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Introduzione
La teoria di base che ha dato l‟avvio allo svolgimento di questa tesi è la verifica
e l‟eventuale applicazione del modello storico ideato da Pierre Toubert per il
Lazio alla Sicilia normanna. Il confronto fra queste due realtà così diverse è
dovuto alla quasi contemporaneità degli eventi che hanno coinvolto entrambe le
regioni tra il X e l‟XI secolo e che ne hanno determinato alcune importanti
caratteristiche sia economiche che sociali.
Il motivo per cui è stato scelto proprio il modello toubertiano è dovuto
all‟apparente similitudine tra le forme di incastellamento studiate dallo storico
francese per il Lazio e quelle che appaiono sia dalle fonti storiche che da alcuni
scavi effettuati anche in tempi recenti in Sicilia. Lo studio di Toubert, infatti,
rivelò una dinamica di grande importanza nella storia della regione da lui
studiata e, più in generale, del feudalesimo italiano tra la fine dell‟Alto
Medioevo ed i secoli centrali: ossia la fine dell‟abitato sparso con relativa
concentrazione della popolazione residente in centri d‟altura fortificati
denominati castra e conseguente controllo di essa e delle produzioni agricole e/o
artigianali da parte del signore, promotore e creatore dei nuovi insediamenti.
Questo evento, che per molto tempo gli studiosi del settore attribuirono alle
incursioni degli Ungari e dei Saraceni in territorio laziale
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, fu invece dovuto,
secondo lo studioso francese, al sempre maggior potere acquisito dagli esponenti
dell‟aristocrazia laziale che, in qualche caso, riuscirono a crearsi un proprio
dominio di fatto indipendente dal potere centrale, peraltro ancora evanescente,
del Pontefice romano. Toubert concentrò i propri studi sul basso Lazio, in
particolare nella regione che dalla Sabina si estendeva fin quasi al confine con
l‟odierna Campania, entro la quale erano compresi anche i monasteri di Farfa e
Montecassino, dai cui registri egli prese le informazioni sul territorio, le sue
suddivisioni, le donazioni, i prodotti, gli eventuali canoni dovuti ai monasteri
etc…Anche un altro monastero famoso, quello di Bobbio, fu coinvolto nello
studio, in quanto possedeva alcune terre nella regione interessata. Gli studi
coinvolsero il periodo che egli stesso definì come quello di maggior floridezza
degli insediamenti castrali, che sarebbe anche continuato se non fosse stato per il
1
In realtà di incursioni veramente pericolose da parte di questi popoli non ve ne furono che poche, la più
importante delle quali è il sacco di Roma perpetrato da Saraceni nell‟855 d.C., ampiamente fuori dall‟orizzonte
temporale del problema.
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rinnovato omaggio degli aristocratici al pontefice. Ciò che contraddistinse
l‟insediamento castrale del Lazio fu la volontà esplicita degli aristocratici laici di
creare degli abitati atti a concentrare e controllare la popolazione e le attività
economiche da essa messe in pratica e che costituivano la loro fonte principale,
se non l‟unica, di rendita seguendo un modello curtense adattato alla quantità e
qualità delle risorse disponibili sul territorio. Toubert riscontrò, incrociando sia i
dati delle fonti che ricerche sul territorio, almeno tre tipi sistemi curtensi con i
conseguenti diversi tipi di amministrazione e livelli di dipendenza della
popolazione: un primo tipo che lui definì di produzione, in cui venivano messi a
coltura dei territori abbandonati o poco sfruttati, le cui rendite erano divise tra il
signore ed i contadini che dovevano anche pagare dei canoni minimi per gli
attrezzi e l‟eventuale pascolo del bestiame ed era utilizzato in zone periferiche,
relativamente lontane dai castra, ma che consentivano comunque buone rese; un
secondo tipo detto di sfruttamento, utilizzato soprattutto nelle zone di media ed
alta collina o di montagna che prevedeva sia la coltivazione del territorio che lo
sfruttamento più o meno intensivo delle risorse boschive, sia in frutti che in
legname, ed il pascolo; un terzo tipo che era poi il classico sistema curtense di
tipo carolingio, che prevedeva la presenza di una pars dominica coltivata dai
servi del signore ed in cui i contadini dovevano obbligatoriamente prestare
servizio per alcuni giorni l‟anno (corvées o angarìe) e di una pars massaricia
che i contadini coltivavano sia per il proprio sostentamento che per il pagamento
dei canoni dovuti al signore e/o al monastero
2
.
