che l'ammirazione dei critici per De Palma è stata discontinua: oltre al troppo
evidente richiamo al modello, infastidiscono alcuni virtuosismi tecnici (un
esempio su tutti è l'utilizzo dello split screen) giudicati eccessivamente barocchi
dalla frangia più classicista della critica.
Questo breve studio si propone di effettuare una comparazione tra i due
registi, al fine di mostrare come sia possibile far convergere queste accuse in
un'unica direzione: quella di un accostamento di De Palma alla poetica del regista
inglese, piuttosto che – come accusano i detrattori – un prelievo acritico di questo
o quello stilema hitchcockiano solo per avere a disposizione un repertorio di
elementi di sicuro effetto sul pubblico, indipendentemente dalla loro inseribilità e
coerenza all'interno del plot.
Si è parlato di classicismo cinematografico: certo la filmografia del regista
italoamericano è, in moltissimi punti, discordante dai dettami del cinema classico:
in quest'ultimo, infatti, dominano i canoni del realismo e della verosimiglianza,
mentre sono relativamente in secondo piano i processi di motivazione intertestuale
ed artistica. Negli anni Cinquanta, grazie allo studio condotto dai giovani registi e
critici francesi dei Cahiers du Cinéma (François Truffaut su tutti1) su autori-
sperimentatori come Orson Welles, Billy Wilder o Alfred Hitchcock, ci si affranca
definitivamente dal realismo dello studio system: anzi, raggiunta ormai la
consapevolezza dell'artificiosità delle trame, allo spettatore non viene più chiesto
di annullarsi nella storia, ma di conservare un certo distacco critico rispetto alle
immagini che vede. Questo movimento di riflessione, questo ripiegamento su se
stesso del discorso artistico è riscontrabile, più o meno negli stessi anni, anche
nell'arte figurativa.
Con la cosiddetta arte concettuale analitica “le modalità operative non sono
quella della metatestualità (intesa come relazione critica – detta anche “di commento”– che lega il testo
A al testo B) e della ipertestualità, per cui un testo B (ipertesto) evoca manifestamente un precedente
testo A (ipotesto), e non potrebbe esistere senza quello. L'ipertesto sussume l'esistenza dell'ipotesto: chi
leggesse un ipertesto senza conoscere il relativo ipotesto ricaverebbe dal primo solo un significato
parziale.
1 Autore, non a caso, del libro-intervista Il cinema secondo Hitchcock, tradotto in italiano dalla milanese
Pratiche Editrice. Il volume è un fondamentale strumento per lo studio della poetica hitchcockiana,
tanto che il risvolto di copertina dell'edizione americana lo considera “lo studio definitivo su Alfred
Hitchcock”. L'importanza di quello che il regista francese definiva l'hitchbook è tale che Brian De
Palma si trova addirittura costretto a citarne la prima edizione (che si fermava fino a The torn curtain
del 1966): in Greetings, uno dei suoi primi lungometraggi, viene letto da uno dei personaggi.
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più soltanto un insieme di mezzi al servizio della creazione: bensì, una volta
esibite, esse diventano il contenuto stesso dell'opera1”. Gran parte del cinema
successivo alla Nouvelle Vague (De Palma, ovviamente, incluso) condivide con
Joseph Kosuth un lavoro sui processi artistici e sulle idee piuttosto che sul
risultato materiale finito: vero cardine della loro arte è un atteggiamento analitico
nei confronti del linguaggio dell'arte2.
Ovviamente tale atteggiamento è possibile solo se si ha la completa
conoscenza e padronanza – sia tecnica che tematica – di quanto è stato detto prima
di quel momento: ed ecco perché un cinefilo attento come De Palma si accosta a
questo tipo di produzione artistica trapiantandone la metodologia: il risultato è
un'inversione gerarchica, in cui le motivazioni artistico-generiche prendono il
sopravvento su quelle realistico-composizionali3: nei film di De Palma lo stile, da
mero supporto linguistico dell'azione, diventa il vero protagonista dell'arte a
discapito, ad esempio, dell'intreccio o della caratterizzazione dei personaggi.
