INTRODUZIONE
Chi non sa popolare la propria solitudine nemmeno
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sa esser solo in mezzo alla folla affaccendata
- Charles Baudelaire -
Ognuno di noi, tante e tante volte nel corso della vita, ha sperimentato che cosa
significhi essere solo. Ma quanti sanno cogliere l’importanza di questo sentirsi?
Che spessore esistenziale ha questo sentirsi? Ha la consistenza del vuoto, del
silenzio, oppure esistono, altre forme di solitudine? È possibile il dialogo nella
dimensione della solitudine?
Questo lavoro è nato a seguito della lettura del saggio di Hannah Arendt Alcune
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questioni di Filosofia morale, nel quale, ricercando un fondamento per la morale, la
Arendt sottolinea come sia indispensabile essere sempre in dialogo con se stessi.
Il termine diálogos, racchiude in sé due dimensioni costitutive del filosofare:
quella dell’indagine teoretica che si impegna nell’analisi critica di linguaggi, idee,
conoscenze, e quella dell’apertura verso l’altro, della continua messa in discussione
del punto di vista di cui si costituisce il discorso filosofico. Due aspetti che non
possono essere separati.
Se quindi la Filosofia è essenzialmente dialogo, va considerato, primo fra tutti per
importanza, il dialogo con se stessi. Tanto importante quanto controverso.
Seguendo Hannah Arendt:
[…] Essere con se stessi e giudicare se stessi è qualcosa che concerne il pensiero, e ogni
processo di pensiero è un’attività in cui io parlo con me stesso di tutto quanto accade e
mi riguarda. Il modo d’esistere tipico di questo dialogo silenzioso tra me e me lo
chiamerò adesso solitudine. Ciò significa che la solitudine è qualcosa di diverso dal
semplice stare da soli, e soprattutto qualcosa di diverso dall’isolamento. La solitudine
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significa che, pur da solo, io sono in compagnia di qualcuno (vale a dire di me stesso).
1
C. Baudelaire, La malinconia di Parigi. Poemetti in prosa, trad. it. Piccola Casa Editrice Acquaviva,
Acquaviva delle fonti 2010, p. 97.
2
Contenuto nella raccolta di saggi curata da J. Kohn: H. Arendt, Responsabilità e giudizio, trad. it.
Einaudi, Torino 2004, pp. 41-126.
3
H. Arendt, Responsabilità e giudizio, trad. cit., pp. 83-84 (corsivo mio).
3
La parola “solitudine”, ad un livello descrittivo relativamente aspecifico, indica la
presenza di un soggetto separato dagli altri soggetti. Separazione che si declina
secondo due significati. Nel primo significato essa implica il puro e semplice esser
da soli, uno stato cui non corrisponde alcun sentimento (ciò che la lingua inglese
definisce con aloneness). Nel secondo la solitudine è un termine che comporta il
sentimento di separazione dagli altri, di isolamento. Ciò non significa tuttavia che il
sentimento abbia necessariamente il colore emotivo della malinconia, che pure è
quello che più frequentemente connota l’essere solo.
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Attraverso un’analisi ermeneutico-filologica, dalla parola “solitudine”, si
possono de-nucleare le problematiche (in particolare a carattere filosofico) a essa
connesse.
É possibile interpretare la solitudine come:
L’isolamento dagli altri o ricerca di una migliore comunicazione. Nel primo senso la
solitudine è la situazione del sapiente che, nella sua figura tradizionale, è perfettamente
autarchico e perciò isolato nella sua perfezione. Fuori da questo ideale, l’isolamento è
un fatto patologico: è l’impossibilità della comunicazione connessa a tutte le forme di
pazzia. In senso proprio, tuttavia, la solitudine, non è isolamento ma piuttosto la ricerca
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di diverse e superiori forme di comunicazione.
Forse questa definizione non è delle migliori, ma da essa, emerge comunque con
forza, l’ambivalenza o dualità di significato del termine solitudine.
Nelle parole citate di Abbagnano, oscilla tra saggezza e follia, tra la ricerca di una
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miglior forma di comunicazione e l’impossibilità a comunicare.
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Cfr. l’inglese loneliness, il latino solitudo, il francese solitude, il tedesco Einsamkeit.
5
Dal Dizionario di filosofia di N. Abbagnano, Terza Edizione aggiornata e ampliata da G. Fornero,
Utet Edizioni, Torino 2006, lemma “solitudine”, p. 1022 (corsivo mio).
6
Tale definizione rievoca, sul piano della psicopatologia, la complessa problematica dell’autismo.