Questa, ovviamente espressa in maniera molto sintetica, è la tesi toubertiana
sull‟incastellamento. Ciò che nel presente lavoro mi propongo di fare è applicare
lo stesso metodo alla Sicilia del periodo normanno e verificarne la validità
ipotizzando un modello per l‟insediamento siciliano seguente la conquista
normanna e nel periodo successivo del regno fino alla sua caduta. Prima di far
ciò, però, è bene chiarire la situazione insediamentale dell‟isola prima
dell‟arrivo dei Normanni, in quanto, a mio modo di vedere, le condizioni pre-
esistenti influenzeranno in modo determinante gli assetti economici e sociali
dell‟isola nei periodi successivi.
2
P.Toubert, Dalla terra ai castelli. Paesaggio, agricoltura e poteri nell‟Italia medievale. Einaudi 1997 pp. 115
ss.
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Capitolo I
L‟insediamento prenormanno in Sicilia
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1.1 La Sicilia tardoantica e protobizantina
Tracciare un quadro completo ed esaustivo della Sicilia tardoantica e
protobizantina è un compito alquanto difficile, poiché poche sono le fonti
letterarie disponibili mentre le ricerche archeologiche, che possono dare un
grande contributo alla conoscenza del periodo, sono ancora in pieno
svolgimento o, se complete, non ancora pubblicate. Ciò che è possibile fare,
nonostante tutto, è tracciarne un profilo relativamente sintetico che in ogni caso
dà un‟idea generale di come potesse apparire la regione nel periodo compreso
tra gli ultimi secoli dell‟Impero Romano ed i primi anni della dominazione
bizantina. La sintesi più completa sull‟argomento è, ancora, quella proposta
dalla Cracco Ruggini
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la quale dava un quadro molto approfondito, anche se
molto pessimista, della situazione isolana nel periodo preso in esame. Ella,
infatti, descriveva, sia sulla base delle poche fonti storiche che dei primi scavi
allora compiuti, la Sicilia nel periodo appena seguente l‟annessione all‟Impero,
come una provincia statica e sonnolenta, depressa ed arretrata in ogni campo
delle attività umane e caratterizzata da una certa marginalità politica, poiché è
raro trovare citati, almeno fino al III/IV secolo d.C. nomi di senatori, cavalieri o
legionari siciliani, a parte il noto Onasus Segestanus citato da Cicerone
4
ed un
altro personaggio con lo stesso nome citato da S. Girolamo nel IV secolo in una
delle sue epistole
5
, il che, archeologicamente, si manifesta con l‟assenza di
costruzioni in opus reticulatum, tipico della committenza imperiale e/o senatoria
ed utilizzato per costruzioni di prestigio; questo si riflette anche nella mancanza
di attestazioni, almeno fino al IV/V secolo, di opere di evergetismo nei confronti
delle comunità cittadine, che di rado, prima di questo periodo, compaiono in
iscrizioni, dediche o altra documentazione epigrafica o no. Inoltre vi fu una
grande differenza tra le città dell‟isola, in quanto, nel generale calo demografico,
alcune riuscirono a mantenere standard di vita più o meno regolari, mentre altre
furono abbandonate. Tra le prime sono certamente da collocarsi le grandi città
costiere, per quanto scavi recenti attestino una certa decadenza di Agrigento già
a partire dal III secolo d.C., le quali erano importanti centri commerciali verso
l‟Africa e l‟Oriente oltre che sedi del governo provinciale. Le città più interne ed
3
L.Cracco Ruggini, La Sicilia tra Roma e Bisanzio in Storia della Sicilia, III, Napoli, 1980.
4
Cic. Verrine, 2, 120
5
Hier, ep. 40, 2.
