4
Per ovviare alla complessità, lentezza ed imprecisione del metodo manuale, si
iniziarono a studiare tecniche diverse per ricavare informazioni sullo stato di
sforzo del pezzo in maniera parzialmente automatica, ed ebbero origine i
metodi di prima generazione che lavoravano punto per punto; la fotoelasticità,
tuttavia, ebbe scarsa applicazione pratica fino a quando vi fu l’introduzione
dei metodi automatici a tutto campo chiamati metodi di seconda generazione;
essi apparvero alla fine degli anni ’70 ma divennero maggiormente diffusi alla
fine degli ’80 quando l’abbassarsi dei costi relativi ai sistemi di acquisizione
ed elaborazione delle immagini lo permisero.
2
Tra le tecniche automatiche di seconda generazione ve ne sono alcune che
verranno analizzate in dettaglio in questa tesi, allo scopo di verificarne la
validità e l’efficienza.
1.2 Birifrangenza, dicroismo e descrizione delle lamine
La fotoelasticità è una tecnica sperimentale per l’analisi degli sforzi e delle
deformazioni, che si basa sulla birifrangenza accidentale, o doppia rifrazione
della luce, ossia sul fenomeno proprio di alcuni materiali trasparenti che
decompongono il fascio luminoso incidente in due fasci tra loro ortogonali,
polarizzati linearmente e propagantesi con velocità diverse; quello che segue
le leggi della rifrazione è detto ordinario, mentre l’altro è denominato
straordinario.
Quando si parla di polarizzazione, si fa riferimento alla teoria di Maxwell
sulle onde elettromagnetiche, la quale postula che esse vibrino
ortogonalmente alla direzione di propagazione; se la vibrazione avviene in un
solo piano si parla di polarizzazione lineare, se avviene in modo tale da
2
Cfr. A. Ajovalasit, S. Barone, G. Petrucci, “A review of automated methods for the collection and analysis
of photoelastic data” in Journal of Strain Analysis 33(2), pp. 75-91, 1998.
5
ruotare con ampiezza costante intorno alla direzione di propagazione si parla
di polarizzazione circolare, mentre in tutti gli altri casi intermedi si parla di
polarizzazione ellittica.
Esistono dei materiali che hanno proprietà dicroiche, ossia sono in grado di
assorbire in maniera diversa il raggio ordinario e quello straordinario; possono
essere di origine naturale come i cristalli di tormalina o artificiali come il
Polaroid, e sono utilizzati per costruire polarizzatori, ossia lamine che
trasmettano esclusivamente uno dei due raggi polarizzando linearmente la
luce.
Un altro tipo di lamina fondamentale per l’analisi fotoelastica è la cosiddetta
lamina quarto d’onda o lamina lambda quarti, la quale è una lastra
birifrangente di spessore tale che la differenza di cammino ottico tra il raggio
ordinario e quello straordinario sia pari ad un quarto della lunghezza d’onda
della sorgente luminosa utilizzata. In generale la luce emergente da tali lamine
è polarizzata ellitticamente; solo quando la luce incidente è polarizzata
linearmente e le ampiezze di vibrazione dei raggi sono uguali, (ossia quando
la direzione di polarizzazione della luce incidente forma un angolo di 45° con
gli assi della lamina), si ottiene una polarizzazione circolare della luce
emergente.
E’ evidente che lo spessore della lamina è scelto in funzione della lunghezza
d’onda Ο della luce monocromatica incidente, che prende il nome di
lunghezza d’onda di accordatura e che sarà l’unica per cui si avrà
effettivamente un ritardo lineare pari a ∋ = Ο / 4 e dunque un ritardo angolare
pari a ∆ = 2 Σ ∋ / Ο = Σ / 2.
Per poter sfruttare la tecnica fotoelastica nell’analisi degli sforzi e delle
deformazioni di un pezzo meccanico si utilizzano materiali come il
6
policarbonato che godono della proprietà della birifrangenza accidentale,
ossia che presentano il fenomeno della birifrangenza quando sono sollecitati,
per poi perdere tale caratteristica al cessare della applicazione del carico
esterno. Quando il provino è caricato, lo stato tensionale sarà diverso in
ciascun punto e dunque ivi differiranno anche le direzioni dei due raggi
ordinario e straordinario, (tra loro perpendicolari), paralleli alla direzione
degli sforzi principali, nonché le velocità di propagazione degli stessi.
