5
dei proprietari agricoli borghesi stentava molto ad
affermarsi, ma anche quando le proprietà passavano di mano
in mano, la loro condizione restava sostanzialmente
invariata. Prevaleva il latifondo a coltura granaria condotto a
salariati giornalieri, che restavano disoccupati per la gran
parte dell’anno. La produttività per ettaro non raggiungeva
1/3 di di quella della Lombardia. La forza lavoro era
accentrata in poveri borghi, dai quali si partiva all’alba per
raggiungere, stremati, i lontani campi di lavoro dopo molte
ore di cammino.
Era un’agricoltura poco evoluta: da molto tempo, la
Sicilia non era più il granaio d’Italia, non c’era esportazione
sia per l’aumento della popolazione, sia a causa
dell’inefficienza dei trasporti.
Prima dell’Unificazione il Regno delle due Sicilie
aveva solo 99 Km di ferrovie. Non c’erano banche ma solo
Monti frumentari per il prestito in natura delle sementi ai
contadini. Il Cavour ricevette la descrizione della vita
sociale del Sud da Cassinis: <<Il basso popolo è privo di
qualsivoglia capacità politica, “aspetta feste, spettacoli, il
pane a buon mercato, il modo di vivere bene senza far
niente”. Il ceto medio, la cui più tipica espressione è data
dalla peste avvocatizia, è ossessionato dalla questione degli
impieghi, unica questione che lo interessi. La classe
aristocratica, “prima di tutto guardigna della sua posizione,
non volendo compromettere nulla di ciò che possa giovare
al suo buon essere”, è desiderosa di ottenere protezione>>
(2)
.
6
Astengo chiedeva a Cavour la “Piemontesizzazione”
del Sud: <<Nè temo il Governo della Taccia di voler
piemontesare questi Paesi, si tratta di tirarli fuori dal
pantano in cui si trovano, e per riuscire uopo è servirsi di
uomini che non siano pur essi impantanati>>
(3)
.
Dopo il 1860, cadendo le barriere interne della
penisola, i meridionali cominciavano ad uscire dal loro
antico regno, a viaggiare a conoscere meglio le esperienze di
una comune amministrazione, a prendere coscienza di
quanto le due Italie apparissero diverse fra loro, e come si
annunciasse difficile il compito di farle progredire insieme:
<<...ciò che a me soprattutto spaventa è il distacco della vita
morale e politica che esiste tra queste province con quella
della media e dell’alta Italia>>
(4)
.
Infatti, il Cavour, alla vigilia della riunione del Primo
Parlamento Italiano, scriveva a William de la Rive queste
preoccupanti parole: <<il formare l’Italia, fondere insieme
gli elementi che la compongono, armonizzare il Nord con il
Sud, presenta altrettanti difficoltà di una guerra contro
l’Austria o una lotta con Roma>>
(5)
.
Il settentrione entrava nel suo Stato forte di una certa
maturità civile; il Piemonte e la Liguria vantavano ormai
una tradizione di virtù militari e di buoni orientamenti civili,
la Lombardia e il Veneto uscivano da un lungo periodo di
dominazione austriaca, esemplare almeno per l’onesta e
occulta amministrazione e le buone riforme attuate a
vantaggio del Paese; nella stessa Italia centrale, la Toscana
risentiva i benefici del mite e liberalista Governo granducale
7
che aveva favorito l’agricoltura nella quale la mezzadria era
fonte di benessere e di tranquillità sociale. Il Mezzogiorno,
invece, portava con sè un fardello ancora recente di
disordini amministrativi e di antiche sofferenze popolari. La
grande quantità di beni ecclesiastici messi in commercio
poteva essere affidata ai contadini per creare delle piccole
proprietà e animare una classe media o almeno porre le basi
ad essa. La vendita di quelle proprietà invece di inserire
finalmente il contadino meridionale nella vita della nazione,
che era sorta, lo estrania totalmente. Ma, in effetti, alle aste
non potevano partecipare i contadini senza denaro, quegli
stessi contadini che avevano accolto Garibaldi come un
liberatore, che acclamavano i borboni, che esaltavano il re,
quello stesso che invece li aveva chiusi in uno stato di
feudalesimo.