Claudio Bisoni è restìo ad applicare a De Palma l'etichetta di 'postmoderno',
mentre Marcello Walter Bruno4 ne fa il cardine della propria riflessione sul
citazionismo depalmiano. Si tratta, in massima parte, di mettersi d'accordo sull'uso
della terminologia: inizialmente il vocabolo fu impiegato in architettura per
designare pratiche eclettiche, antitetiche al funzionalismo; poi, con un valore
semantico esteso, si impose nel vocabolario della critica d'arte nel generale
significato di comportamento che tende al recupero dei valori del passato. In
quest'ultima accezione, a mio avviso, il termine può essere utilizzato anche per De
Palma: è un dato di fatto che non sia possibile apprezzare e comprendere a fondo
il suo cinema senza conoscere i maggiori lavori hitchcockiani, come sia
impossibile comprendere l'arte postmoderna senza conoscere le avanguardie
storiche.
Il passo successivo è chiedersi: perché proprio Hitchcock? De Palma lo trova
straordinariamente vicino al suo modo di concepire il cinema. Alcune delle istanze
1 D. RIOUT, L'arte del ventesimo secolo. Protagonisti, temi, correnti, Einaudi, Torino, 2002.
2 Cfr G. DORFLES e A. VETTESE, Storia dell'arte. Volume 4: Novecento ed oltre, Atlas, Bergamo, 2005.
3 Cfr C. BISONI, Brian de Palma, Le Mani, Genova 2002
4 Autore del saggio Brian De Hitchcock in “Segnocinema” n. 63 (settembre-ottobre 1993)
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del postmodernismo – così come si è deciso di definirlo – trovano già in
Hitchcock i loro prodromi: su tutte il rinvio, frequente in moltissimi film, ad una
lettura metalinguistica che non può non essere ripreso da chi fa arte nel secondo
dopoguerra.
Cinefilo accanito e sicuramente padrone dei mezzi tecnici (la sua formazione
come studente di fisica al Massachussets Institute of Technology è quella di uno
scienziato, non di un'artista1), De Palma vede in Hitchcock un maestro che, fin dai
suoi primi capolavori in tempi non sospetti, metteva in atto alcune delle quelle
istanze che il giovane Brian sapeva di poter far proprie. O, per dir meglio, è De
Palma che, nel delinearsi del suo stile, riprende ed amplifica tutto quello che, in
Hitchcock, poteva definirsi anticlassico.
Tentando di raggruppare e analizzare le numerosissime pratiche transtestuali
di De Palma nei confronti del modello hitchcockiano, è possibile individuare
quattro grandi categorie in cui l'accostamento tra i due registi diventa più
esplicito:
• l'adozione di un registro metalinguistico;
• lo sviluppo di temi tipici;
• il linguaggio della narrazione;
• la tecnica cinematografica.
Infine, esplorando un livello ignorato da Genette (che, nella redazione di
Palinsesti2 aveva di certo in mente il testo letterario, la cui produzione artistica è il
risultato del lavoro di una sola persona, non di una troupe) il prelievo, inteso da
Bruno3 come assunzione nel cast di persone che rimandano al mondo
hitchcockiano.
1 “Ho un ottimo retroterra scientifico [...] Mi sono rivolto alla fotografia e al cinema, campi in cui potevo
appoggiarmi ad una solida formazione tecnica [...] So tutto intorno a suono, ottiche e macchine da
presa” (R. NEPOTI, op. cit.)
2 Op. cit.
3 In op. cit.
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PARTE PRIMA – METACINEMA
L'unico compito dell'artista è quello di dibattere la natura dell'arte.