Esiste una relazione che lega tra loro la differenza tra gli sforzi principali e le
caratteristiche ottiche del materiale (Stress Optic Law), e può essere così
scritta:
d
f
d
Nf
Σ
Γ
ς ς
2
21
(1.1)
dove d è lo spessore del provino, N l’ordine di frangia, f la costante di frangia
del materiale e δ il ritardo di fase.
1.3 Descrizione del polariscopio e definizione di isocline e
isocromatiche
Il sistema ottico utilizzato per l’analisi fotoelastica prende il nome di
polariscopio, ed è composto dalle lamine utilizzate per l’analisi e dal modello
da analizzare; esistono due configurazioni standard ampiamente utilizzate
denominate rispettivamente polariscopio piano e polariscopio circolare.
Il polariscopio piano è composto semplicemente dal provino e da due
polarizzatori, il primo dei quali è il polarizzatore P propriamente detto mentre
il secondo prende il nome di analizzatore A, disposti secondo il seguente
disegno schematizzato:
7
Fig. 1
Da qui si vede chiaramente come la luce incidente attraversi prima il
polarizzatore P, il provino ed infine l’analizzatore prima di essere osservata
dall’operatore o acquisita mediante appositi strumenti.
Il polarizzatore circolare è caratterizzato, invece, dalla presenza di due lamine
quarto d’onda presenti una subito a valle del polarizzatore, mentre l’altra
immediatamente prima dell’analizzatore, come è illustrato nel seguente
schema:
Fig. 2
8
Considerando un polariscopio piano senza alcun provino da analizzare, e
supponendo che gli assi di polarizzazione delle due lamine siano tra loro
perpendicolari, si nota come la luce incidente esca polarizzata linearmente da
P lungo la direzione del suo asse di polarizzazione, essendo stata assorbita
dalla lamina la componente ad essa ortogonale; tale luce polarizzata
attraverserà A, verrà completamente assorbita da esso, essendo l’asse di
polarizzazione di quest’ultimo ortogonale a quello della lamina precedente e
porterà ad una completa estinzione della luce (polariscopio a sfondo scuro).
Se invece gli assi di polarizzazione delle due lamine fossero paralleli tra loro,
la luce polarizzata linearmente attraverserebbe completamente A uscendo da
esso con la massima intensità (polariscopio a sfondo chiaro).
Inserendo ora nel polariscopio un provino soggetto ad un carico, ed essendo
diverso da punto a punto lo stato di sforzo nel pezzo, saranno diverse anche le
direzioni degli sforzi principali; laddove tali direzioni sono parallele agli assi
di polarizzazione la trasmissione del raggio luminoso non sarà influenzata
dalla presenza del pezzo e si avrà estinzione dello stesso o verrà propagato
inalterato a seconda che si lavori in campo scuro o chiaro. Si verranno dunque
a formare all’uscita dell’analizzatore delle frange, scure o chiare e denominate
isocline, date da tutti i punti in cui le direzioni degli sforzi principali sono
paralleli agli assi di polarizzazione dei due polarizzatori.
D’altra parte anche nei punti in cui il ritardo di fase angolare ∆ tra il raggio
ordinario e quello straordinario è pari a multipli di 360° ( ∆ = 2N Σ), l’intensità
luminosa rimane inalterata attraversando il modello; il luogo dei punti in cui
ciò avviene costituisce un gruppo di frange chiamate isocromatiche
dipendenti dallo stato di sforzo sul pezzo e più precisamente dalla differenza
tra gli sforzi principali.
9
1.4 Acquisizione e digitalizzazione delle immagini
Per poter lavorare con le tecniche automatiche è necessario acquisire le
immagini e digitalizzarle, ossia, in ciascun punto, convertire i valori
dell’intensità luminosa da continui a discreti.
