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esponendo durante tutto il percorso della mia tesi…), il concetto
stesso di arte.
Le mie non vogliono essere sentenze prive di giustificazione, bensì il
risultato di un’analisi lunga e difficile di quello che credo sia stato
un binomio imprescindibile, e mi riferisco ad arte e fotografia, se si
guarda all’evolversi dell’arte moderna e della moderna architettura
intesa come design.
“Fotografia è design” è una titolazione nata spontanea attraverso
un’indagine estremamente logica delle applicazioni che la fotografia
non-figurativa ha conosciuto durante il suo excursus storico. La
scelta della fotografia come strumento espressivo è maturata quasi
spontaneamente, grazie alle potenziali prospettive che offriva al
nuovo panorama artistico che andava sviluppandosi in Europa nei
primi decenni del ‘900.
Il nuovo concetto di produzione artistica, promosso dalla Bauhaus,
che vedeva l’arte non più come mera rappresentazione della
bellezza, ma strettamente legata al concetto di utilità e fruibilità della
bellezza formale nella quotidianità della vita, faceva della fotografia
un mezzo ed uno strumento espressivo estremamente elastico e
innovativo nei confronti di tale produzione.
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È il concetto stesso di arte che viene a modificarsi, passando da
prerogativa d’èlite fine a se stessa a parte integrante
dell’immaginario collettivo, insomma a caratteristica del mondo che
ci viene costruito attorno.
Non voglio però anticipare temi e tesi che andrò ad affrontare nei
capitoli seguenti, ma mi pare opportuno, almeno, tracciare i punti
fondamentali che tratterò e le motivazioni che mi hanno portato a
sviluppare una tesi che a priori potrebbe sembrare abbastanza
singolare.
Capisco pure di dover giustificare una scelta che apparentemente
pare discostarsi dagli obbiettivi del corso di studi che mi appresto a
concludere; ma credo che ciò mi sarà piuttosto facile.
Dati la passione e l’interesse che mi legano al fenomeno
complessivo della fotografia, e che da più di un anno a questa parte
mi sono avvicinato a queste tematiche anche dal punto di vista
professionale (..non che io mi ritenga già un professionista del
settore, ma intendo dire che la mia attuale professione è appunto
quella di fotografo e assistente fotografo..), mi è sembrato del tutto
naturale cogliere questa occasione per approfondire quelli che sono i
mie interessi culturali maggiori in questa sede.
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Questa tesi si sviluppa fondamentalmente in quattro fasi che,
concatenate fra loro, costruiscono a mio parere il percorso logico per
far sì che il concetto espresso nel titolo “Fotografia è design” trovi
un modo d’essere.
Nel primo capitolo ripercorrerò i passi fondamentali della fotografia
attraverso la storia, con particolare attenzione ai fatti, ai fenomeni e
ai personaggi che ne hanno per primi condizionato il corso di vita,
soprattutto dal punto di vista tecnologico e delle prime esperienze
artistiche legate al nuovo mezzo; mi riferisco quindi ai suoi primi
decenni di vita.
In seguito (cap. 2), mi sembra doveroso sviluppare un’analisi del
fatto artistico in relazione a quella sorta di rivoluzione copernicana
dei concetti di architettura, design e arte operata in primis da Arts
and Crafts e Bauhaus. Rivoluzione in cui la fotografia si inserisce
come arma estremamente utile e d’avanguardia.
Il terzo capitolo è quasi la naturale conseguenza del precedente, nel
senso che esso segue pressoché le stesse linee guida del discorso
sull’arte, spostando però l’attenzione alla fotografia, con tutte le
implicazioni teoriche che ne derivano.
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Infine un personale contributo visivo conclude questo altrettanto
personale punto di vista riguardo ciò che anch’io considero, alla
stregua di Moholy-Nagy, un “alfabeto” altamente espressivo e di cui
ancora ignoriamo molte “lettere”: la FOTOGRAFIA.
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I. Fotografia: nascita e primi passi.
I, 01. Una dovuta cronologia.
L'esecuzione della prima fotografia è da attribuire all'inventore
francese Nicephore Niepce (1765-1833) che, nel 1823, prendendo
spunto dal principio della litografia, osserva che un tipo di bitume, la
pece di giudea, s'indurisce se esposta alla luce.