Con il pensiero fisso al difficile problema dell’Unità
italiana, Cavour, nei giorni del delirio mortale diceva:
<<L’Italia du Nord est faite, il n’ya plus ni Lombards ni
Pièmontais, ni Toscans, ni Romagnols: nous sommes tous
Italiens; mais il ya encore les Napolitains>>
(6)
.
Secondo Artom, Cavour, pensava di risolvere i
problemi del Sud con un rapido sviluppo delle
comunicazioni che avrebbe permesso al Mezzogiorno di
divenire ponte commerciale fra Occidente ed Oriente.
Contava, inoltre, anche sulla possibilità di incrementare la
capacità produttiva, di sviluppare l’educazione
professionale, così da creare una classe di <<abili e capaci
produttori, in condizioni di sollevare ed aiutare l’agricoltura,
8
l’industria e il commercio>>. Asseriva che <<Se non
mettiamo in grado le varie province d’Italia, e il Mezzodì
soprattutto, di produrre di più, andremo incontro e tristi
eventualità. Le tasse dovranno crescere, ma in pari tempo
dovrà crescere la capacità contributiva con lo stimolare la
produzione e la formazione della ricchezza>>
(7)
. Cavour
pensava che le effettive condizioni del Sud erano risanabili
con leggi adatte a favorire “la grande ricchezza nascosta”.
Ma il Cavour moriva e così non si può scrivere la storia
con i “sè”.
La situazione delle varie regioni italiane
all’unificazione era diversificata, l’intero equilibrio
territoriale del Mezzogiorno era sconvolto non solo da
agenti naturali. Nel 1833 Carlo Afan de Rivera, ingegnere
borbonico così scriveva: <<Dacchè le nostre pianure e
specialmente quelle in riva al mare rimasero spopolate ed
incolte per effetto delle calamità politiche, cessò affatto
l’industria dell’uomo nel regolare il corso delle acque che lo
attraversavano. Nel tempo stesso i disboscamenti e
dissodamenti operati nè monti [dalle popolazioni ritiratesi
ad abitare là] grandemente contribuiscono a disordinare
l’economia delle acque stesse che devastarono le sottoposte
pianure>>
(8)
.
Il Sud aveva bisogno di essere prosciugato dalle terre
acquitrinose, liberato dalla malaria. Occorreva restituire alla
popolazione fiumi arginati, impedire il disboscamento
selvaggio. I governi borbonici non furono capaci di ottenere
successo da un territorio di “natura matrigna” e nemmeno i
9
governi unitari per decenni risposero alle esigenze locali. I
primi interventi statali furono deludenti anche perché i
privati non volevano o non potevano collaborare con lo
Stato.
L’Unità non risolveva problemi secolari della regione;
in un certo senso li aggravava. Nelle campagne si
riaccendeva la rivolta contadina che la storiografia liberale
molto sbrigativamente aveva preferito etichettare con il
nome di brigantaggio.
Il contadino Lucano era chiuso in un suo mondo fatto
di diffidenza e isolamento, ma <<Il contadino di Basilicata,
il più docile, il più paziente, il più ... imbecille nei momenti
di calma e di quiete, diveniva invece nell’ora della
sommossa il più violento tra i lavoratori d’Italia, e vi
metteva tutto lo slancio della sua violenza brutale, tutto lo
sfogo delle ire e delle passioni per tanti anni represse (...)
egli ignorava nei momenti della sommossa le vere cause
della sua rivolta e cieco d’odio e di vendetta muoveva
contro ogni pericolo, poco curandosi di qualsiasi ostacolo.
Nelle attuali condizioni i soli socialisti possono educare, le
nostre masse di contadini>>
(9)
.
Così dopo la rivolta di Picerno veniva descritto il
contadino lucano su un giornale dell’epoca “L’Alba”.
Qualche anno dopo il socialista Ettore Ciccotti scriveva
che <<... Le sorti dell’Italia meridionale dipendono in
massima parte, se non proprio in tutto, dalla risoluzione che
si saprà dare al suo problema agrario; risoluzione che alla
sua volta non dipende tanto dalla mancanza di capitale,
10
quanto dal poterlo e saperlo attrarre alla terra e dal saperlo
impiegare. ...>>
(10)
.