Joseph Kosuth1
Gli atteggiamenti costitutivi del postmoderno (la frammentazione,
l'indeterminatezza, la profonda sfiducia in tutti i linguaggi universali o
totalizzanti) si vengono a costituire sotto il segno di un atteggiamento
marcatamente iconoclasta, che provvede a distruggere le forme canoniche e i
modi di rappresentazione messi in atto storicamente dal cinema2. Uno dei primi
obiettivi della poetica postmoderna è impedire allo spettatore di immedesimarsi
completamente nella storia: ben vengano, perciò, tutti quegli espedienti che
permettono al pubblico di conservare un certo distacco, interpretando ed
elaborando quello che vede.
Già la maggior parte della filmografia di uno sperimentatore come Hitchcock
“è percorsa da costanti e coscienti acting out metalinguistici3” che hanno lo scopo
di raffreddare la finzione. Il regista moderno, dalla rivoluzione della Nouvelle
Vague in poi, affrancandosi definitivamente dagli stereotipi del cinema di genere,
cerca uno stile personale. Brian De Palma è figlio di entrambi i filoni: non solo i
suoi primissimi lavori sono ispirati ai registi francesi – e lui stesso a inizio carriera
ambisce a diventare “un Godard americano” – ma, come i suoi amici Spielberg e
Lucas (con modalità differenti), non si preoccupa di aumentare la distanza da
quello che racconta4. E trova il suo stile personale in una evidente transtestualità
che, non solo mette anch'essa in risalto la finzione, ma cita proprio un autore che
1 In D. RIOUT, op. cit.
2 Cfr G. CANOVA, L'alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Studi
Bompiani, Milano 2000
3 M. W. BRUNO, Brian de Hitchcock, cit.
4 Il concetto di distanza è quello utilizzato da Genette in Figure III. Discorso del racconto, Giulio
Einaudi Editore, Torino 1976. Genette nota che il primo ad affrontare il problema della distanza è stato
Platone, che nel III libro della Repubblica opponeva il racconto puro (quando il poeta parla a proprio
nome) alla mimesi, finzione in senso proprio.
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faceva del metalinguismo un punto forte della sua poetica. E, se l'effetto di
straniamento in Hitchcock era evidente, ma tenuto sotto controllo1, in De Palma
esso si dispiega alla massima potenza, creando svariati livelli di lettura di uno
stesso film o di una stessa scena, a seconda del grado di cultura cinematografica
dello spettatore.
Dunque già Hitchcock, in tempi non sospetti, si divertiva a fare del
metacinema sottolineando la natura fantasmatica dell'immagine: “certi film sono
pezzi di vita, i miei sono pezzi di torta2”. Molti dei suoi espedienti sono stati
ripresi dallo stesso De Palma, oltre che da chiunque voglia esplicitare la lettura
metalinguistica del suo film3, e riguardano sia l'aspetto scenografico sia quello
riguardante i personaggi.
1.1 Metacinema nella scenografia
1.1.1. Set nel set
L'inserimento di un set nel set, ovvero l'ambientazione di parte della storia in
un cinema o in un teatro, caratterizza una parte importante della filmografia
hitchcockiana. Il regista inglese ambienta spesso in un teatro proprio la scena
decisiva, al culmine dell'effetto suspense: i sette lunghissimi minuti del tentato
assassinio alla Royal Albert Hall nel secondo The man who knew too much, la
fuga dal teatro in The torn curtain. Nella scena al Radio City Music Hall, in
Saboteur, il conflitto a fuoco avviene contemporaneamente ad una sparatoria
1 Lo stesso Hitchcock cercava sempre di evitare di fare vedere allo spettatore quando la macchina da
presa faceva miracoli. Se il pubblico se ne fosse accorto, ovviamente l'effetto di straniamento sarebbe
stato maggiore: “la tecnica è solo un mezzo e non un fine e il pubblico non deve mai essere cosciente
che la macchina da presa, il regista o il direttore della fotografia stiano compiendo miracoli. Tutto deve
scorrere in modo naturale” (S. GOTTLIEB (a cura di), Hitchcock secondo Hitchcock. Idee e confessioni
del maestro del brivido. Baldini Castoldi Dalai editore, Milano, 1996).
