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I. PRESENZE/ASSENZE: il digitale che si
auto-celebra e insieme si nasconde
Dal momento in cui la tecnologia digitale incontra il cinema,
prende inizio un processo “rivoluzionario” e iniziano a circolare
alcune parole chiave, con l’intento, appunto, di comprendere e di
inserirsi all’interno di tale rivoluzione: democratizzazione, velocità e
controllo, diventano delle “costanti” per spiegare la clamorosa
proliferazione di cortometraggi e film sperimentali. Un
cambiamento che riguarda un po’ tutti e tutto: dall’ideazione alle
riprese, dal montaggio alla distribuzione, fino alla fruizione
spettatoriale.
Prima di andare a vedere nello specifico le tecniche digitali e
l’influenza che hanno avuto sull’immagine cinematografica, è bene
fare una differenziazione: quando si parla di processi di produzione
più leggeri e veloci, di ridimensionamento del set e
dell’illuminazione, dell’ormai famosa e abusata leggerezza della
videocamera, stiamo sì parlando di cinema digitale, ma non di
quello hollywoodiano, qui preso in considerazione. C’è una netta
distinzione infatti tra digitale leggero, con cui indichiamo il cinema
indipendente informatico, alcuni documentari e produzioni low
budget, e il digitale pesante, caratteristico del mainstream
americano. È bene sottolineare che per eguagliare la qualità del
cinema analogico, del film in pellicola, la tecnologia digitale deve
essere in alta definizione HD e di conseguenza il noleggio di certe
macchine è ovviamente più dispendioso rispetto a quello di una
2
mini-DV
1
. I costi, poi, cresceranno inevitabilmente se il film in
questione dovrà passare in sala, in quanto i sistemi di proiezione
digitale non hanno ancora un vasto utilizzo, e si richiede quindi il
riversamento su bobina. È vero che grazie al digitale possono
essere risparmiati i costi per l’allestimento scenografico, ma le ore
di lavoro, che si ripresentano copiose nella fase di post-produzione,
di fotoritocco, di intervento digitale e realizzazioni virtuali, processi
non propriamente economici, tendono a far lievitare il costo finale.
Per fare un esempio recente, Watchman (2009) di Zack Snyder,
film che fa ampio uso di tecnologia digitale, è costato tra i 120-125
milioni di dollari. Possiamo affermare che, sicuramente per quanto
riguarda il piano economico, attraverso la “rivoluzione digitale” si
accentua lo scarto tra il film sperimentale e la “grande” produzione.
La plurisponsorizzata “democratizzazione” è da relazionare, quindi,
al film indipendente e al fatto che chiunque, dotato di camera
digitale, può realizzare il suo film.
Una figura classica del cinema che con il digitale acquista
sempre più importanza, tanto da essere indispensabile, soprattutto
nelle produzioni ricche di tecnologia informatica, è lo storyboard.
Questo strumento di controllo, che prima permetteva la pre-
visualizzazione del film su carta, oggi la garantisce sul PC e è di
un’importanza rilevante, in quanto determina, prima della
realizzazione concreta, che tutto sia ponderato nei minimi dettagli.
Facciamo un esempio: se viene realizzato un film che prevede un
personaggio in CGI (computer grafica), tecnica molto costosa, lo
storyboard consentirà la valutazione dettagliata dei suoi
1
È il formato di video digitale diventato lo standard per la produzione video
amatoriale e semiprofessionale.
3
movimenti, le direzioni, il tempo di scena di quel personaggio,
nonché la durata stessa di ogni suo movimento. “Nonostante
sembri liberarsi da una serie di pesantezze strutturali, il DC
2
irrigidisce altri step della catena produttiva con un aumento dei
costi vertiginoso”
3
. Altro grande mutamento, derivato dall’avvento
del digitale, riguarda la costruzione di set e scenografie; oggi grazie
al blue screen tali processi vengono alleggeriti e il profilmico perde
molta della sua vecchia importanza. Anche i metodi di illuminazione
tradizionale, con attrezzature troppo voluminose e pesanti,
vengono sorpassati dalla possibilità di manipolare direttamente il
fotogramma in fase di post-produzione: si eliminano errori, si
ritocca la luce, il contrasto e i colori. Così facendo l’immagine
digitale produce un “realismo” talmente superiore a quella
analogica che appare finto e irreale; lo scopo da raggiungere dovrà
pertanto essere la verosimiglianza. Il problema che risalta dal
confronto tra l’immagine sintetica e quella analogica e che investe
lo spettatore, è un problema di natura culturale, di abitudine
percettiva. La riproduzione cinematografica convenzionale ha
fortemente condizionato l’esperienza filmica dello spettatore e i
suoi modi di visualizzazione, tanto che l’immagine digitale deve
essere “trattata” in modo artificiale per avvicinarsi il più possibile
alle “aspettative analogiche” del pubblico. A riguardo Manovich
afferma:
Le immagini sintetiche generate al computer non sono
una rappresentazione di serie B della nostra realtà, ma
2
Con la sigla DC intendiamo il cinema digitale.
