superano i
vantaggi derivanti dall’evasione, indipendentemente da qualsiasi considerazione etica e sociale, in
linea con quanto previsto dalla Teoria dell’Utilità Attesa.
Dagli anni ’70 la disciplina trovò un terreno particolarmente fertile negli Stati Uniti, in
concomitanza con una serie di referendum tramite i quali i cittadini erano chiamati ad esprimere le
proprie preferenze in materia fiscale. Furono infatti condotti numerosi studi per meglio
comprendere gli orientamenti politici ed ideologici dei contribuenti, le loro percezioni e
atteggiamenti rispetto alle tasse, le motivazioni alla base dei giudizi espressi, sia per fare previsioni
più accurate rispetto ai possibili esiti di tali referendum, sia per spiegarne i risultati ed orientare
CAPITOLO 1
16
meglio le successive politiche fiscali; ciò consentì di comprendere più accuratamente i complessi
legami esistenti tra conoscenze, opinioni e preferenze espresse dai contribuenti, nonché di
confermare ancora una volta come le loro scelte siano sempre basate su percezioni delle situazioni e
dei costi e benefici che esse comportano, più che su valutazioni oggettive; inoltre tale contesto di
ricerca si rivelò particolarmente adatto a favorire un ulteriore sviluppo del già spiccato orientamento
pragmatico della disciplina.
Si può quindi affermare che, all’inizio degli anni ‘80, la Psicologia Fiscale si delineasse ormai come
una branca di studio consolidata, sebbene ancora in rapida evoluzione, a cavallo tra l’indagine
economico-finanziaria e quella psicologica. In particolare essa aveva già sviluppato un’autonoma
metodologia, avente come principale strumento l’uso delle survey sociali, e capace di differenziarsi
nettamente da quella propria della disciplina economica per il fatto di fondarsi su dati empirici,
relativi a percezioni, atteggiamenti e conoscenze dei soggetti, sempre considerati all’interno delle
loro relazioni sociali con i gruppi ed il contesto di riferimento.
In particolare furono proprio gli atteggiamenti, intesi come un’estensione del concetto di tax
mentality comprendente anche ideologie, valori e preferenze dei contribuenti rispetto alla
tassazione, ad essere oggetto di studio privilegiato, proprio per il loro ruolo di mediatori tra un
livello più astratto, quale quello ideologico, ed i comportamenti concreti.
Nel corso degli anni ’80 le riforme che coinvolsero i sistemi fiscali di molti paesi portarono
l’attenzione di numerosi ricercatori sull’influenza che queste possono esercitare sulle percezioni e
gli atteggiamenti dei contribuenti, nonché sui loro effetti a livello comportamentale. Emerse così
l’evidenza di uno scarso legame diretto tra singola riforma e cambiamenti nelle opinioni delle
persone rispetto al sistema fiscale, essendo queste più influenzate da atteggiamenti ideologici e
politici e dalle posizioni dei gruppi di riferimento (Scholz, Mc Graw, Steenbergen, 1992); ciò portò
a sviluppare la consapevolezza dell’utilità di riflettere maggiormente sui significati che le tasse e le
riforme potevano assumere per i contribuenti, nonché di valutare gli effetti cumulati dei
cambiamenti delle politiche fiscali nel tempo, anziché concentrarsi su provvedimenti isolati. Si
accrebbe così il livello di complessità dei fenomeni indagati, attraverso ricerche volte ad esplorare i
legami tra le caratteristiche dei contribuenti (quali il grado di istruzione, gli orientamenti etici, il
tipo di impiego, le norme sociali di riferimento), le loro percezioni ed atteggiamenti e, in ultima
analisi, gli orientamenti comportamentali in termini di evasione o conformità alla legge. Ciò portò
anche allo sviluppo di studi più articolati, condotti con svariati metodi, dalle classiche survey alle
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interviste in profondità, fino agli esperimenti di laboratorio. Furono proprio questi ultimi ad essere
impiegati sempre più frequentemente, soprattutto per indagare gli effetti delle interazioni tra le
specifiche caratteristiche dei soggetti e quelle delle politiche fiscali sul grado di evasione presentato,
anche per le difficoltà di rilevare con precisione tali comportamenti attraverso dichiarazioni dirette
degli intervistati, a causa delle forti resistenze nell’ammettere condotte illegali e poco desiderabili a
livello sociale.