In passato per poterle acquisire si utilizzavano degli scanner ottico meccanici
che, sebbene in maniera piuttosto lenta, riuscivano a convertire in segnali di
corrente l’intensità luminosa, mentre oggi sono stati sviluppati degli strumenti
per catturare immagini in maniera rapida, convertendo la luce in un segnale
elettronico; esistono diversi sistemi, come il “charge injection devices” (CID)
e il “metal oxide silicon capacitors” (CMOS), ma il sistema che ha avuto una
più larga diffusione è il “charge-coupled devices” (CCD), su cui sono basate
le più moderne camere.
Tale sistema fu inventato da Boyle e Smith nel 1970 ed è basato su una
matrice CCD responsabile della conversione dell’intensità luminosa in segnali
di voltaggio misurabili, in maniera analogica, lungo una serie di posizioni
discrete.
Fig. 3
Esistono anche camere in cui è possibile ottenere direttamente un’uscita
digitale in modo che il segnale possa essere immediatamente mandato al
sistema di elaborazione delle immagini, ma solitamente è necessario che il
segnale analogico venga trasformato in digitale per mezzo di un convertitore
analogico digitale (ADC) esterno.
10
In un’immagine in bianco e nero la variazione nella scala di grigi
dell’intensità luminosa è rappresentata all’uscita della camera CCD mediante
una funzione continua g(x,y), in cui x e y rappresentano le coordinate spaziali
di un punto. La discretizzazione spaziale delle immagini costituisce una
condizione necessaria affinché esse possano essere elaborate dal computer,
tuttavia non è sufficiente, essendo indispensabile anche una digitalizzazione
della funzione g(x,y) al fine di trasformare in quantità discrete quello che
all’uscita della camera è un segnale continuo.
Le camere standard presentano solitamente una risoluzione di 512 x 512
pixel, mentre il numero dei livelli di grigio, in cui viene discretizzata
l’intensità luminosa, dipende dal numero di bit che la camera stessa utilizza
per ciascun punto; in particolare, se si impiegano 8 bit per punto vi saranno
256 livelli di grigio, se se ne impiegano 10 i livelli saranno 1024, mentre se i
bit impiegati sono 12 i livelli saranno 4096.
1.5 Analisi matematica degli elementi del polariscopio in
luce monocromatica
Come si è precedentemente accennato dal punto di vista qualitativo, ciascun
elemento ottico del polariscopio possiede la caratteristica di introdurre una
rotazione e/o un ritardo di fase sul raggio su esso incidente; sono state scritte
delle relazioni analitiche tra questo e quello emergente da ciascuna lastra,
utilizzando apposite matrici simulanti il comportamento delle stesse al
passaggio della luce [Si Veda l’Appendice A].
Indicando con [P( ∆)] la matrice che riproduce il comportamento del
polarizzatore, con [A( Ε)] quella relativa all’analizzatore, con [R( Τ,δ)], [Q( [)],
[Q( Κ)] rispettivamente quelle che rappresentano il provino, la prima e la
seconda lamina lambda quarti, ed infine con S il vettore corrispondente al
11
raggio luminoso all’ingresso del polarizzatore, si può ottenere il vettore
luminoso S
I
all’uscita dello stesso mediante un semplice calcolo matriciale;
nel caso di polarizzatore piano si ha:
> ≅ > ≅ > ≅SPRAS
I
∆Γ − Ε ,
(1.2)
dove ∆, Ε e Τ sono rispettivamente le orientazioni del polarizzatore,
dell’analizzatore, e di uno degli sforzi principali del provino rispetto ad una
direzione orizzontale di riferimento, mentre δ è il ritardo di fase;
nel caso di polarizzatore circolare, invece, si ha:
> ≅ > ≅ > ≅ > ≅ > ≅SPQRQAS
I
∆[Γ− Κ Ε ,
. (1.3)
dove Κ e [ sono le orientazioni che hanno con l’orizzontale rispettivamente
l’asse lento della seconda e della prima lamina lambda quarti.