3
Valeria De Rubeis, Vedere digitale. Dal processo produttivo all’estetica del
film: introduzione al D-cinema, Dino Audino, Roma, 2005, p. 21.
4
una rappresentazione realistica di una realtà diversa […]
L’immagine computerizzata si inchina davanti
all’immagine cinematografica, la sua perfezione viene
ritoccata con tutti i mezzi possibili e mascherata anche dal
contenuto del film. […] Le immagini generate al computer
in origine plastiche e nitide, non sfuocate, né sgranate,
vengono impoverite: la risoluzione viene ridotta, i contorni
attenuati, la profondità di campo e la grana aggiunti
artificialmente
4
.
L’avvento del digitale ha modificato un’altra tecnica
fondamentale del cinema, il montaggio; la sua funzione principale
è, generalmente, quella di strutturare il girato in una progressione
narrativa che faciliti lo spettatore nella comprensione del film.
Tecnicamente, nel cinema analogico, si lavora direttamente sulla
pellicola, tagliando e incollando, seguendo criteri di scelta e
associazione che determinano il prodotto finale. Oggi, grazie al
trasferimento del segnale informatico, è possibile lavorare con il PC
e con software di montaggio che rendono il processo molto più
pratico. Con ciò non voglio avanzare l’idea di un montaggio più
veloce e di tempi che si abbassano vertiginosamente, poiché non è
vero. Diversamente, possiamo dire che, se il tempo da impiegare
nel montaggio può rimanere lo stesso, ad aumentare sono le
possibilità qualitative; se il copia e incolla su pellicola richiedeva
un’ora di tempo, con il digitale è questioni di minuti. Questo
fondamentale cambiamento, rispetto al passato, determina un
impiego del tempo rimanente dedito alla sperimentazione di altre
soluzioni; allo stesso tempo, per mezzo di questi software dotati di
timeline o “pista di lavoro”, il processo è facilitato dall’accesso
4
Lev Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Olivares, Milano, 2002, pp.
255-257.
5
random. L’operatore non si trova più nella situazione di andare a
ricercare il punto esatto su cui intervenire rivedendo metri di
pellicola, risolve la questione con un “clic” del suo mouse,
osservando immagini e ascoltando suoni direttamente sullo
schermo del PC.
Nel cinema analogico, allestire il set, la scenografia e le luci,
comportava naturalmente molte ore di lavoro; nel cinema digitale,
le stesse ore di lavoro, vengono impiegate nel processo di post-
produzione, che implica il lavoro di montaggio, di fotoritocco e
quello sugli effetti visuali. Attualmente, per quanto riguarda
quest’ultimi, ci troviamo in una fase che predilige un procedimento
che tende a ibridare immagini “riprese dal vero” con elementi
virtuali: il Digital Intermediate che raggiunge “un risultato finale in
cui non sono più distinguibili i livelli ontologicamente differenti
dell’immagine”
5
. Nel cinema analogico i visual effects e gli effetti
speciali tendevano ad essere celati; nel cinema digitale la
tecnologia informatica occulta così bene, senza invadenze, che, per
paradosso, esplicita e rende evidenti i “trucchi”, spesso per un
eccesso di iperrealismo. Questa tendenza esibizionistica, questa
voglia di mostrare, si accompagna al paradosso insito
nell’iperrealismo di certi effetti visuali e determina la fruizione
stessa del film. Non è sbagliato affermare che il pubblico si reca in
sala anche per “godere” dell’evoluzione tecnologica, per osservare
il personaggio virtuale piuttosto che la scenografia digitale. Tale
voglia spettatoriale, che nasce dalla curiosità come dal feticismo
per certi prodigi tecnici, viene ampliata e soddisfatta tramite
l’ingresso del DVD nel mercato cinematografico.
5
Valeria De Rubeis, Vedere digitale, cit. , p. 84.
6
Negli extra del DVD il film si smaschera totalmente, non è
più impegnato a nascondere gli effetti speciali e visuali e
si mostra nel suo farsi. Si fa specchio di se stesso.
Attraverso tale dinamica il cinema si autocelebra e si
spoglia di tutte quelle illusioni che sono nascoste per
esigenze di credibilità, oggi rese pubbliche per mostrare
l’efficienza della tecnica
6
.