Sebbene oggetto di attenzione prioritaria continuassero, quindi, ad essere l’evasione ed i suoi
antecedenti, nel corso degli anni ’80 l’ interesse degli studiosi di Psicologia Fiscale si orientò anche
in altre direzioni di ricerca. Tra esse si può menzionare l’indagine relativa agli effetti del carico
impositivo sull’impegno lavorativo, caratterizzata dal tentativo di superare le ristrette impostazioni
economiche fondate sulla Teoria dell’Utilità Attesa, secondo le quali, essendo l’individuo portato a
lavorare solo fino al punto in cui l’utile aggiuntivo, derivante dai maggiori guadagni, sia superiore
alle spese in termini di tempo libero sacrificato, la tassazione avrebbe due effetti contrastanti:
l’effetto reddito, tale per cui un aumento delle imposte incentiverebbe a lavorare di più, per
recuperare i guadagni persi, e l’effetto sostituzione, in base al quale un aumento delle tasse
renderebbe il lavoro meno remunerativo e desiderabile rispetto al tempo libero, disincentivando
perciò l’impegno dei lavoratori (Lewis, 1982; Ferrari e Romano, 1999); la psicologia ha mostrato,
anche in questo caso, l’inefficacia di simili generalizzazioni, evidenziando le profonde differenze
esistenti tra soggetti nell’importanza attribuita al reddito, al tempo libero o al lavoro come fonte di
soddisfazione in sé, in funzione di numerosi fattori, quali ad esempio, il sesso e la composizione del
nucleo familiare.
Un’altra area che ha iniziato in quegli anni a ricevere attenzione è stata quella relativa alla
comprensibilità dei meccanismi fiscali e alle modalità comunicative tra autorità e cittadini, che
possono contribuire, se chiare e capaci di unire la portata informativa con la possibilità di apertura
di un dialogo, al miglioramento degli atteggiamenti verso la tassazione.
Se nel corso degli anni ’80 furono indagati soprattutto gli antecedenti dei comportamenti di
carattere soggettivo, quali gli orientamenti etici e le percezioni di equità e giustizia riferite al
sistema fiscale, nell’ultimo decennio del secolo furono presi in considerazione aspetti più
strettamente psicosociali, ponendo in evidenza la rilevanza che le appartenenze di gruppo e le
norme sociali assumono nell’orientare le opinioni ed i comportamenti dei cittadini. Inoltre in tale
periodo si registrò una proliferazione degli studi dedicati alla comprensione degli effetti che la
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modalità di presentazione delle imposte può esercitare sui comportamenti dei contribuenti; molti di
questi studi partivano, infatti, dalla rilevazione di un fenomeno, indicato in letteratura come
“Witholding Phenomenon”
10
(tra gli altri, Schepansky e Shearer, 1995), consistente nel fatto che, al
momento di compilare la dichiarazione dei redditi, i soggetti che si trovavano nella condizione di
aver pagato più tasse del dovuto e attendevano, quindi, un rimborso, mostravano livelli di tendenza
all’evasione assai inferiori rispetto a coloro che avevano versato una somma inferiore a quanto
spettasse loro e dovevano, perciò, pagare un conguaglio, sebbene, in termini assoluti, l’ammontare
totale dell’imposizione fosse identico. Ciò fu spiegato alla luce della Prospect Theory di Kahneman
e Tversky, che rivelò così interessanti implicazioni in materia fiscale; essa, infatti, prevede una
diversa propensione ad attuare comportamenti rischiosi, quali quelli evasivi, a seconda del fatto che
il soggetto si trovi in una situazione categorizzabile in termini di guadagno, quale l’attesa del
rimborso, oppure di perdita, come nel caso di chi si trovi a dovere al fisco una certa somma di
denaro. Risultati di questo genere hanno trovato riscontro, almeno parzialmente, in vari studi (ad
esempio, Schepanski e Kelsey, 1990; Casey e Scholz, 1991), sebbene sia emersa la necessità di
considerare sempre congiuntamente sia gli effetti del frame in cui le imposte sono presentate, sia le
caratteristiche dei soggetti ed i loro orientamenti ed atteggiamenti rispetto al sistema fiscale, che
giocano comunque un ruolo di rilievo nell’orientare i comportamenti in termini di maggiore o
minore conformità a quanto previsto dalla legge (Reckers, Sanders e Roark, 1994).
