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La nascita della fotografia
L’ evoluzione della tecnica fotografica e lo sviluppo del reportage
come genere fotografico
La nascita e lo sviluppo della fotografia possono essere considerati un prodotto
della cultura Positivista che, germogliata nella Francia post-rivoluzionaria di fine
Settecento, si era imposta come cultura egemone di tutta Europa con un notevole
influsso anche nella giovanissima America. Il grande entusiasmo derivato dalle
nuove scoperte scientifiche e la sconfinata fiducia nel progresso e nelle possibilità
dell’ ingegno umano applicato alle scienze, portarono ad una moltiplicazione
esponenziale delle ricerche in diversi ambiti, alcuni dei quali mai considerati
prima di allora. In questo nuovo clima presero vita anche i primi esperimenti
chimici realizzati con materiali e sostanze fotosensibili; l’ idea alla base di tali
ricerche scaturì dalla volontà di fissare in modo permanente, servendosi
dell’azione della luce, le immagini ottenute attraverso una camera oscura, uno
strumento molto più antico che veniva utilizzato da pittori e incisori per realizzare
immagini precise e fedeli alla realtà. La fotografia nasce quindi dalla necessità di
registrare nel modo più scientifico possibile il “circostante”
1
.
I primissimi esperimenti di questo tipo furono realizzati da Thomas Wedgwood,
figlio di un famoso ceramista inglese
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. Wedgwood fece tesoro dei precedenti studi
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A. Madesani, Storia della fotografia, Milano, Mondadori, 2008,
2
B. Newhall, Storia della fotografia,Torino, Einaudi, 1982, pag. 11
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in ambito chimico dello scienziato tedesco Johann Heinrich Schultze, che fin dal
1727 aveva registrato la foto-reazione dell’argento che anneriva se esposto alla
luce del sole. Wedgwood, basandosi sulle ricerche del chimico, iniziò quindi, a
sensibilizzare fogli di carta o cuoio con i sali d’argento, appoggiandovi poi degli
oggetti ed esponendo il tutto alla luce del sole. Il risultato che ottenne era proprio
quello sperato: le parti coperte dagli oggetti rimanevano bianche, mentre il resto
del foglio, a causa dell’argento, anneriva rapidamente. Ma le ricerche di
Wedgwood non andarono oltre quando si rese conto che non aveva la possibilità
di desensibilizzare le zone non esposte del foglio il quale finiva, di conseguenza,
Il primo che riuscì a fissare stabilmente un’ immagine ripresa dal vero fu Joseph
Nicéphore Nièpce, un litografo, che mosse proprio dalla sua esperienza con la
camera oscura e le sue conoscenze chimiche per arrivare a quella che viene
considerata la prima fotografia della storia, la “veduta dalla finestra di Grasse”,
datata 1827. I suoi studi durarono circa trent’ anni, dal 1797 al 1833, data della
sua morte e inizialmente furono condotti insieme a suo fratello Claude.
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Nièpce non era soddisfatto
dell’immagine negativa ottenuta
attraverso l’ impiego dei sali d’
argento e si rivolse alla ricerca di
un materiale che scolorisse per
effetto della luce, in modo tale da
realizzare direttamente il positivo, trovandolo nel bitume di Giudea, una sostanza
utilizzata dagli incisori per proteggere le lastre durante il bagno nell’ acido.
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A. Madesani, op. cit.
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Fig. 1, Nièpce, Veduta dalla finestra di Grasse, 1827
Questo nuovo procedimento prese il nome di eliografia. Contemporaneamente, a
Parigi, lo scenografo dell’ Opéra Louis-Jacques-Mandé Daguerre stava
conducendo degli studi analoghi a quelli di Nièpce. Per lungo periodo Nièpce e
Daguerre lavorarono insieme come soci con l’ obiettivo di migliorare il processo
eliografico, tenendosi in contatto attraverso una fittissima corrispondenza. Alla
morte del primo, Daguerre continuò da solo raggiungendo risultati
importantissimi. Nel 1837 venne presentato il primo dagherrotipo, una natura
morta con calchi di gesso precisa nei particolari e ricchissima di sfumature,
realizzata su una lastra di rame sensibilizzata con ioduro d’ argento.
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Il grande
successo di Daguerre spinse l’inglese William Henry Fox Talbot a rendere
pubblici i risultati dei suoi esperimenti, le cosiddette sciadografie. Talbot
utilizzava il procedimento di Wedgwood per ottenere i negativi, che poi
trasformava in positivi grazie all’impiego del tiofosfato di sodio; alla fine del
1840 la tecnica di Talbot era perfezionata definitivamente e venne presentata con
il nome di calotipia. Tale invenzione è alla base del procedimento di sviluppo
moderno.
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Mentre Talbot rivendicava il diritto di priorità su Daguerre, in tutto il mondo si
moltiplicavano gli aspiranti al diritto di priorità su entrambi. Ma Daguerre aveva
registrato il suo brevetto e venne quindi riconosciuto come primo inventore della
nuova tecnica; intanto le copie da dagherrotipi di vedute cittadine e altri soggetti,
stampate con le normali tecniche grafiche, erano diventate popolarissime e ben
presto iniziò il commercio di macchine fotografiche più piccole e meno
dispendiose che allargavano il panorama della nascente fotografia dai ricercatori,
4
B. Newhall, op. cit.
5
Ibidem
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al mercato elitario degli appassionati, ancora comunque ristretto a coloro che
potevano permettersi il costo dei primi apparati fotografici. Il limite più grande
della dagherrotipia e della calotipia era la lunghezza dei tempi di esposizione che
impediva la realizzazione di ritratti, forse il genere più apprezzato dalla borghesia.