Svolgendo queste operazioni si ottiene, nel caso del polariscopio piano, che:
≈
…
≡
↔
←
♠
−∆ Ε
Γ
∆Ε
Γ
2cos
2
sincos
2
cos
2222
ap
II
(1.4)
dove I
p
è l’intensità luminosa all’uscita del polariscopio e I
a
l’intensità della
luce all’ingresso del polarizzatore.
Disponendo incrociati tra loro gli assi del polarizzatore e dell’analizzatore ( ∆
= Ε + Σ/2), (polariscopio in campo scuro), l’equazione si riduce a:
12
≈
…
≡
↔
←
♠
Ε−
Γ
2sin
2
sin
22
ap
II
(1.5)
mentre se gli assi fossero paralleli ( ∆ = Ε), (polariscopio in campo chiaro), si
avrebbe l’equazione:
≈
…
≡
↔
←
♠
Ε−
Γ
2sin
2
sin1
22
ap
II
(1.6)
Nel caso di un polariscopio circolare, invece, si ottiene che:
> ≅ ΓΚ Ε Κ − Γ ΚΕ sin2cos2sincos2sin
22
∓
aa
c
II
I
(1.7)
Qui l’asse del polarizzatore è considerato verticale ( ∆ = Σ/2) e [ è posta
uguale a 135; il segno “∓ ” corrisponde ai due casi in cui l’angolo Τ con
l’orizzontale è riferito rispettivamente all’asse lento e all’asse veloce del
modello.
3
Se la seconda lamina lambda quarti avesse l’asse lento inclinato di Κ = 45°
con l’orizzontale e se il polariscopio fosse in campo scuro, ossia se
l’analizzatore avesse l’asse orizzontale (β = 0°), l’equazione si ridurrebbe a:
Γcos1
2
a
c
I
I
(1.8)
3
Cfr. K. Ramesh, Digital Photoelasticity – Advanced Techniques and Applications, Springer-Verlag, Berlin,
2000, capp. 5.3, 5.4, 5.5.
13
mentre se il polariscopio fosse in campo chiaro, ossia se l’analizzatore avesse
l’asse verticale (β = 90°), l’equazione sarebbe:
Γcos1
2
a
c
I
I
(1.9)
L’equazione (1.8) si annulla, ossia l’intensità è pari a zero, (frangia scura),
quando cosδ = 1, ovvero quando δ = 2Nπ, con N = 0,1,… , dove N
rappresenta l’ordine di frangia; per questi stessi valori, invece, l’equazione
(1.9) assumerà il valore massimo I
a
, individuando così una frangia chiara.
Si tenga conto che tutte le equazioni fino ad ora scritte sono state ricavate
mediante le matrici di Jones e dunque non tengono conto dell’intensità di
fondo I
b
.
14
2 METODI AUTOMATICI DI SECONDA
GENERAZIONE
2.1 Elenco dei metodi automatici di seconda generazione
Il progresso tecnologico tra gli anni ’70 e ’80, e la conseguente riduzione dei
costi relativi sia ai sistemi di acquisizione delle immagini, che a quelli di
elaborazione delle stesse, portarono ad un notevole sviluppo dei metodi
automatici di seconda generazione.
Ciascuna tecnica fu sviluppata allo scopo di minimizzare l’intervento
dell’operatore nel processo di estrazione delle isocline e delle isocromatiche,
di minimizzare il numero di acquisizioni a parità di precisione e di ridurre il
più possibile il rumore.
In ordine cronologico, i metodi di seconda generazione sviluppati furono i
seguenti:
1) Metodo dell’Estrazione del Centro di Frangia (Centre Fringe) (1979);
2) Fotoelasticità Mezza Frangia (Half Fringe Photoelasticity) (1983);
3) Analisi del Contenuto Spettrale (Spectral Content Analysis) (1985);
4) Metodo basato sulla Trasformata di Fourier (1986);
5) Fotoelasticità a Variazione di Fase (Phase Stepping Photoelasticity)
(1986);
6) Fotoelasticità RGB (1991).
