2
dell’argomento, in modo da consentire la selezione e il confronto
tra le idee.
Così ho immaginato una dialettica della leggerezza, i cui
tre momenti (tesi, antitesi, sintesi) fossero rappresentati
rispettivamente dalle riflessioni di Nietzsche, Kundera e Calvino.
Il filosofo tedesco rappresenta la tesi perché crede fermamente
nella positività della leggerezza e nella possibilità da parte
dell’uomo di conquistarla, a patto di tuffarsi nel flusso caotico
della vita e di mantenersi sempre fedele alla terra. A un secolo di
distanza, Kundera scrive un romanzo il cui titolo, L’insostenibile
leggerezza dell’essere, ha già in sé il seme dell’antitesi. Lo
scrittore ceco è interessato a descrivere il lato oscuro della
leggerezza; a tal scopo, inverte di segno quelle immagini e quei
concetti che, più di ogni altri, in Nietzsche esprimono la tensione
verso la levità. Calvino, infine, incarna sia l’ottimismo di
Nietzsche che la disillusione di Kundera, proponendo una sintesi
che si avvale di figure e prospettive del tutto originali.
Posizioni così lontane sembrano, tuttavia, legate da un
tacito assunto: la leggerezza dipende dal modo di porsi di fronte
al caos: Zarathustra lo esalta in quanto fonte inesauribile di
3
leggerezza, mentre i personaggi del romanzo kunderiano, sia che
vi si abbandonino, sia che gli voltino ostinatamente le spalle,
sono comunque condannati alla dittatura del peso. O di una
leggerezza insostenibile. Il punto di vista di Calvino appare più
complesso: tanto tuffarsi nel caos che voltargli le spalle sono
soluzioni lontane dalla sua indole di uomo, di scrittore e di
pensatore. La proposta che avanza è quella di socchiudere gli
occhi e creare, attraverso l’esercizio della scrittura, delle forme,
delle isole d’ordine. La forma – dirà un giorno al suo amico
Pietro Citati - «è un piccolo ex voto per allontanare la fine del
mondo».
1
1
La citazione è riportata in DOMENICO SCARPA, Italo Calvino, Milano, Bruno
Mondadori, 1999, p.168.
4
CAPITOLO PRIMO
NIETZSCHE E KUNDERA: TESI E ANTITESI
I.1. Il peso dell’eterno ritorno
L’equazione tra peso ed eterno ritorno è il leitmotiv
dell’Insostenibile leggerezza dell’essere, romanzo dello scrittore
ceco Milan Kundera, pubblicato in boemo nel 1982 e tradotto in
italiano nel 1985. Fin dalle prime righe, il narratore (alter ego
dichiarato dell’autore) collega l’ipotesi nietzschiana di una vita
che si ripete sempre uguale a se stessa all’immensa
responsabilità che, in questa prospettiva, graverebbe su ogni
gesto:
Se la Rivoluzione francese dovesse ripetersi
all’infinito, la storiografia francese sarebbe meno
orgogliosa di Robespierre. Dal momento, però, che
parla di qualcosa che non ritorna, gli anni del
sangue si sono trasformati in semplici parole, in
5
teorie, in discussioni, sono diventati più leggeri
delle piume, non incutono paura. C’è un’enorme
differenza tra un Robespierre che si è presentato
una sola volta nella storia e un Robespierre che
torna eternamente a tagliare la testa ai francesi.
2
L’agente trasformatore della ghigliottina in ombra sarebbe
dunque il non-ritorno. Alleggerita dal fardello più pesante – così
Kundera, rifacendosi molto liberamente a Nietzsche, definisce
l’eterno ritorno – la Storia si sveste di ogni solennità e si avvia
verso il vuoto assoluto, nella consapevolezza che «ciò che
accade una volta sola è come non fosse mai accaduto».
3
E con la
Storia, anche le singole vite sembrano condannate a una
leggerezza che ha il gusto amaro del nulla.