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Il motto «conosci te stesso» sintesi dell’insegnamento di Socrate, è forse il fondamento di tutte le
filosofie, non solo quelle d’impronta introspettiva ed esistenzialista. Nell’ambito della storia della
filosofia occidentale si rilevacome l’autocoscienza sia stata il fondamento della riflessione di
numerosi pensatori, i quali hanno espresso l’importanza di approdare a se stessi prima di iniziare
l’indagine delle verità assolute. Il motto delfico conosci te stesso «ha assunto una posizione
d’esortazione morale di carattere strettamente filosofico soprattutto con Socrate – il cui messaggio
ruota per intero intorno a questo perno teoretico – e nell’ambito della cultura occidentale ha poi
avuto una “Wirkungsgeschichte”, ossia una “storia di effetti” di straordinaria portata». (Cfr. P.
Courcelle, Conosci te stesso. Da Socrate a san Bernardo, presentazione di G. Reale, trad. it. a cura di
F. Lippi, Vita e Pensiero, Milano 2001).
4
Al di là del caso patologico, legato a una impossibilità del soggetto, lo stato di
solitudine si lega inevitabilmente alla libertà, anzi, propriamente si può dire che sia
espressione di essa.
La solitudine, è soprattutto, uno stato di ricerca, uno strumento per conoscere se
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stessi.
E, ancor meglio, si può dire che tale ricerca è volta a trovare le migliori forme
espressive per comunicare noi stessi agli altri proprio perché questo modus
relazionale è imprescindibile per l’uomo.
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L’uomo, come direbbe Aristotele, può elevare se stesso nell’Amicizia con l’altro.
Primariamente, però, l’uomo deve essere amico di se stesso, di quell’altro che può
incontrare dentro di sé.
È ancora Hanna Arendt a dirci:
[…] Il problema in questo caso è capire che significhi dianoiesthai, il pensare. Socrate
lo definisce «un discorso che l’anima svolge tra sé e sé, riguardo a ciò che prende in
esame. […] Secondo me, questo suo [dell’anima] pensare non assomiglia a nient’altro
che a un dialogare (dianoiesthai) ponendo a se stesso domande e traendo da sé le
risposte, affermando e negando. E quando, nello stabilire una definizione, sia che vi
arrivi con lentezza, sia che la colga di slancio, l’anima raggiunga una conclusione
ormai costante e ormai non abbia più esitazioni, allora noi stabiliamo che quella sia la
sua opinione. Sicché io definisco l’avere opinioni un discorrere e l’opinione un discorso
pronunciato, non certo rivolto a un’altra persona né detto a voce alta, ma in silenzio,
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rivolto a sé stessi». Potete trovare la stessa definizione, con parole pressoché identiche,
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anche nel Sofista: il pensiero e il discorso pronunciato sono la stessa cosa – la sola
differenza è che il pensiero è un dialogo senza suoni dell’anima con se medesima – e
l’opinione è semplicemente la fine di questo dialogo. E che un malfattore non sia
l’interlocutore ideale per questo dialogo silenzioso con se stessi lo trovo abbastanza
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ovvio.
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Qui il termine di riferimento è Philia (da non dimenticare che philema, in greco, vuol dire bacio) e
indica non semplicemente una relazione di amicizia nel senso che noi comunemente diamo al termine,
ma, si intende una “penetrante intimità”, sebbene distinta dal quella designata dal termine “eros”.
9
Cfr. Platone, Teeteto, 189e-190a, trad. it. a cura di M. Valgimigli, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 137.
10
Platone, Sofista, 264a - 264b, trad. it. a cura di E. Maltese, Newton, Roma 1997, p. 615.
11
H. Arendt, Responsabilità e giudizio, trad. cit., p. 78 (corsivo mio).
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Il problema sembrerebbe concentrarsi, secondo le ultime parole della Arendt, nel
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riuscire a essere sinceri e onesti con se stessi.
Durante tutto il Novecento, con la Psicanalisi, si è messo in luce il più possibile,
l’immenso universo inconscio che è dentro di noi.
I più recenti studi sono invece attualmente incentrati sulla coscienza.
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Coscienza. Che si intende con questo termine? Una parola “sfuggente” e spesso
considerata “vaga” ma, al centro, ancor oggi, del dibattito filosofico.
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La coscienza può essere definita come dialogo con se stessi?
Il concetto di solitudine tocca quindi da vicino problemi fondamentali del
pensiero filosofico (e non solo), quali l’individuo, il ritorno a sé e la scoperta
dell’interiorità ed anche le questioni della genesi del sé, dell’amore di sé, del
narcisismo, il problema etico del perfezionamento individuale e, in generale, il
rapporto individuo-società.
Noi possiamo sentirci soli, unici e isolati ma in realtà, ontologicamente, dobbiamo
definirci sempre in relazione.
Ne deriva che la capacità del saper star soli (o per meglio dire in compagnia di se
stessi) non è spontaneamente di tutti ma deve essere sviluppata in quanto essenziale
per l’uomo, costitutiva della sua stessa essenza umana.