Utilizzando una rudimentale camera oscura, espone per 8-10 ore una
lastra ricoperta di bitume alla luce fatta passare per un obiettivo. La
pece s'indurisce nei punti in cui è colpita dalla luce e in seguito,
immergendo la lastra in olio di lavanda, riesce a far fissare solo le
parti colpite dalla luce, realizzando così la prima fotografia della
storia (il cortile di casa sua). Il passo successivo avverrà il 19 agosto
del 1839 quando, il fisico e pittore Luis Jacques Mande Daguerre
(1787-1851) presenta il processo fotografico denominato
“dagherrotipo”. Dopo aver acquistato da Niepce il metodo per creare
immagini con la luce, utilizzando il bitume di giudea, casualmente
esegue esperimenti con altre sostanze. Daguerre si accorge che una
lastra di sali d'argento riesce a fissare un'immagine latente,
9
immagine, che può essere poi resa stabile con i vapori di
mercurio finito accidentalmente nella camera oscura da un
termometro rotto. È l'anno 1837 e Daguerre ottiene la prima vera
fotografia della storia, riprendendo una natura morta nel suo studio.
Luis Jacques Mande Daguerre: La tavola apparecchiata (1837)
Nel 1839 era ancora necessaria una posa che durava più di mezz’ora.
A quel tempo non ci si stupiva di tale lentezza: la fotografia era per
tutti una nuova forma di disegno, il modo di fissare chimicamente le
immagini da quelle camere oscure impiegate dagli artisti sin
dall’inizio del Rinascimento. Dopo il 1840 il tempo di posa scese a
venti minuti, e si poterono ottenere i primi ritratti di personaggi
truccati, immobili, grondanti sudore in pieno sole e costretti a tenere
gli occhi chiusi. Nel 1851 erano sufficienti uno o due minuti.
Successivamente il tempo di posa si ridusse a pochi secondi, e presto
una nuova professione artigianale, quella del fotografo, conquistò
decine di migliaia di persone, provocando l’entusiasmo di molti
10
ricercatori scientifici, ma contemporaneamente l’indignazione
degli artisti accademici, secondo i quali “la fotografia falsava la
realtà”
2
.
Il 15 Febbraio del 1841 Henry Fox Talbot (1800-1877) matematico
inglese, inventa la fotografia negativo positivo. Dieci anni dopo nel
1851 lo scultore F. Scott Archer (1831-1857) inventa la lastra di
vetro che, spalmata di collodio e sali d'argento, diventa fotosensibile.
Dalla lastra, è poi ottenuto il positivo, mettendola a contatto con
carta spalmata di una miscela d'albume d'uovo e bromuro di
potassio. La lastra fotografica d'Archer soppianterà tutti i precedenti
sistemi di fotografia fino al 1880 quando il contabile americano
George Eastman (1854-1932) deposita il primo brevetto della
pellicola fotografica avvolgibile su rullo, che sostituisce le fragili,
pesanti ed ingombranti lastre fotografiche.
2
I. Zannier: Breve storia della fotografia (Roma, Laterza, 1986) p. 31
11
I, 02. Potenzialità e fruibilità.
I, 02, 01 L’arte della luce. Il sogno.
“Fotografia tu sei l'ombra / Del Sole / Che è la sua bellezza”3,
cantava Apollinaire nel 1913, quando quest'arte sembrava giunta
all'apice della sua tecnologia, oltre che del successo, avviato con il
baluginante dagherrotipo e con il granuloso calotipo nel 1839,
lievitando poi con la tecnica del collodio (1851) e infine con la
gelatina ai sali d'argento (1880), tutte tecniche capaci di fermare
anche le ombre del Sole, che sono poi quelle che disegnano
l'immagine. Si realizzano via via emulsioni sempre più sensibili alla
luce, si costruiscono apparecchi ancor più piccoli e leggeri, ossia
portatili e con obiettivi più luminosi e otticamente più precisi; gli
otturatori scattano più rapidamente, e c'è già a disposizione anche la
luce artificiale, elettrica prima (Nadar, 1861) e al magnesio poi.