È questa la condizione dei personaggi del romanzo, che si
agitano all’interno di esistenze sospese, ora in fuga, ora in cerca
di imperativi categorici che li sollevino dal peso della
2
MILAN KUNDERA, L’insostenibile leggerezza dell’essere, trad. it. di Giuseppe
Dierna, Milano, Adelphi, 1985, pp. 11-12 (Paris, 1982).
3
Ivi, p.16.
6
leggerezza. Ma la riflessione di Kundera non si risolve affatto in
un’apologia della pesantezza. Avendo concepito l’opera come
«una lunga interrogazione»,
4
l’autore gioca a ribaltare
continuamente i punti vista, a mettere in discussione ciò che un
attimo prima sembrava un dato acquisito, nel chiaro intento di
esplorare i diversi aspetti della questione attraverso un crescente
proliferare di domande, a cui si guarda bene dal dare risposte
definitive.
Nel labirinto relativistico in cui Kundera ha segregato i
suoi personaggi, l’equazione tra peso ed eterno ritorno si
presenta come una delle poche certezze, ma è proprio questa sua
natura dogmatica a destare sospetti. Il peso dell’eterno ritorno è
davvero insostenibile?
Italo Calvino non ne è così convinto. In un articolo di
poco successivo alla pubblicazione italiana dell’Insostenibile
leggerezza dell’essere, lo scrittore – che non risparmia
apprezzamenti per le qualità artistiche del romanzo – ha però da
4
M. KUNDERA, L’arte del romanzo, trad. it. di Ena Marchi, Milano, Adelphi, 1988,
p. 53 (Paris, 1986).
7
obiettare su alcuni suoi assunti fondamentali. Primo tra questi, la
visione dell’eterno ritorno:
La leggerezza del vivere per lui sta nel fatto
che le cose avvengono una volta sola, fugacemente,
dunque è quasi come non fossero avvenute. La
pesantezza invece sarebbe data dall’eterno ritorno
ipotizzato da Nietzsche: ogni fatto diventa
spaventoso se sappiamo che si ripeterà infinite
volte. Ma- obietterei- se l’eterno ritorno (sul cui
possibile esatto significato non ci si è mai messi
d’accordo) è ritorno all’identico, una vita unica e
irripetibile equivale esattamente a una vita
infinitamente ripetuta: ogni atto è irrevocabile, non
modificabile per l’eternità. Se invece l’eterno
ritorno è una ripetizione di ritmi, di schemi, di
strutture, di geroglifici del destino, che lasciano
spazio per infinite varianti nei dettagli, allora si
potrebbe considerare il possibile come un insieme
di fluttuazioni statistiche, in cui ogni evento non
8
escluderebbe alternative migliori o peggiori, e la
definitività di ogni gesto ne risulterebbe
alleggerita.
5
A differenza di Kundera, Calvino sembra disposto a
riconoscere un potenziale di leggerezza nella dottrina
nietzschiana, ma solo a patto che questa si presenti nella veste
rassicurante di una struttura in grado di dare una forma al caos,
sfuggendo, al tempo stesso, al volto meduseo della definitività.
Se tale posizione è in perfetta sintonia con le idee espresse nelle
Lezioni americane – la cui stesura è contemporanea all’articolo –
non appare esserlo con il pensiero di Nietzsche.
Sebbene il bagaglio filosofico e lo spazio a disposizione
non consentano una sinossi accurata dell’argomento, sarà forse
utile - ai fini di una miglior comprensione del concetto di
leggerezza negli autori qui esaminati – fornirne le coordinate
essenziali.
5
ITALO CALVINO, Due obiezioni a Kundera, in « la Repubblica», 31 maggio 1985.
9
Definita da Nietzsche come la più abissale delle sue
dottrine, nonché l’evento culminante della propria vita, la
rivelazione dell’eterno ritorno «aggredì» il filosofo durante una
passeggiata attraverso i boschi del lago di Silvaplana, nell’agosto
del 1881.