In questo atto di smascheramento si spiegano al pubblico i
programmi di manipolazione delle immagini, il procedimento della
creazione, il processo produttivo, instaurando allo stesso tempo un
rapporto più “intimo” con lo spettatore.
Un’altra grande rivoluzione apportata dal digitale, non solo in
relazione ai cambiamenti dei macchinari, ma che coinvolge il
pubblico e gli apparati di fruizione, è quella del sonoro. Conosciuto
dal grande pubblico nel 1992 con Batman Returns, il Dolby Digital è
stato il primo sistema digitale ad imporsi a livello internazionale
nelle sale cinematografiche. Dai suoi primi utilizzi questo sistema è
diventato lo standard di riferimento tra le major americane, che, in
un clima di spietata concorrenza, hanno realizzato in pochi anni
altri sistemi di riproduzione sonora, migliorando e aggiornando di
volta in volta i propri prodotti. A tal proposito, l’unica precisazione
da fare in questo contesto riguarda le analoghe modalità di
fruizione e le comuni caratteristiche tecniche, nonostante siano
diverse la progettazione e i macchinari di decodifica. A conti fatti,
tutti i vari sistemi digitali di riproduzione sonora permettono una
nitida divisione stereofonica, soddisfano tutta la gamma delle
frequenze audio, possiedono un’ottima risposta dinamica e non
peccano di rumori di fondo e di limiti di distorsione.
6
Ivi, pp. 31-32.
7
Restringendo l’analisi al Dolby Digital dobbiamo indicare che la
traccia audio digitale è collocata sulla pellicola, in un segmento
piuttosto piccolo del fotogramma; la traccia è formata da “pacchetti
di dati” posti tra le perforazioni della pellicola stessa.
Il Dolby Digital dispone di 5.1 canali (vale a dire sei
canali, laddove il numero uno dopo il punto indica la
presenza di un canale per le basse frequenze). I cinque
canali sono così suddivisi: centrale, sinistro, destro e
surround sinistro/destro. Il canale per le basse frequenze
è destinato al subwoofer, generalmente collocato in
prossimità dello schermo
7
.
Riguardo all’espansione delle frequenze sonore, a cui è
connessa la nuova dimensione che sembra accompagnare i nuovi
sistemi digitali di riproduzione sonora, quella tridimensionalità che
avvolge lo spettatore, afferma Di Donato: “nonostante la varietà
dei diversi sistemi acustici […] le procedure di spazializzazione sono
comunque riconducibili ad un modello minimo (il 5.1 degli home
theatre) in grado di assicurare una piena tridimensionalità del
suono”
8
; questo modello permette di trasferire l’evento sonoro in
qualsiasi zona dell’ambiente che include lo spettatore,
determinando così l’immersione acustica che più avanti
paragoneremo all’esperienza della Realtà Virtuale.
7
Mauro Di Donato, La spazializzazione acustica nel cinema contemporaneo.
Tecnica, linguaggio, modelli di analisi, Onyx Edizioni, Roma, 2006, p. 39.
8
Ivi, p. 46.
8
1.1 Evoluzione storica della tecnica: breve
introduzione al mainstream digitale
Inventore dei primi semplici ed elementari effetti visivi, per lo
più realizzati grazie a tecniche di montaggio oggi “primitive”, è il
regista francese Georges Méliès (1861-1938) che riuscì nell’effetto
della sparizione assemblando due inquadrature di uno stesso
ambiente, la prima presentava il soggetto mentre la seconda solo
lo spazio vuoto. Egli riuscì anche nella simulazione dello
sdoppiamento di una persona, sovrapponendo più pellicole, ed
alimentò, così, la fortuna del cinema nel primo Novecento. Andando
di pari passo con gli sviluppi delle tecniche di ripresa, anche gli
effetti si sono pian piano migliorati, come dimostra il film King
Kong del 1933, animato grazie allo stop motion o “passo a uno”.
Allo stesso tempo iniziavano ad essere utilizzate “le
miniature”, riproduzioni in scala ridotta di paesaggi oppure oggetti
di grandi dimensioni: esempi di tali riproduzioni minuziose si
trovano nel film 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick del
1966. Negli anni settanta si inizia a costruire laboriosi sistemi
meccanici ed elettronici, gli “animatroni”, che potevano essere
comandati a distanza, ma i cui movimenti erano sempre limitati.