5
i piccoli centri, invece, decaddero e spesso furono abbandonati come
Morgantina, Camarina etc…Le cause di tutto questo, secondo la studiosa, sono
da ricercarsi anzitutto nella posizione stessa dell‟isola, centro del Mediterraneo e
dei traffici che lo percorrevano, ma anche luogo assolutamente pacificato dopo
la fondazione del principato. Forse proprio all‟assenza dei soldati e di una flotta,
che in altre province ben più turbolente, costituirono una spinta alle attività
economiche, portò ad una riduzione delle dinamiche sociali ed alla mancanza di
stimoli economici. A ciò va aggiunta anche una profonda “ristrutturazione” del
sistema agrario in molte zone dell‟isola, che comportò la diminuzione generale
della piccola e media proprietà, caratteristica della Sicilia classica ed ellenistica,
e la concentrazione di molti possedimenti nelle mani di pochi grandi proprietari,
situazione questa ampiamente osservata e studiata per il IV e V secolo, che portò
anche alla creazione delle grandi ville tardoantiche. Accanto a questo va
collocato anche il massiccio uso di manodopera schiavile al posto del
tradizionale colonato, ritenuto troppo oneroso dal punto di vista economico,
vista anche l‟ampia disponibilità di schiavi, specialmente dopo le campagne
militari della fine I/inizi II secolo d.C. La Sicilia, però, nella coscienza dei
Romani restava una terra lontana, eccentrica rispetto alle altre province
dell‟Impero, troppo vicina all‟Italia per non essere controllata ed allo stesso
tempo troppo lontana per usi e mentalità per essere compresa appieno
nell‟ambito della Romanità e per avere un certo peso politico. Situazione questa
accentuata anche dall‟uso del greco che ancora fino al V secolo appare essere la
lingua più diffusa, almeno da quanto si può ricavare dall‟analisi delle epigrafi
funebri rinvenute ed appartenenti a persone del ceto medio cittadino e dei
filatteri anch‟essi scritti in greco, così a causa di questi fattori l‟isola era anche
utilizzata come luogo di detenzione degli “esuli scomodi” della corte imperiale.
L‟uso così prolungato nel tempo del greco era anche un segno d‟identità degli
abitanti della Sicilia, nonché quasi un mezzo di difesa contro le intrusioni
esterne da parte dei governatori imperiali: note sono, infatti, le dispute tra i
decurioni di cultura e lingua greca – anche se l‟amministrazione e le classi colte
in genere erano bilingui – delle città siciliane ed i governatori romani
provenienti dall‟esterno riguardo l‟amministrazione del denaro pubblico o
eventuali rimaneggiamenti da effettuare nelle varie città. Tutto ciò ebbe anche
degli effetti molto positivi sul lungo e lunghissimo periodo: infatti, essendo così
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gelosi della propria indipendenza, i “siciliani” riuscirono a mantenere entità
municipali abbastanza distinte e forti almeno fino all‟VIII secolo d.C. quando in
Italia erano già scomparse da almeno tre secoli, con alcune eccezioni importanti
come Roma o Napoli. Questo mantenimento, sempre secondo l‟opinione della
Ruggini, è dovuto alla pace della vita municipale isolana, quasi che
l‟inamovibilità e l‟inerzia della società abbia conservato le forme ed i modi
tradizionali del governo e della politica che, come accade per la vita sociale e
civile, si sclerotizza e si chiude sempre più in sé stessa generando anche ampie
sacche di povertà e di decadimento delle stesse strutture urbane anche sul piano
edilizio, come testimoniano anche le diverse scoperte archeologiche realizzate
nei contesti urbani isolani. Inversamente proporzionale al decadimento delle
condizioni di vita urbane è il ripopolamento delle campagne a cui si
accompagnava lo spostamento dei poteri economici ed, in generale, della
ricchezza che comportò la creazione di grandi ville rustiche diffuse in molte
parti dell‟isola, specialmente nelle zone in cui i terreni erano estremamente
fertili come la zona centro-meridionale e quella orientale dell‟isola. Questo
nuovo sistema agricolo, che utilizzava per lo più manodopera schiavile portò
alla fine di molti villaggi sparsi nelle campagne siciliane ed al conseguente
accumulo di terreni nelle mani di pochi possessores, fenomeno che avrebbe
portato alla creazione della “massa” in età tardoantica che però presentava
alcune rilevanti differenze, non ultima il fatto che i proprietari controllavano lo
sfruttamento il più delle volte di presenza, mentre nei primi secoli dell‟impero
queste ville ancora rustiche restavano per la maggior parte del tempo disabitate,
in quanto il proprietario del terreno lasciava la direzione degli affari locali a
degli amministratori detti actores con il compito di produrre quanta più
ricchezza possibile dalle terre del padrone. L‟assenteismo, che caratterizzò
l‟economia agricola dell‟isola nei primi secoli dell‟era volgare, era dovuto anche
alla mentalità ed al concetto della ricchezza che i proprietari romani
possedevano: essi, infatti, non concepivano l‟idea del risparmio delle ricchezze
da investire in eventuali nuove risorse tecnologiche per aumentare le entrate ma,
a quanto pare, miravano al pareggio dei loro bilanci, ed il resto lo spendevano
nell‟organizzazione di grandiosi ricevimenti o nell‟allestimento di eventi e ludi
di varia natura per la comunità per dimostrare il proprio prestigio ed esibire le
proprie ricchezze. Questo modo di pensare e di amministrare i ricavati dei
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raccolti fu un‟altra causa del persistente immobilismo produttivo di queste terre
nelle quali, anche archeologicamente, è molto difficile trovare tracce di
macchinari come i mulini ad acqua o gli aratri a versoio, che erano molto diffusi
in altre province come la Gallia, nota per le sue altissime rendite produttive. Le
fonti attestanto per questo periodo anche un‟elevata presenza di pascoli, anche
piuttosto ampi, accanto ai terreni destinati alla coltivazione.