Il problema fu risolto da John Frederick Goddard che mise a punto una nuova
combinazione chimica accelerante il processo espositivo. Un ulteriore passo
avanti si ebbe nel 1851 ad opera di Frederick Scott Archer, scultore inglese, che
ebbe un’ intuizione fondamentale: ricercare un materiale che sostituisse la carta
del calotipo perché troppo fibrosa e, quindi, poco nitida, ma anche le troppo
dispendiose lastre di rame del dagherrotipo. Archer decise di appoggiarsi sui vari
esperimenti che si stavano effettuando in quel periodo con le lastre di vetro, ma
riscontrò diversi problemi nel processo di sensibilizzazione poiché l’ argento
aderiva solo parzialmente al nuovo supporto. Archer approdò alla soluzione
definitiva mescolando i sali d’ argento con il collodio, una sostanza legante che
doveva essere esposta alla luce mentre era ancora umida. Dopo vari tentativi il
processo detto a “collodio umido” si impose definitivamente. Per la stampa,
invece, venne utilizzata la carta albuminata, cioè trattata con l’ albume dell’ uovo,
inventata nel 1850 da Blanquart-Evrard, proprietario di un laboratorio di stampa
calotipica.
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Fin dagli albori, la fotografia portò con sé un lungo dibattito circa la sua funzione
“artistica”. Questa nuova invenzione, infatti, venne salutata dagli uomini del
tempo quale sicura soppiantatrice della pittura, che fino a quel momento era stata
puramente aneddotica e figurativa. Se i pittori fino ad allora erano stati gli unici in
6
Ibidem
6
grado di registrare la realtà attraverso la loro opera, pareva ora che non avessero
più ragione di esistere, in quanto la realtà poteva essere rappresentata più in fretta
e con maggiore esattezza, attraverso un processo meccanico che azzerasse
qualsiasi intervento di soggettività, caratteristica fondamentale che incontrava il
favore dell’ empirismo positivista. Ma la pittura non muore, anzi, la potenza
rivoluzionaria della fotografia liberò la pittura dalla sua funzione documentaristica
portandola a livelli di creatività mai raggiunti prima. Nacque così l’
impressionismo.
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Gli studi condotti sulla luce in ambito fotografico vennero
sfruttati dai pittori che arrivarono a scomporre l’ immagine in tocchi di colore,
volti a fissare l’ impressione che la luce stessa conferisce agli oggetti,
imprimendoli nell’ occhio umano come delicate sfumature e non come forme
definite. Mentre la fotografia ricercava la massima correttezza dell’ immagine
attraverso un continuo perfezionamento tecnico, la pittura poteva invece muovere
in senso contrario, vale a dire verso la scomposizione dei contorni e dei volumi,
presupposto fondamentale per le future avanguardie novecentesche. Man Ray,
indiscusso protagonista del Dadaismo, forse la più eversiva tra le avanguardie
storiche, riassume così il mutamento apportato dalla fotografia al panorama
artistico:
“Lo sviluppo della fotografia negli ultimi cento anni ha dato un colpo mortale alla pittura
aneddotica. Era quanto molti pittori dell’ Ottocento temevano, e che qualcuno tuttora
rimpiange. Comunque, costoro sono ancora liberi di continuare la loro gara con la
fotografia, e avranno sempre un loro pubblico. Per un altro verso, la pittura è stata
affrancata dalla sua schiavitù puramente aneddotica e “utilitaristica”, e grazie alla fotografia
non è mai stata tanto creativa come nel corso delle due ultime generazioni. Essa ha ottenuto
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Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia, Milano, Mondadori, 1996
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uno statuto artistico mai prima possibile. In pari tempo la fotografia, ritenuta sulle prime
una tecnica scientifica e documentaria, è stata a sua volta affrancata dalla sua funzione
puramente utilitaristica.”
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Un passo importante per l’ affermazione del valore artistico della fotografia venne
compiuto già nel 1851 quando in occasione della prima Esposizione Universale di
Londra venne allestita, nel Crystal Palace, una grande mostra internazionale
riservata interamente alle realizzazioni fotografiche.
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Nel 1853 fu fondata la
Photographic Society di Londra alla cui prima riunione Sir William Newton,
pittore di corte, tenne un discorso che esortava gli altri soci a considerare la
fotografia da un punto di vista artistico e, addirittura, a prendere immagini
leggermente sfocate, in modo che si avvicinassero a quelle dei pittori. Un
consiglio che riguardava, però, solo le fotografie prese ad uso degli artisti, mentre
per quelle a scopo documentaristico la precisione dell’ immagine restava
fondamentale.
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Il dibattito che ne scaturì fu accesissimo e portò Newton a
ritornare sui suoi passi. Basilare per lo sviluppo della fotografia artistica fu l’
opera di Henry Peach Robinson, pittore e acquafortista, che decise di dedicarsi
totalmente alla fotografia, rivoluzionandone il linguaggio. Robinson arrivò a
produrre fotografie composite, cioè tratte da diversi negativi, sostenendo le sue
creazioni con numerosi scritti teorici. In essi, il fotografo evidenziava l’
accademicità delle sue composizioni dichiarandole finalizzate a trasferire nel
linguaggio fotografico gli effetti strutturali pittorici. Spesso le sue composizioni
venivano prima disegnate sotto forma di bozzetto e poi realizzate facendo posare i
modelli separatamente, quindi assemblate sviluppando insieme i diversi negativi.
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A. Madesani, op. cit.
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Ibidem
10
B. Newhall, op. cit.
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