L'istantanea, negli anni di Apollinaire, esprimeva il massimo della
tensione tecnologica della fotografia, cui s'era aggiunta la
suggestione, ulteriormente realistica, del colore “Autochrome”
3
G. Apollinaire: Les peintres cubistes: Meditations estetiques (Parigi, Hermann, 1965) p. 112
12
(1904), messo a punto dai Lumière, che nel frattempo avevano
anche inventato il “cinématographe”. La fotografia è un sogno
antico, suggerito implicitamente dalla “grotta di Platone”, per fissare
quelle “ombre” che si muovono sul fondo, come in una
fantasmagoria; nel frattempo si scrutano, vicino e lontano, alieni
paesaggi esaltati dalla lente di vetro o di cristallo, per cui si pensò
che persino Dante avesse alluso a una lente, anzi agli occhiali, in un
suo verso particolarmente suggestivo: “E sì come visiere di
cristallo...”4, e invece si trattava di lacrime ghiacciate, che
scendevano dagli occhi di un dannato.
La fotografia fantasmatica viene descritta, però come sogno, già nel
1760, al risveglio di Giphantie, protagonista dell'omonimo
pionieristico romanzo fantascientifico di Tiphaigne de La Roche,
dove il protagonista vede con stupore, sulla parete di fronte al letto,
un'immagine talmente verosimile da fargli credere che si tratti di una
finestra: “il quadro aveva ingannato, per la precisione del disegno, la
verità dell'espressione, i tocchi più o meno forti, la gradazione delle
tinte, le regole della prospettiva...”5. Si trattava di una “realtà” già
4
D. Alighieri: La divina commedia; Inferno; Canto XXVII
5
I. Zannier: Breve storia della fotografia (Roma: Laterza, 1986) p. 89
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considerata iconica, oltre che onirica, e convincente al punto di
far dubitare che non si tratti di un'altra specie di fantasmi che si
propongono agli occhi, all'udito, al tatto e a tutti i sensi in una volta.
Quando Daguerre, finalmente, ma con gli stimoli e le precoci
intuizioni di Niepce, propose ad Arago la sua dagherrotipia, si
scatenò ovunque la caccia ad altri ipotetici e precedenti inventori,
talmente questo genere d'immagine era anelato e sottinteso
soprattutto negli effetti della “camera obscura”, da Leonardo a
Barbaro, a Della Porta. L'immaginazione dei propositori fu notevole,
ma giustificata dal sogno fotografico, che alimentò a lungo varie
leggende, che hanno condotto il mito del fac-simile sino a noi, e a un
futuro sempre più virtuale, nell'illusione di poter costruire un doppio
iconico della realtà tattile, percorribile, termica, ecc, in cui
concretamente viviamo. L'apparecchio fantomatico sarebbe stato
composto da una sfera cava di rame stagnato, spalmata di un color
nero particolare, con piccole aperture diametralmente opposte. Al
centro della sfera si troverebbe una lente d'ingrandimento di vetro
bianco, a due dita da questa discosto, e sul davanti, uno specchio
terso di rame; posteriormente, a tre dita di distanza, una lamina
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sottile d'ambra rivestita d'oro, e più lungi vi sarebbe una lastra di
vetro color verde ranocchia...Questo arcano strumento sembra già
un'invenzione dell'epoca digitale, perlomeno se si considerano le
immagini che avrebbe permesso di ottenere, su lastre di rame
argentato, ampie quanto la sfera, simili comunque a quelle che
invece Daguerre aveva ufficialmente presentato a Parigi il 7 gennaio
1839 e che tutto il mondo invidiava, cercando altrove, se possibile,
l'inventore del procedimento e in qualche caso accusando
apertamente Daguerre di plagio. Il tempo era d'altronde maturo, nei
primi decenni dell'Ottocento, per una tecnologia artistica, la prima
della storia, come quella fotografica (fisica e chimica assieme),
secondo “un procedere irreversibile”, scrive Peter Galassi (Before
photography). Un irreversibile procedere “da intuizioni tattili a
intuizioni visive, dal conoscere al vedere”, che già taluni pittori,