Per argomentare tale convinzione prenderò in esame la solitudine intesa sia in
senso antropologico, come luogo geografico (solitudine fisica o di luogo), sia in
senso antropologico-filosofico come “luogo ideale”, “luogo dello spirito”
nell’esistenza del soggetto etico (solitudine interiore o distacco spirituale). La
solitudine intesa specificatamente come sentimento, pur non essendo ignorata,
rimarrà invece in secondo piano.
Il mio intento, con questo lavoro, vuole essere quello di evidenziare l’importanza
del momento-solitudine, sottolineandone i limiti e le risorse.
12
Cfr. le osservazioni in I. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, Laterza, Roma-Bari
1979, pp. 39-40.
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Nella Storia della Filosofia si è inteso il termine “coscienza” in quattro modi principali: 1) la
conoscenza in generale; 2) l’intenzionalità; 3) l’introspezione e in modo specifico la conoscenza che
essa genera; 4) l’esperienza fenomenica. Si vedano a riguardo anche gli interessanti e più recenti
sviluppi nel campo della Filosofia della mente. Va precisato però che in questo lavoro l’accezione a
cui si fa maggiormente riferimento è quella di “consapevolezza” (del proprio sentire, del proprio agire,
del proprio essere).
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Il mio interrogativo segue l’indagine che anche F. Desideri in un suo libro si propone: rispondere
alla domanda: «È possibile interrogare la coscienza?» (Cfr. F. Desideri, L’ascolto della coscienza.
Una ricerca filosofica, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 11-16).
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L’analisi sarà di tipo filosofico, con un inquadramento inizialmente di tipo storico,
per poi spaziare intessendo legami con le altre discipline (antropologia, sociologia,
psicologia,…).
La riflessione filosofica privilegerà due figure: Agostino d’Ippona e Hannah
Arendt. Tale scelta è dovuta alla particolare attenzione da essi riservata alla
dimensione dell’interiorità.
Agostino, pensatore in bilico tra due mondi, quello greco e quello cristiano,
incentra la sua attenzione sull’anima dell’uomo, giungendo a considerazioni preziose
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e ancora attualissime. Nelle Confessioni, in particolare, Agostino ricorre a una
forma d’indagine filosofica costituita dal dialogo con se stesso, strumento con il
quale, egli ritiene si possa giungere alla Verità, a Dio.
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Hannah Arendt, studiosa appassionata di Agostino d’Ippona, mantenendo un
approccio etico alla riflessione filosofica, prosegue l’indagine sull’animo umano,
giungendo a interrogarsi profondamente sul pensiero.
Che significa pensare? Amante dei filosofi antichi, Hannah Arendt giunge a dirci:
L’attività del pensare – secondo Platone, il dialogo silenzioso che s’intrattiene con se
stessi – serve a schiudere gli occhi della mente e persino il nous aristotelico è un organo
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destinato alla visione e osservazione della verità.
Condizione fondamentale per coltivare questo dialogo interiore è lo stato di
solitudine, uno stato dal quale, invece, oggi spesso rifuggiamo.
È importante a mio avviso, soprattutto ai nostri giorni, indagare su cosa
significhi realmente saper star soli con se stessi.
In questo studio è mia intenzione conservare per quanto possibile “l’infinità o
vastità dell’idea” che già Leopardi associava alla parola “solitudine”, anche perché
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Le Confessiones sono un’opera autobiografica in XIII libri. È considerata una delle opere più
importanti di Agostino, nella quale egli, rivolgendosi a Dio, narra la sua autobiografia e in particolare
la storia della sua conversione al Cristianesimo. Confessioni, dal latino confiteri nel senso di
“celebrare” la gloria di Dio. Il testo a cui farò riferimento è quello curato da R. De Monticelli
(Garzanti Editore, Milano 1999).
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Si ricordi, a tal proposito, la dissertazione al dottorato di Arendt, uscita presso l’editore Spinger di
Berlino nel 1929 e intitolata Il concetto d’amore in Agostino: saggio di interpretazione filosofica, ora
in trad. it. a cura di L. Boella, Casa Editrice SE, Milano 2004. Proprio all’inizio di quest’opera
Hannah Arendt scrive: «Per quanto sia stato un cristiano credente e convinto, per quanto sia
penetrato sempre più a fondo, […] nella problematica propria del cristianesimo, Agostino, non perse
mai del tutto l’impulso all’interrogazione filosofica, non lo estromise mai radicalmente dal suo
pensiero» (p. 18).
17
H. Arendt, La vita della mente, trad. it. a cura di A. Del lago, Il Mulino, Bologna 2009, p. 87.
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l’uso che ancor oggi viene fatto di questa parola ne serba la medesima
ricchezza/vaghezza semantica.
Questo lavoro, privo di ogni pretesa o prospettiva di esaustività, si propone come
suggestione, sollecitazione, stimolo alla riflessione e rimane aperto a ulteriori
sviluppi.
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