Foderati con molteplici materiali e successivamente truccati, furono
impiegati per gli effetti speciali di film come Alien (1979) di Ridley
Scott o E.T (1982) di Steven Spielberg e anch’essi si fecero poi
sempre più ricercati grazie allo sviluppo e all’integrazione di
tecniche come la robotica, esempi di quest’ultimi si trovano in
RoboCop (1987) di Paul Verhoeven e Terminator (1984) di James
Cameron. Per quanto riguarda gli effetti speciali digitali applicati al
cinema la base da cui iniziare il discorso è Guerre Stellari (1977) di
9
George Lucas. Per mezzo del Dykstraflex e del blue-screen, che
“consente di inserire sullo stesso fotogramma immagini girate in
momenti diversi”
9
, Lucas integra e gestisce in modo encomiabile
moltissimi elementi nella stessa scena. Per la realizzazione del suo
progetto il regista arriva a creare la Industrial Light + Magic che
ad oggi è una delle più famose ed importanti aziende del campo
degli effetti speciali. Con l’evoluzione di hardware e software in
grado di elaborare numericamente l’immagine si diffonde l’uso degli
effetti digitali. Con Ritorno al futuro (1985) di Robert Zemeckis, per
fare un esempio, si cancellano dalla fotografia di famiglia McFly i
vari personaggi tramite il digitale, che assume un ruolo
determinante anche nella messa in scena di un altro capolavoro
firmato Zemeckis, Chi ha incastrato Roger Rabbit? (1988). Un anno
più tardi il regista James Cameron mette in scena il primo
personaggio digitale, si tratta di una creatura acquatica nel film The
Abyss. Da ricordare sicuramente è anche il T-1000 di Terminator II
– Il giorno del giudizio (1991) sempre di Cameron, un cyborg
mutante capace di replicare qualsiasi forma organica con cui viene
a contatto; il personaggio viene creato grazie al morphing 3D in
combinazione con la motion capture
10
; l’immagine cinematografica
9
Valeria De Rubeis, Vedere digitale, cit. , p. 13.
10
Il dispositivo utilizzato per l'acquisizione del movimento è un sistema
stereofotogrammetrico, ovvero un sistema di più telecamere che sono anche
emettitrici di luce (che può essere rossa, infrarossa o near-infrared) e di
marcatori (piccole sfere) di materiale riflettente. In ambito di spettacolo è stata
usata questa tecnica in molti film per avere dei movimenti realistici. Gollum (il
mostriciattolo de Il Signore degli Anelli), per esempio, è stato creato attraverso il
motion capture. L'attore, in questo caso Andy Serkis, indossa un vestito
ricoperto da alcuni marcatori. I computer creano un'immagine stilizzata
dell'attore e riproducono digitalmente i suoi movimenti, che vengono "catturati"
attraverso qualche decina di telecamere attorno a lui, le quali mandano le
coordinate dei marcatori ai computer creando così un’ immagine virtuale che
riproduce i movimenti dell'attore.
10
viene digitalizzata ad alto livello qualitativo. Nel 1993 con Jurassic
Park di Steven Spielberg diventa prassi comune la creazione di
immagini attendibili sintetizzate “fotograficamente”, mentre grazie
al software realizzato dalla Pixar Animation Studios, il RenderMan,
si fa coesistere l’elemento digitale con gli attori in carne ed ossa del
film, stiamo parlando, ad esempio, di The Mask di Chuck Russel.
Sempre la Pixar rivoluzionerà l’estetica del digitale con il gioiello
Toy Story – Il mondo dei giocattoli di John Lasseter (1995), primo
lungometraggio del tutto animato digitalmente. Il 1997 è un anno
particolarmente proficuo per il digitale e tra i molti titoli di rilievo il
più importante è molto probabilmente Titanic di James Cameron,
dove la simulazione della rottura della nave è completamente
digitale, come virtuali sono molte comparse, praticamente tutte
quelle figure che vengono fatte scivolare sul ponte per poi essere
sbalzate in mare, il tutto perfettamente integrato con le riprese e
gli elementi reali. Un film che fa ampio uso delle tecnologie digitali
è Matrix (1999) dei fratelli Wachowski, evidentemente interessati
all’innovazione e allo sviluppo dei nuovi mezzi tecnici. Questo “cult”
si avvicina molto al film d’animazione e sono eloquenti i suoi
riferimenti ai videogiochi: bullet-time
11
, morphing
12
, esplosioni, voli
e acrobazie sembrano confermarlo.
Per Matrix sono state digitalizzate delle fotografie per
creare set virtuali visti in prospettive tridimensionali che
11
Il bullet time (letteralmente "tempo di/della pallottola") è un effetto
speciale e tecnica cinematografica che consente di vedere ogni momento della
scena in slow motion (ralenti) mentre l'inquadratura sembra girare attorno alla
scena alla velocità normale.
12
Il morphing consiste nella trasformazione fluida, graduale e senza
soluzione di continuità tra due immagini di forma diversa, che possono essere
oggetti, persone, volti, paesaggi.