La terra al contadino giungeva oberata di inutili costi, e
poiché la fame era enorme sottostava ad esosi patti di
affittanza, restava alla mercé dei proprietari terrieri anche
perché erano quelle le persone a cui si doveva far capo in
tutti i frangenti della vita; per la piccola somma prestata, per
l’uso del frantoio o per la vendita del raccolto.
Ad accrescere l’arretratezza meridionale, contribuiva la
carenza di un diffuso ceto medio. Questo ceto mancava
anche nelle città dove si accalcava una plebe, altrettanto
misera di quella rurale, in larga misura senza fissa
occupazione, paga del pochissimo che riusciva ad avere, da
tempo immemorabile abituata a risolvere alla giornata il
problema dell’esistenza, spesso soltanto attraverso mezzucci
ed espedienti. Con un tessuto sociale fragile, l’Italia
meridionale entrava a far parte della vita della nuova
nazione. Le misure liberali furono trasformate in atti
insolventi di potere. Alla miseria economica si aggiungeva
la degradazione umana, lo sdegno dell’umile verso il
signore, del povero verso il ricco. In questo clima con una
popolazione in fase di espansione demografica che altera i
rapporti sociali l’emigrazione diventa nelle campagne tra
contadini e proprietari, una valvola di sfogo. Spesso, per la
prima volta, i contadini subivano l’impatto con la città
emigrando. Cercava di ricostruire nel nuovo ambiente il suo
piccolo mondo, cosicché la parrocchia e i circoli del partito
politico unificavano le comunità di immigrati. L’Italia anche
11
se aveva individuato le cause che portavano ad emigrare non
cercava di arginare il fenomeno poiché aveva bisogno delle
rimesse dell’emigrante per risollevarsi
(11)
.
L’aspetto sociale dell’emigrazione venne evidenziato
anche dallo scrittore Carlo Levi durante la sua permanenza
in Lucania: <<L’altro mondo è l’America. La America ha
per i contadini una doppia natura ... Non Roma ma New
York sarebbe la vera capitale dei contadini di Lucania, se
mai questi uomini senza Stato potessero averne una>>.
<<Una buona parte delle spose hanno il marito in America.
Quello scrive il primo anno, scrive ancora il secondo, poi
non se ne sà più nulla ... In paese ci restano più donne che
uomini: chi sono i veri padri non può avere una importanza
così gelosa ... il regime e matriarcale>>
(12)
.
I problemi del territorio, dell’economia, della società si
trascinavano fino all’inizio del secolo. Venivano emanati 22
provvedimenti tra il 1900 e il 1914 su tutto il territorio
nazionale. Nel 1902 il presidente del Consiglio dello Stato
Unitario, Zanardelli, quasi con il senso di colpa di tutta una
classe dirigente, si avventurava, ormai vecchio, per le
contrade della regione in un viaggio rimasto famoso per la
crudele realtà regionale che evidenziava e per le grandi
speranze, presto deluse, che il viaggio suscitò tra le
popolazioni.
12
Note
1 G. Racioppi, Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, Editori
riuniti, Roma, 1970, Vol. II.
2 M.L. Salvadori, Il mito del buongoverno. La questione meridionale da
Cavour a Gramsci, Einaudi, Torino, 1960, pag. 28.
3 Carteggi Cavour ,La liberazione del Mezzogiorno e la formazione del
Regno d’Italia, vol II, Il Mulino, Bologna, 1552, pag. 228.
4 Ibidem, pag. 356.
5 Ibidem, pag. 356.
6 E. Artom, Il conte di Cavour e la questione Napoletana, in <<Nuova
Antologia>> 1 nov. 1901, pag. 152.
7 M.L. Salvadori, Il mito del buongoverno. La questione meridionale da
Cavour a Gramsci, cit., pag. 30.
8 C. Afan de Rivera, Considerazioni sui mezzi da restituire il valore proprio
ai doni che ha la natura largamente conceduto al Regno delle due Sicilie,
vol. I, Stamperia e cartiera del Fibreno, Napoli, 1833, pag. 94.
