2
“mitizza”, li rincorre, li imita, li “adotta”. Gli spettatori da sempre si appassionano alle
vicende pubbliche e private dei loro beniamini, perché da sempre i media hanno
contribuito a promuovere e diffondere l’immagine dei divi.
L’ultima parte di questo lavoro è per tale motivo dedicata proprio alle modalità di
diffusione e fruizione delle immagini divistiche, in particolare attraverso il rotocalco,
l’antecedente delle nostre attuali riviste scandalistiche. Questo tipo di pubblicazioni ha
avuto infatti il merito di dare ampio spazio ai divi, in particolare attraverso interessanti
forme di novellizzazione, le quali, insieme al resto del complesso apparato
promozionale, hanno indubbiamente contribuito alla diffusione e alla fruizione del
divismo, rafforzando l’immagine cinematografica e pubblica dei divi, rinsaldando nel
tempo il loro legame con gli spettatori.
3
CAPITOLO PRIMO
Il divismo: l’attore, il personaggio, il tipo.
1.1 Attore teatrale e cinematografico.
In una nota rivista di cinema del 1938, “Bianco & Nero”, Luigi Chiarini espone le
differenze tra l’attore di teatro e quello cinematografico, evidenziando che sebbene
l’attore sia in entrambi i casi l’interprete di un personaggio, è la tecnica interpretativa
adoperata a renderli notevolmente diversi. Secondo Chiarini, infatti, l’attore di teatro
interpreta un testo poetico ed è a questo che deve adeguare i suoi movimenti,
l’intonazione, l’espressività; il suo compito è incarnare l’essenza di un dato testo,
facendolo rinascere. L’attore cinematografico, che “non ha a sua disposizione un’opera
d’arte conchiusa, e quindi un personaggio perfettamente definito da interpretare”
1
,
deve invece far vivere una sceneggiatura, che è solo un’indicazione circa la natura del
personaggio, non una sua netta definizione. Usando le parole di Chiarini sosterremmo
allora che “l’attore cinematografico interviene in una fase che è ancora di creazione e
non di interpretazione; egli […] dovrà contribuire a creare il personaggio.[…]Egli non
è soltanto un interprete ma un creatore del film col regista”
2
. Per Chiarini la
conclusione è in sostanza la seguente: che un lavoro teatrale resta coerente e coeso
anche se interpretato da attori diversi, mentre un film cambia radicalmente se recitato da
altri interpreti; non si tratta di maggiore bravura, ma solo di una libertà diversa, più
ampia, che l’attore cinematografico ha rispetto a quello teatrale, libertà che gli permette
di creare oltre che interpretare. Tale affermazione sembra dunque sminuire
l’importanza dell’interprete per la buona riuscita dell’opera teatrale, cosa che si evince
1
L. Chiarini, U. Barbaro, “L’attore: saggio di antologia critica”, in Bianco e nero n. 16, 1938, Roma, p. 15.
2
Ibidem.
4
chiaramente dalle parole di Chiarini, quando egli afferma che “se l’attore teatrale può
anche essere mediocre, perché c’è sempre l’opera teatrale compiuta che sarà
apprezzata dagli spettatori, l’attore cinematografico non lo può essere mai, perché la
sua mediocrità significherà il fallimento del film. Infatti, egli non compromette
l’interpretazione di un’opera d’arte ma l’opera d’arte stessa”
3
. Quello a cui Chiarini
si riferisce è in particolare un modo diverso di lavorare sul personaggio, che distingue i
due tipi di attore: quello teatrale, legato al testo, deve farlo rivivere per due o tre ore,
interpretarlo senza mettervi troppo di sé e, aiutandosi con l’impeto e la suggestione,
contribuire a renderlo immortale. L’attore cinematografico invece è obbligato ad avere
il controllo continuo della situazione e del personaggio da interpretare, del quale deve
aver creato un’idea nella sua fantasia, e “esserne talmente padrone da poter
rappresentare, staccati e senza una logica successione, i momenti diversi del
personaggio stesso”
4
. Tale teoria è forse contestabile, ma indubbiamente utile: ci
fornisce infatti i primi elementi necessari per comprendere i motivi che predispongono
l’attore cinematografico, e non quello teatrale, a raggiungere lo statuto di divo, primo
fra tutti il legame particolare e intimo che egli crea con il proprio personaggio, che vive
grazie all’interpretazione della star e fa vivere la star di sé.
Edgar Morin, autore nel 1957 del primo studio metodologico sul divismo, ha invece
idee molto diverse rispetto a Chiarini su tale argomento: egli infatti evidenzia come il
cinema, sin dalla sua nascita, abbia preso in prestito dal teatro molti procedimenti
dell’espressione scenica e, prima fra tutte, la“teatralità dell’attore, il quale, privato
della parola, si esprimeva nel linguaggio del mimo”
5
. La mimica dell’interprete era
fondamentale affinché il pubblico riuscisse a cogliere non solo il senso della storia ma
3
Ivi, p. 17.
4
Ibidem.
5
E. Morin, Les stars, Seuil, Paris, 1957 [tr. it. I divi, Garzanti, Milano, 1977, p. 143]
5
anche le emozioni che provavano i personaggi e a condividerle con loro. Con
l’intensificarsi, intorno al 1910, dell’uso del primo piano, il gesto perse la forte valenza
di unico mezzo comunicativo tra attore e pubblico, e lasciò il posto all’espressività del
volto, ai movimenti impercettibili ma efficaci che questo riusciva a realizzare,
contribuendo a “semplificare” in qualche modo il lavoro dell’attore.