A partire da tali studi si è sviluppata una comprensione sempre più ampia dei meccanismi cognitivi
che sottostanno alla comprensione e valutazione delle tasse da parte dei contribuenti, tanto che negli
ultimi anni numerose rassegne hanno cercato di fare un punto della situazione a riguardo,
sottolineando la necessità di non fermarsi a indagare aspetti monodimensionali del sistema fiscale,
quale la modalità di presentazione di un imposta o il grado di progressività del prelievo ritenuto più
adeguato, bensì di comprendere come i numerosi e complessi aspetti che caratterizzano la
tassazione siano elaborati congiuntamente dai contribuenti, determinando in molti casi un elevato
carico elaborativo, e, di conseguenza, il frequente ricorso ad euristiche ed il verificarsi di bias, la cui
considerazione è fondamentale per comprendere le reali modalità di ragionamento delle persone in
questo ambito. Molto esaustivo a riguardo è il contributo di Mc Caffery e Baron (2004)
11
, che
hanno evidenziato numerose euristiche e bias cognitivi che caratterizzano le modalità di
elaborazione degli aspetti relativi alle tasse; tra essi particolare rilievo è attribuito dagli autori
all’Isolation Effect, meccanismo per il quale i soggetti, davanti a stimoli complessi, tendono a
10
Cfr. Par. 3.3.1 (pag. 97 e seguenti).
11
Cfr. Par. 2.2.1 (in particolare 51-52) e par. 3.3.5 (pag. 118-120).
CAPITOLO 1
19
concentrarsi solo sui loro aspetti più evidenti ed espliciti, per cui, ad esempio, le tasse sul reddito
sono particolarmente osteggiate, perché più evidenti, mentre quelle indirette e quelle che colpiscono
gli imprenditori, risultano meno avversate, sebbene abbiano ricadute altrettanto rilevanti sui prezzi
dei beni.
Altri studi hanno invece cercato di approfondire ed espandere la comprensione degli effetti
determinati dal framing, integrandoli con maggiori approfondimenti relativi ai meccanismi
psicologici che sottostanno ai comportamenti (Jackson e Hatfield, 2005)
12
. In particolare è stato
indagato come gli effetti determinati dal fatto che i soggetti si trovino nella posizione di aspettare un
rimborso o dover pagare un conguaglio al fisco, evidenziati dagli studi sul Witholding Phenomenon,
interagiscano con le percezioni che essi sviluppano rispetto alla situazione ed alle alternative che si
presentano loro, etichettabili in termini di minaccia od opportunità, ed anch’esse capaci di
influenzare la propensione al rischio. Tali studi appaiono particolarmente rilevanti in quanto aprono
nuove direttrici di sviluppo nelle indagini sui comportamenti dei contribuenti, enfatizzano
l’importanza di investigare ad un livello sempre più complesso le interrelazioni esistenti tra i
compiti decisionali che i soggetti si trovano a fronteggiare ed i meccanismi cognitivi sottostanti alle
scelte da essi effettuate, influenzate non solo dalle caratteristiche oggettive della situazione, ma
anche da tutti quei fattori soggettivi che ne orientano l’interpretazione.
Tale crescente complessità caratterizzante i piani di lettura recentemente utilizzati per indagare i
comportamenti dei contribuenti emerge chiaramente da una presentazione realizzata nel 2006 da
Erich Kircler
13
, uno degli studiosi più attivi nell’ambito della Psicologia Fiscale, riguardo allo stato
dell’arte della disciplina. Sono infatti considerati tutti gli antecedenti che, a vari livelli, risultano
capaci di influenzare la conformità dei soggetti alle regole del sistema fiscale, sia da un punto di
vista economico e politico (la complessità del sistema fiscale, la probabilità che eventuali evasioni
siano scoperte, il peso dell’imposizione fiscale ed il livello di reddito), sia da uno più strettamente
psicologico.
12
Cfr. Par. 3.3.3 (pag. 108-111).
13
Tax Psychology: state of the art of research on tax compliance and evasion, Invited State of the Art presentation of
division 9, Economic Psychology, 26
th
International Congress of Applied Psychology, Atene, Grecia, 16-21 Luglio
2006