9 “L’Alba”, n. 11 del 11/12/1898, <<La rivolta di Picerno e l’opera dei
socialisti>>.
10 E. Ciccotti, Quel che si potrebbe fare intanto per Mezzogiorno d’Italia, in
<<Rivista moderna di coltura>>, 31 marzo 1900.
11 L. De Rosa. Orientamenti e problemi in storia economica, G. Giappielli
editori, Torino, 1987, pag. 100.
12 C. Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, Einaudi editori, Torino, 1945,
pag. 83.
13
Capitolo Primo
LA BASILICATA E LA QUESTIONE
MERIDIONALE
14
1.1 Unità d’Italia: divario Nord - Sud
Nel maggio 1860 le regioni meridionali vennero
annesse al resto della penisola in via d’unificazione. Come
parte del nuovo Regno d’Italia dominato da Casa Savoia,
quel vasto territorio della penisola, che per ben sei secoli
aveva costituito il Regno di Napoli, perse per sempre la sua
dimensione di stato autonomo per divenire un insieme di
province. Quest’evento fu di decisiva importanza per le sorti
future dell’intero paese: per il Mezzogiorno aveva termine
un’autonomia statale che lo aveva portato ad essere un
piccolo regno in un mondo di giganti nazionali. Nasceva
una nuova vita politica dipendente da un centro posto fuori
del suo territorio, ma parte integrante di uno stato moderno,
sorretto da ordinamenti liberali.
Quest’inevitabile e necessario passaggio produsse
contraccolpi negativi, spesso gravi, in vari ambiti della
realtà meridionale. L’abolizione delle tariffe
protezionistiche, dall’ottobre 1860, espose di colpo una
buona parte delle industrie dell’ex Regno alla concorrenza
esterna, costringendo le più deboli alla chiusura.
Napoli, con la perdita del ruolo di capitale, si avviava
su una strada di ridimensionamento politico ed economico
destinato ad influenzare anche le attività produttive delle
province che alla gran città facevano riferimento.
L’abolizione della corte, la chiusura di tanti uffici, la
soppressione dell’esercito borbonico, privarono la città di
molte importanti funzioni amministrative che alimentavano
le economie locali. Napoli perse la cura ravvicinata dei
15
propri affari, che ad essa proveniva dall’essere sede del
governo del Regno. In quegli anni, per esempio, i presidenti
del Consiglio italiano furono di origine piemontese. La cura
degli affari economici e delle politiche di sviluppo, restò
così nelle mani assai deboli, inadeguate e spesso in
reciproco conflitto degli amministratori locali di Napoli e
degli alti comuni delle regioni meridionali. Non bisogna,
dall’altra parte, dimenticare, a questo proposito, che gli
stessi gruppi dirigenti meridionali presenti ai vertici dello
stato, non avevano allora idee chiare sui problemi economici
e sociali di quelle regioni.
Spesso si trattava di persone, di origine nobile o
borghese, che erano state costrette per anni all’esilio dalle
persecuzioni borboniche e che perciò non conoscevano in
genere le condizioni materiali del Sud.
Unificandosi, l’Italia, diveniva automaticamente, per
dimensioni demografiche, uno dei grandi stati europei; per
molti italiani, questa era una cosa sorprendente. Una delle
più marcate differenze fra Nord e Sud fu “il tasso di
analfabetismo”
(1)
. Emerse un “dualismo” profondo: il Nord
era più vicino all’Europa occidentale (anche per la lingua) il
Sud più affine al resto dell’area meridionale del
continente
(2)
.
Il territorio era qualitativamente e quantitativamente
molto diverso dagli altri paesi industriali. A metà dell’800 il
Nord era già proiettato verso uno sviluppo industriale,
grazie ad uno sviluppo economico, presente già nel ‘600.
16
Nel Sud, invece, vi era stata una storia rinascimentale
diversa. Al momento dell’unificazione solo a Napoli si
hanno pochi e modesti insediamenti di attività industriali e
manifatturiere. Le differenze fra Nord e Sud erano già
nettamente marcate. I pochi dati disponibili, rivelano, alla
data dell’unificazione, che il futuro triangolo industriale,
con una popolazione di 6.9 milioni di abitanti contro i 9.2
del Regno delle due Sicilie, faceva registrare una
produzione agricola stimabile in oltre 400 lire per ettaro,
contro un valore analogo di 81 lire nell’ex Regno
Borbonico
(3)
, mentre, il valore, delle esportazioni del
“triangolo” era due volte e mezzo quello del Regno delle
due Sicilie
(4)
.