15
2.1.1 Metodo dell’Estrazione del Centro di Frangia
Il metodo dell’estrazione del centro di frangia è quello che più si avvicina alla
procedura manuale e può essere schematizzata in due fasi, che consistono
nell’estrazione dei centri di frangia e nelle loro numerazioni; acquisita con
una camera CCD l’immagine, nella prima fase si procede ad una
binarizzazione ed ad un assottigliamento della frangia, fino a che essa non ha
uno spessore di un solo pixel; nella seconda invece, con l’ausilio
dell’operatore, si numerano le frange così rilevate assegnando l’ordine.
E’ una tecnica che richiede una sola immagine per la rilevazione delle
isocromatiche, ottenuta mediante un polariscopio circolare, ma che non è
automatica in quanto è richiesto l’intervento di un operatore esperto, permette
di rilevare solo gli ordini di frangia interi e mezzi e non è precisa in quanto si
basa sull’ipotesi errata che il minimo di frangia si trovi esattamente al centro
della fascia binarizzata.
Le isocline si ottengono mediante una procedura simile, basata però su
immagini acquisite per mezzo di un polariscopio piano ed in numero pari al
quello degli angoli che si vogliono misurare.
4
2.1.2 Fotoelasticità Mezza Frangia
La fotoelasticità mezza frangia, adoperando un polariscopio circolare in
campo scuro, utilizza la relazione:
Γcos1
2
a
c
I
I
(1.8)
4
Cfr. A. Ajovalasit, S. Barone, G. Petrucci, “A review of automated methods for the collection and analysis
of photoelastic data” in Journal of Strain Analysis 33(2), pp. 75-91, 1998.
16
funzione periodica di periodo 2π che lega il ritardo di fase all’intensità
luminosa e di cui qui sotto si riporta l’andamento:
Fig. 4
Risolvendo per δ l’equazione (1.8) si ottiene che:
≈
…
≡
↔
←
♠
a
c
I
I
21arccos Γ
(1.10)
Si può notare, sia da questa equazione che dal grafico precedentemente
tracciato, come il ritardo di fase δ non risulti determinato univocamente una
volta fissato il rapporto I
c
/ I
a
, ma presenti valori identici con una periodicità
pari a 2π; inoltre, anche all’interno di un intervallo di ampiezza 2π, ad un
valore prefissato di I
c
/ I
a
corrispondono due valori del ritardo di fase.
Per ovviare a questo inconveniente e avere una corrispondenza biunivoca tra
intensità e ritardo di fase, è necessario limitare a π l’ampiezza dell’intervallo
di variazione di δ; avendo indicato con N l’ordine di frangia e ricordando che
δ = 2Nπ, ne deriva che N = δ / 2π; di conseguenza ad un ritardo di fase
massimo pari a π (δ
max
= π), l’ordine di frangia massimo misurabile in
maniera univoca sarà pari a N
max
= δ
max
/ 2π = π / 2π = ½, ed è per questa
17
limitazione che la tecnica in esame prende il nome di fotoelasticità mezza
frangia.
Si tenga conto che alle stesse conclusioni si sarebbe potuti arrivare utilizzando
un polariscopio sempre circolare ma in campo chiaro, ed adoperando, però,
l’equazione (1.9) al posto della (1.8).
Questo ridotto intervallo di misura costituisce il principale limite della
tecnica, applicabile soltanto nel caso di sforzi piuttosto bassi, ma essa è anche
soggetta alle imprecisioni derivanti sia dall’utilizzo con luce monocromatica
delle lamine lambda quarti nel polariscopio circolare (si veda a tal proposito il
paragrafo 3.4), sia dalla presenza di sforzi residui e rumori che, a causa
appunto dei bassi carichi, sono dello stesso ordine di grandezza degli sforzi da
misurare.
Nonostante questa tecnica abbia il pregio di avere bisogno di una sola
acquisizione, essa richiede informazioni aggiuntive per poter conoscere
l’intensità di fondo (I
b
) e l’ampiezza locale delle frange (I
a
), ma soprattutto
non permette la determinazione degli angoli di isoclina, che devono essere
ricavati usando un’altra tecnica.
5
5
Cfr. A. Ajovalasit, S. Barone, G. Petrucci, “A review of automated methods for the collection and analysis
of photoelastic data” in Journal of Strain Analysis 33(2), pp. 75-91, 1998.