2 N. BRUZZONE (e altri), I film di Alfred Hitchcock, Gremese Editore, Roma, 1982.
3 È il caso delle parodie, che esibiscono in chiave ironica gli elementi strutturali del modello. Un cinema
come quello di Hitchcock, intrinsecamente autoironico e che comprende da sé l'artificiosità di molti
elementi portati in scena, male si presta ad una parodia esplicita (come quella tentata da Mel Brooks in
High anxiety, che cita ironicamente quasi tutta la filmografia hitchcockiana). Da questo punto di vista,
appare perciò maggiormente riuscita l'operazione “parodia implicita” del cinema di De Palma (cfr C.
BISONI, op. cit.)
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proiettata nel cinema.
Da una parte c'è la volontà di ambientare alcune scene dei film in un set,
dall'altra ci sono i quattordici film1 tratti da opere già messe in scena su un
palcoscenico. Aldo Viganò, che approfondisce i legami fra il teatro e il cinema
nella produzione hitchcockiana, nota come il regista inglese non abbia alcun
“complesso di inferiorità” nei confronti del teatro, e decida di assumere come
parte integrante del discorso la teatralità: ed è proprio esibendola che il suo
cinema cessa di esserne subalterno.
Portare l'azione dentro un ambiente culturalmente simbolico quale è il teatro
ha la funzione di evidenziare la valenza metaforica del racconto2. Lo stesso De
Palma utilizza, per lo stesso motivo, luoghi deputati allo spettacolo (la sala da
ballo in Carrie, il palazzetto dello sport di Snake eyes), set cinematografici (Body
double) teatrali, come in Phantom of the Paradise. In quest'ultimo caso
l'esibizione del luogo teatrale, più che una valenza metacinematografica, rinvia ad
un altro universo artistico, quello musicale. Secondo Nepoti3, infatti, “il film
articola in forme travestite l'intera evoluzione della rock music”, già a partire dalle
espressioni arcaiche della scena d'apertura (i Juicy Fruits rinviano al brano Tutti
frutti di Little Richards, uno degli iniziatori del rock'n'roll negli anni Cinquanta)
fino alle citazioni criptate di Chuck Berry, Rolling Stones, Beach Boys, Kiss,
Alice Cooper – di cui Beef, uno dei personaggi, è evidente imitazione).
Il falso incipit di Mission: impossible rinvia ad un significato ancora ulteriore:
secondo Bisoni4 rappresenta “un omaggio e al contempo un congedo”
dall'omonima serie tv, che riscosse un grande successo tra il 1967 e il 1973.
1 Da Downhill (1927, tratto dalla commedia omonima di David Lestrange) a Dial M for murder (1954,
da una pièce di Frederick Knott), passando per i celebri The secret agent (1936), Rope (1948), Under
Capricorn (1949), I confess (1952). Il rifarsi spesso a opere teatrali o a romanzi (e quest'ultimo è il
caso, tra gli altri, di The birds e di Rebecca, entrambi tratti dai romanzi di Daphne Du Maurier) è un
altro aspetto che evidenzia la finzione, anche se Hitchcock diceva di leggere il testo di partenza solo
una volta per carpirne l'idea generale. Anche De Palma si presta alla stessa operazione: a parte il
remake di Scarface (dall'omonimo film di Howard Hawks del 1932), nella sua filmografia si trovano
adattamenti di romanzi anche molto noti (Carrie di Stephen King, ma anche The Fury, Casualties of
war, The bonfire of the vanities, Carlito's way, Black Dahlia), mentre The Untouchables e Mission:
impossible sono ispirati alle omonimie serie televisive.
2 Cfr A. VIGANÒ, Fantasmi teatrali per un maestro del cinema, ovvero La suggestione del palcoscenico
nell'Hitchcock americano, in D. D'Alto, R. Lasagna e S. Zumbo (a cura di), La congiura degli
hitchcockiani, Edizioni Falsopiano, Alessandria, 2004.
3 Cfr R. NEPOTI, op. cit.
4 In op. cit.
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