Esistevano, inoltre, importanti differenze riguardanti la
cultura diffusa per le trasformazioni industriali.
L’inglobamento del Regno di Napoli nella compagine
nazionale fu poco più che un’operazione militare e
istituzionale. Fu scarsa la partecipazione popolare e di
massa al movimento unitario, perché quest’ultimo era
povero di contenuti sociali che potessero interessare le
popolazioni. Il ceto medio urbano e rurale era debole e poco
sviluppato e quindi non in grado di far propri gli ideali
dell’Unità italiana. Gran parte della popolazione sentiva i
nuovi dominatori come degli estranei, come una potenza
nemica, che aveva deposto con le armi un governo
legittimo, un’antica dinastia. Il Mezzogiorno faceva il
proprio ingresso nella nuova nazione su esigue e fragili base
di consenso.
17
Al Nord, invece, l’unità d’Italia era intesa come
unificazione politica. Si può dire che l’Italia fu unificata
soprattutto per un’idea politica-letteraria, un’idea d’élite
culturali, di formazione recente, poco integrate nella
struttura della società e dei piccoli Stati del vecchio regime,
che cercavano uno spazio d’identificazione più ampio,
coincidente con le frontiere linguistiche
(5)
. I problemi del
Nord erano sostanzialmente risolti poiché non c’era uno
stato da costruire, ma solo una realtà da migliorare. I
problemi concernevano piccoli paesi integrati, una realtà più
controllabile. Radicalmente diversi saranno i problemi che
scaturiranno dall’annessione del Regno delle due Sicilie.
1.2 Il Brigantaggio
All’indomani dell’unità, prendeva avvio la più vasta,
lunga e sanguinosa forma di “guerra civile” della nostra
storia: il brigantaggio: la nuova pressione fiscale, l’antico
bisogno di terra, lo scioglimento dell’ex esercito Borbonico
che privava migliaia di soldati di un qualsiasi status sociale,
la coscrizione obbligatoria imposta dal nuovo Stato, che
sottraeva per 5 anni le più giovani braccia da lavoro alla
famiglia contadina, spingeva gli ex soldati e i contadini a
darsi alla macchia.
Tra il 1861 e il 1866 regioni come la Puglia, il Molise,
la Basilicata e la Campania vennero percorse da movimenti
di bande armate formate da contadini o da ex soldati datisi
alla macchia, che saccheggiavano beni e proprietà dei
signori locali, decisi a vendicare vecchi soprusi sociali e
18
familiari, e che ad ogni modo dichiaravano guerra aperta al
nuovo Stato. I briganti vennero a godere dell’omertà e
dell’appoggio aperto delle masse contadine e ottennero il
sostegno dell’ex re Francesco II. Anche la chiesa diede
sostegno alle bande, proteggendole nei conventi,
condividendo e alimentando l’ideologia dei briganti. I
briganti vedevano nel governo liberale il nemico della
“buona religione” e del Papa poiché aveva oppresso e
rovesciato con la forza le legittime autorità.
Per soffocare il brigantaggio fu impiegato metà
dell’esercito italiano, mentre nel 1863 venne emanata la
“Legge Pica”, che autorizzava lo stato d’assedio nei paesi
battuti dai briganti.
La nuova compagine statale si presentava, alla massa
della popolazione, con il volto violento e brutale della
repressione armata. Il deputato Massari, incaricato dalla
Commissione d’inchiesta della Camera di stendere la
relazione sul brigantaggio nelle province meridionali,
forniva alcune terribili e ancora provvisorie cifre della
repressione fin lì attuata: circa 3451 morti fra briganti contro
307 morti fra soldati e Ufficiali dell’esercito. Così, egli
concludeva: <<il numero totale [...] approssimativo dei
briganti per morte, per arresto e per presentazione volontaria
posti fuori combattimento ascende a 7151>>
(6)
.