Secondo Richard Dyer è proprio l’uso del primo piano ad aver contribuito alla
nascita del divismo, poiché non solo porta alla scoperta del volto umano in generale, ma
“perché in grado di catturare l’unicità della persona di un attore”
6
. Per Dyer, esiste
qualcosa di intrinseco al mezzo cinematografico che crea la star: la maggiore intimità
della macchina da presa rispetto al palcoscenico, sebbene qui il pubblico si trovi
fisicamente in presenza dell’attore. Mentre in teatro si dà più importanza al ruolo che si
assume, al cinema dunque tutto ruota intorno all’attore, il quale tende a mettere in
risalto sé stesso oltre al personaggio che interpreta.
A tal proposito Morin sostiene invece una tesi diversa, poiché ritiene che al cinema vi
sia una sorta di atrofizzazione della recitazione. Mentre infatti l’attore teatrale è solo
sulla scena e deve gestirla, l’attore cinematografico è diretto, guidato durante le riprese
e, di fatto, agevolato. Tutto questo automatizza il lavoro dell’interprete, lo atrofizza:
non è più l’attore ad illuminare la situazione ma la situazione a dargli risalto.
7
Per
Morin è il cinema che crea l’attore, e ce ne mostra l’inutilità ogni volta che un oggetto,
antropomorfizzato, sostituisce efficacemente la sua presenza, ogni volta che è usata una
6
Cfr. R. Dyer, Stars, British Film Institute, London, 1979 [tr. it. Star, Kaplan, Torino, 2003, pp. 22-23].
7
“Il cinema non si limita a deteatralizzare la recitazione: di fatto l’atrofizza. Mentre l’attore teatrale anche
se la sua interpretazione è stata predeterminata durante le prove, in scena è praticamente abbandonato
a se stesso, quello cinematografico viene continuamente diretto durante la ripresa di pose frammentarie
e inconseguenti[…]. L’attore non ha bisogno di esprimere tutto; al limite sono le cose, l’azione, il film
stesso a recitare per lui”. E. Morin, I divi, cit., pp. 144-148.
6
controfigura o che si procede al doppiaggio, ogni volta cioè che l’attore si decompone,
dissolvendo la propria, un tempo sovrana, individualità.
Nulla della natura del cinema quindi, per Morin, esige in qualche modo il divo, tanto
più che persino dell’attore e della sua interpretazione si può fare a meno, dando spazio
sulla scena ad oggetti inanimati o rendendo protagonisti attori improvvisati, presi dalla
strada. Del resto anche Francesco Pitassio, in tempi più recenti, ci ricorda che l’uomo
non è presupposto dal film: la sua presenza all’interno della trama non è necessaria alla
costruzione della sintassi cinematografica, è solo una convenzione mutuata dalla
letteratura cosiddetta “antropomorfa”
8
. Il cinema ha inventato dunque il divo anche se
esso non era necessario, “perché il divo, pur essendo un fenomeno cinematografico,
non ha nulla di specificamente cinematografico”
9
.
1.2 Tra l’attore e il personaggio.
Per comprendere la nascita del divo è necessario passare per il concetto di
personaggio. Per personaggio si intende, citando Richard Dyer, “una rappresentazione
costruita di persone”
10
; i personaggi sono esseri di finzione, umani e non, che
sostengono la storia, la interpretano. Morin ad esempio evidenzia come attore e
personaggio siano due entità distinte che si determinano a vicenda: l’attore trascende il
personaggio, poiché vi si incarna, e il personaggio stesso esiste perché interpretato da
un attore. Nel già citato numero di “Bianco & Nero” Luigi Chiarini dichiara con forza
la necessità di una differenza tra attore e personaggio, in quanto“cattivi attori sono
quelli che si immedesimano nel personaggio che rappresentano[…] e cioè fanno
scomparire il personaggio, che è creazione artistica, riducendolo alla loro personalità,
8
Cfr. F. Pitassio, Attore divo, Il Castoro, Milano, 2003, p. 31.
9
E. Morin, I divi, cit. p. 8.
10
R. Dyer, Stars, cit. p. 170.
7
ai loro sentimenti e facendolo piangere o ridere, godere o soffrire con essi”
11
. L’idea
centrale è ben chiara: l’attore non deve emozionarsi davvero quando recita, non deve
provare anch’egli le stesse emozioni del personaggio: così facendo“finirebbe con
l’esprimere (che è cosa tutta diversa dal rappresentare) la propria individuale
psicologia e, quindi, cesserebbe la sua interpretazione e la sua creazione, perché il
personaggio artistico si ridurrebbe alla sua umana dimensione”
12
. L’attore è chiamato
a rappresentare la realtà, a ricrearla su un piano artistico mediante l’interpretazione; si
tratta di “sentire il personaggio e non i sentimenti di questi”
13
, di “essere” il proprio
personaggio rimanendo sempre se stessi. Del resto anche Morin, affermando che
“attore e personaggio si determinano a vicenda”
14
, ci ricorda lo stretto rapporto che
esiste tra queste due entità e come, in parte, questa relazione concorra nel creare il divo.
Esiste, tra attore e personaggio, una reciproca interpenetrazione che porta l’uno a
dipendere dall’altro; ma è bene sottolineare che non tutti gli attori di un film diventano
divi. Secondo Morin infatti, solo l’attore che interpreta l’eroe può essere divo. Tutti gli
altri personaggi non creano divi perché tra loro e gli attori che li interpretano non v’è
osmosi ma solo un totale assorbimento dei secondi da parte dei primi. L’attore non deve
perciò inghiottire il suo personaggio né deve accadere il contrario; terminate le riprese
queste due entità speculari si dividono e dal loro connubio nasce il divo, che li
racchiude entrambi.
11
L. Chiarini, U. Barbaro, “L’attore: saggio di antologia critica”, cit., p. 10.
12
Ivi, p. 11.
13
Ivi, p. 12.
14
E. Morin, I divi, cit., p. 37.