Questa forma di gestione della proprietà perdurò fino al IV secolo circa, più
precisamente fino all‟anno 332 d.C. quando i rifornimenti di grano provenienti
dall‟Egitto vennero dirottati, per decreto imperiale, alla “nuova Roma” ossia
Costantinopoli. Grazie a questo avvenimento l‟attenzione degli aristocratici,
nonché del popolo romano, puntò in maniera più diretta sull‟Africa e sulla
Sicilia, la quale, se non divenne de facto il nuovo granaio di Roma, ruolo
ricoperto dalle province nord-africane, era comunque un validissimo supporto in
tempi di carestia o di problemi interni al Nord-Africa, come le rivolte popolari
divenute sempre più frequenti o le incursioni delle popolazioni berbere e
numidiche divenute nuovamente aggressive. La Sicilia, dal canto suo, si ritrovò
al centro delle relazioni tra Roma e l‟Africa da ogni punto di vista e divenne
anche un punto di raccordo e di sosta nei numerosi viaggi degli aristocratici che
si preoccupavano maggiormente delle loro ormai immense proprietà, alcune
delle quali comprendevano possessi in Italia meridionale, Sicilia ed Africa.
L‟isola si ritrovò, tra le altre cose, quasi divisa in due nell‟ambito delle relazioni
religiose, commerciali e culturali che intratteneva sia con l‟Africa che con
l‟Oriente, situazione che si rifletterà anche sulle condizioni future dell‟isola.
Questa divisione è testimoniata anche dalle modalità di penetrazione del
Cristianesimo nell‟isola, le cui prime tracce – per quanto possano affermare
leggende ed agiografie più o meno credibili – risalgono al III secolo d.C.
proprio nella Sicilia orientale, che più stretti rapporti aveva con le città
microasiatiche e con Bisanzio e terminò, per quello che se ne può intuire,
intorno al V secolo nella Sicilia occidentale grazie anche all‟influsso dei
cristiani d‟Africa fuggiti in Sicilia dalle persecuzioni degli eretici o
dall‟invasione dei Vandali. Nonostante arrivino in Sicilia idee diverse sul
Cristianesimo, non si avranno mai degli scontri di carattere religioso con le
autorità come accadeva nelle altre zone dell‟Impero, perché la presenza di
estesissime proprietà imperiali, senatorie, ed in seguito anche ecclesiastiche,
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controllate in maniera diretta – o quantomeno con una presenza più assidua da
parte dei proprietari – e la scelta dei componenti del clero operata direttamente
da Roma favorirono un controllo capillare della società dell‟isola; inoltre la
diffusione della nuova religione in ogni strato della società consentì una più
ampia diffusione della lingua latina, con una notevole regressione dell‟uso del
greco, almeno nelle città e negli insediamenti più grandi, testimoniata da diversi
aneddoti riportati nelle fonti tardoantiche, come il famoso episodio del concilio
di Arles in cui il vescovo di Lilibeo, Pascasino, dovette chiedere un interprete
greco perché non capiva quella lingua. Oltre a tutto questo la Sicilia divenne
anche un potente mezzo di controllo politico nelle mani della classe dirigente
romana che la utilizzava a seconda delle occasioni come base militare per le
spedizioni in Africa contro i ribelli oppure come punto d‟appoggio per i
convogli granari da e verso Roma e come punto di scambio delle merci
provenienti da molte zone del Mediterraneo, ruolo che ricoprì anche in passato.