spesso minori, avevano comunque segnalato nei secoli precedenti,
mediante opere anomale e stranianti, oltre che tendenti
all'esasperazione della prospettiva, come garanzia di realismo
iconico. D'altronde, osserva ancora Galassi, in una sintetica e
convincente definizione di fotografia, “sotto l'aspetto tecnico, si può
dire che la fotografia non è che un mezzo per produrre
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automaticamente delle immagini in una prospettiva perfetta”,
mentre “il lato estetico è più complesso e acquista significato
soltanto in termini storici più ampi”6. La fotografia, all'origine, tende
soprattutto a dare una risposta “realistica” all'immagine che ci
circonda, della quale è garante come fac-simile inarrivabile con altre
tecniche figurative; l'ipotesi realistica e documentaria è stata anche
la direzione del suo progresso tecnologico, dal dagherrotipo al
digitale, al virtuale. Il dagherrotipo, d'altronde, era già un'immagine
virtuale, anche per la sua specularità, che consente oltretutto di
intravedere il soggetto fotografato assieme all'osservatore, quasi
contemporaneamente, come in un sogno interattivo; perciò venne
anche chiamato “specchio della memoria”, oltre che “invenzione
meravigliosa”. Meravigliosa immagine, come d'altronde oggi viene
spesso considerata anche quella ottenuta con un computer;
meravigliosa perché sembra improbabile e comunque superiore
persino alla nostra immaginazione, altrimenti non ci stupiremmo per
quei dettagli, per quei colori, per quelle prospettive così vere. Il
pittore Paul Delaroche, nei giorni dell'invenzione, a sua volta
esaltato dalla “preziosità inimmaginabile” delle lastre dagherriane,
6
6P. Galassi: Prima della fotografia: la pittura e l’invenzione della fotografia (Torino: Bollati
Boringhieri,1989) p. 56
16
riassumeva in un suo commento, con la storica frase: “la
stupenda scoperta del Signor Daguerre, è un enorme favore reso alle
arti”, decretando persino la “morte della pittura”7, il che ovviamente
non avvenne, ma ne risentì. Sempre più rigorose, appariranno queste
immagini ad alta fedeltà, che finalmente la tecnica consente, in un
crescendo inarrestabile di sofisticate ricerche e di sperimentazioni
alchemiche, anche per vedere e definire iconicamente situazioni reali
altrimenti sconosciute, in medicina come in astronomia, ecc.
L'affermazione di Nadar secondo cui la “fotografia è quella cosa che
consente anche all'ultimo degli imbecilli di fare quanto una volta
faceva un genio”8 esprime in poche parole la portata di
quest'invenzione.
7
I. Zannier: Breve storia della fotografia (Roma: Laterza, 1986) p. 18
8
I. Zannier: Breve storia della fotografia (Roma: Laterza, 1986) p. 43
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I, 03. Evoluzione tecnica.
Daguerre, non ancora soddisfatto di ciò che, assieme a Niepce, era
riuscito a inventare e a proporre al Parlamento francese nel 1839, in
una lettera al fisico Arago, qualche anno dopo, spiegava ulteriori
possibilità d'analisi fotografica; sovrapponendo alla lastra
dagherrotipica parecchi metalli, riducendoli collo strofinamento in
polvere e acidulando gli spazi vuoti lasciati dalle molecole,
proponeva Daguerre, si dovevano infine “sviluppare azioni
galvaniche”, migliorando tecnologicamente i risultati, e forse già
pensando anche al “colore”, che fu lungamente un anelito irrisolto
prima dei Lumière, per cui si ricorreva alla coloritura manuale.
Talbot, invece, osservava Gaetano Lomazzi, nella prima traduzione
del Metodo per eseguire sulle carte il Fotogenico Disegno,
proponeva che questa nuova arte venisse chiamata “fotogenico
dipinto”; il passaggio epocale venne anche così chiaramente indicato
- dalla pittura alla fotografia - ma sembra lo stesso itinerario odierno,
dalla fotografia tradizionale, fatta a mano, all'immagine ritoccata,
realizzata con le equazioni di un computer. Le immagini
automatiche, e così vennero intese all'origine le fotografie,