6
La sua intuizione - buttata giù su un foglio con il
sottotitolo 6000 piedi oltre l’uomo e il tempo - fu che, essendo
l’energia e la materia dell’universo finiti, mentre il tempo è
infinito, gli eventi e le combinazioni devono necessariamente
ripetersi. Questa idea trovò una prima elaborazione teorica
nell’aforisma 341 della Gaia scienza, dal titolo Il peso più
grande. Qui l’autore, descrivendo il tempo come quel continuo
atto di volontà di vivere ancora una volta (e quindi infinite volte)
la vita così com’è e come è stata, connette l’eterno ritorno alla
dottrina stoica dell’amor fati. Identificato da Nietzsche con la
capacità di amare tutto ciò che accade necessariamente nel
mondo, e quindi di non voler nulla di diverso da quello che è,
l’amor fati consente di sostituire alla morale della rinuncia una
6
Cfr. FRIEDRICH NIETZSCHE, Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è, trad. it. di
Carla Buttazzi, Milano, Feltrinelli, 1994, p.228 (Leipzig, 1888).
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vita che si vuole eternamente ritornante nel suo libero gioco di
distruzione e creazione di nuove forme di vita. Rivolgendosi a un
ideale interlocutore, il filosofo chiede quale sarebbe la sua
reazione se un giorno un demone gli proponesse di rivivere,
invariabilmente, questa vita ancora una volta e innumerevoli
volte:
Non ti rovesceresti a terra digrignando i
denti e maledicendo il demone che così ha parlato?
Oppure hai forse vissuto una volta un attimo
immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta:
« Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina »? se
quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te quale
sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti
stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: «Vuoi
tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli
volte?» graverebbe sul tuo agire come il peso più
grande. Oppure quanto dovresti amare te stesso e la
11
vita, per non desiderare più alcuna altra cosa che
questa ultima eterna sanzione, questo suggello?».
7
In questa formulazione, l’eterno ritorno sembra incentrato
sulla dimensione etica, piuttosto che su quella cosmologica. Del
resto lo stesso Nietzsche, scontrandosi con la difficoltà di dare
un fondamento scientifico alla sua intuizione, considera
seriamente la possibilità che essa sia solo un’ipotesi etica; ma
anche come tale, questo pensiero avrebbe la capacità di
trasformarci, così come ha fatto per tanti secoli la pura e
semplice eventualità della dannazione eterna.
8
Il filosofo Gianni Vattimo, da parte sua, non ha dubbi
sulla centralità del senso morale dell’eterno ritorno e, prendendo
in esame, da parte sua, i testi in cui questo compare, conclude
che solo un essere perfettamente felice potrebbe volere una
simile ripetizione eterna. Nell’interpretazione di Vattimo, la
teoria assume una connotazione fortemente selettiva,
7
ID., La gaia scienza, trad. it. di Sossio Giametta , Milano, Rizzoli, 2000, p.305
(Cheminz, 1882).
8
Cfr. GIANNI VATTIMO, Introduzione a Nietzsche, Roma-Bari, Laterza, 1985, p.88.
12
presentandosi come il grande discrimine tra l’umanità inferiore,
che la vede come una condanna, e l’umanità superiore che,
accettandola, si libera da ogni metafisica, cioè da ogni tentativo
di dare ordine al caos dionisiaco del mondo. L’eterno ritorno si
istituisce con un atto di volontà e determina nell’uomo la
capacità di vivere l’unità di essere e senso in ogni istante della
propria esistenza.
Sulla stessa linea interpretativa, Nicola Abbagnano vede
nell’eterno ritorno «il sì che il mondo dice a se stesso».
9
Espressione di quello spirito dionisiaco che esalta e benedice la
vita, la volontà di riaffermazione del mondo, e cioè di ritornare
eternamente identico, appare l’unica necessità del divenire
cosmico. Ma anche una verità terribile, di fronte a cui si misura
la forza dell’uomo.
L’eterno ritorno ha dunque il volto bifronte che è proprio
del nichilismo: pietrificante per chi da questa esperienza si sente
condannato, palingenetico per chi ne fa il punto di partenza
verso l’esplicitazione della propria volontà creativa.
9
NICOLA ABBAGNANO, Storia della filosofia, vol. V, Torino, UTET, 1993, p.390.