Il rinnovato interesse per l‟isola generò importanti modifiche nella sua
composizione politica e sociale e molti esponenti dell‟aristocrazia romana
costruirono o ampliarono quelle reti di possedimenti che si erano create nei
secoli precedenti tra Italia ed Africa passando per la Sicilia che, anche dal punto
di vista politico, diventava un‟importante tappa del cursus honorum, in quanto
preludeva ad una delle cariche più importanti dell‟Impero: il proconsolato
d‟Africa. Diretta conseguenza di questo cambio di prospettiva fu un controllo
più ravvicinato e diretto delle proprietà, dove sempre più di rado si registravano
assenze prolungate dei proprietari; inoltre si diede atto ad ampie opere di
evergetismo che riguardarono anche alcune grandi città come Palermo, Lilibeo,
Siracusa e Catania mentre tante altre non furono toccate se non in maniera molto
lontana dalla rinascita generata dalla grande proprietà terriera che, come sembra,
condizionò profondamente la vita dell‟isola a partire dalla viabilità che venne
profondamente influenzata dalle divisioni dei vari terreni e molte strade vennero
addirittura deviate o ebbero delle diramazioni realizzate appositamente per
collegare le ville con le città o tra loro ed anche con i vari vici che ne
costituivano i termini interni. Le scoperte archeologiche delle ville e l‟analisi
condotte sul territorio contribuiscono, quindi, a cancellare l‟immagine della
Sicilia “deserta” e selvaggia che era presente nella mente di molti studiosi, ma
anche di molte persone dell‟epoca, che la ritenevano una terra non popolata da
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città né da uomini civilizzati che si adoperassero nei lavori della terra o in
attività commerciali. Questi enormi traffici generati dai bisogni della nuova
aristocrazia terriera, invece, rivitalizzarono le attività dell‟isola ed i loro benefici
influssi si sentirono specialmente nelle città costiere che ospitavano i mercanti
che gestivano i commerci con l‟Oriente, la Grecia, l‟Egitto, Roma e l‟Africa.
L‟imponente presenza dell‟aristocrazia romana nell‟isola si manifestò non
soltanto nella magnificenza e monumentalità delle ville, nei restauri di alcune
città e nei fastosi giochi da essa offerti, ma soprattutto in una nuova
organizzazione territoriale articolata in massae e fundi. Le masse erano costituite
da una serie di territori più o meno contigui tra loro, i cosiddetti fundi, che
costituivano la base del nuovo sistema. L‟aristocrazia accumulò con l‟andare del
tempo delle estensioni sempre più grandi di territorio che ridusse in maniera
significativa la presenza della piccola e media proprietà, che non scomparve del
tutto, ma anzi ancora ai tempi di Gregorio Magno era attestata in molti luoghi
della Sicilia, specialmente vicino le città. Gli aristocratici non erano però i soli
possidenti in Sicilia, infatti fra i grandi proprietari figurava anche l‟Imperatore, i
cui possedimenti erano molto più articolati sia nell‟estensione che nella
gestione, affidati ad amministratori più o meno onesti che spesso si
comportavano come padroni di quelle terre, speculando sulle vendite dei raccolti
o sugli acquisti dei prodotti dai contadini, aspetto che si riflettè anche nella
gestione dei territori ecclesiastici, che spesso ricalcarono quelli imperiali in
alcune zone, in quanto donati alla Chiesa oppure ottenuti attraverso la
mediazione degli affittuari o dei privati che rappresentò l‟altra grande
caratteristica della Sicilia tardoantica, ossia l‟accumulo da parte della Chiesa di
estensioni sempre più ampie di territorio, oltre a quelli spettanti di diritto alle
singole diocesi siciliane. L‟accumulo avveniva tramite donazione o testamento,
in quanto molti cercavano la protezione autorevole del clero e del Papa contro lo
strapotere degli aristocratici, dello Stato o le incursioni dei barbari; in molti
donavano le terre anche per fervore religioso o altri motivi. Coloro che cedevano
le terre al clero erano soprattutto i piccoli e medi proprietari terrieri che ancora
riuscivano a sopravvivere nonostante la presenza dei latifondi. La persistenza
della piccola e media proprietà condurrà, molto lentamente ed anche grazie a
fattori esterni, alla frammentazione del latifondo e quindi al ritorno ai fondi di
dimensioni più modeste che per molti secoli sono stati alla base dell‟economia