9
musica (e alla musica “leggera” in particolare) nell’ambito degli studi sulla
comunicazione umana:
È facile verificare quanto lo studio della musica, uno dei linguaggi più pervasivi del
nostro “habitat”, fatichi a ritagliarsi degli spazi nei luoghi deputati allo studio
della società e della comunicazione. (D’Amato 2001, a cura di: 7)
A ben vedere esiste anche un ulteriore punto che accomuna quasi tutti gli
studiosi di popular music: la consapevolezza della necessità di un metodo di
studio interdisciplinare.
Questa considerazione generalizzata può forse essere vista come una presa di
coscienza della complessità del campo di studio: è l’oggetto stesso dell’analisi,
così come appare all’analista, a risultare talmente vario da poter difficilmente
essere risolto da un solo approccio.
Da questo punto di vista, come diremo in Cap.1, una soluzione possibile è
rappresentata dagli strumenti semiotici e in particolare dalla piega sociosemiotica
assunta dalla disciplina, che rappresenta un’ottica in grado di sanare annose aporie
proprie degli studi precedenti in questo campo d’analisi. Sarà proprio a strumenti
e autori semiotici, quindi, che faremo gran parte dei nostri riferimenti
metodologici nel corso dell’elaborato.
Una serie di problemi più specifici riguarda invece l’altro cardine
dell’elaborato, cioè l’intertestualità. Concetto di origine antica ma di
formulazione relativamente recente (la sua prima apparizione sotto questo termine
è dovuta a un saggio del 1967 di Julia Kristeva), l’intertestualità è rimasta
sostanzialmente ferma alle sue formulazioni originarie, che la percepiscono come
una proprietà per la quale ogni testo è un “mosaico di citazioni” e di influenze di
ogni tipo.
Ciò che occorrerà chiedersi, quindi, è prima di tutto se vale ancora la pena
utilizzare questo concetto e, se sì, come intenderlo.
Dati questi problemi, quindi, questo elaborato sarà articolato di necessità
in due parti fondamentali, focalizzate diversamente ma anche strettamente
connesse tra loro.
La Prima Parte, costituita da due capitoli, si occuperà dei termini chiave
del discorso cui abbiamo appena accennato: popular music e intertestualità.
10
Il Capitolo Primo, di carattere meramente introduttivo, si concentrerà in
modo sintetico su alcuni spunti concernenti la popular music come oggetto di
studio.
Si partirà quindi da un’insoddisfazione metodologica, derivante dai limiti dei
metodi classici di analisi per lo studio di questo tema, per muoversi verso un
approccio più soddisfacente. Lo scopo di questa critica non sarà, come anticipato,
di rimandare a un’auspicabile interdisciplinarità futura, ma piuttosto di segnalare
come un metodo ben preciso, a base semiotica, permetta di affrontare questo
ambito di studio in modo più completo e trasversale. Ciò non equivale a proporre
un metodo prefissato e rigido, ma piuttosto a individuare una serie di concetti e
approcci dotati di particolare interesse e applicabilità effettiva in questo campo,
che torneranno quindi utili anche nello specifico della Seconda Parte.
Mentre il Cap.1 sarà in sostanza dedicato a mettere in luce alcune opzioni
di metodo per lo studio della popular music, quindi, il Cap.2 si concentrerà
specificamente sul vero e proprio termine-chiave dell’elaborato: l’intertestualità.
Lo scopo non sarà però quello di una minuta indagine storica sul tema, quanto
piuttosto di una considerazione di utilità del concetto. A guidare questo capitolo
sarà allora la ricerca di una definizione chiara e utilizzabile di questa nozione, che
possa portare anche ad individuare alcune forme di intertestualità sulle quali
soffermarsi nello specifico.
L’ipotesi centrale è che il concetto di intertestualità abbia ancora una sua
applicabilità e utilità specifica, a patto di riconsiderarlo in modo rigoroso e di
specificarne natura e confini. Fondamentale da questo punto di vista sarà un
superamento dell’intertestualità come semplice proprietà testuale generica e
generale, per passare a considerarla come un insieme di pratiche dotate di
significato: questo sarà infatti il punto di partenza per i successivi capitoli di
natura più approfondita.
La Seconda Parte dell’elaborato, propriamente applicativa e analitica,
cercherà infatti di proporre l’analisi di alcune tra le principali forme intertestuali
proprie della popular music. Il compito non sarà tanto quello di una ricostruzione
storica o di una sistematizzazione onnicomprensiva delle singole pratiche: ciò che
ci si propone è piuttosto di ricercare le specificità comunicative delle varie prassi,
concretizzando il discorso con esemplificazioni testuali e analisi di testi.
11
Avremo così dei capitoli dedicati a tre fenomeni intertestuali ritenuti di particolare
interesse: la citazione
2
(Cap.3), il remix (Cap.4) e la cover (Cap.5).
Il carattere di progressiva focalizzazione dell’analisi (dalle teorie di
metodo sulla popular music a una riflessione teorica sull’intertestualità all’analisi
delle forme effettive di rapporto intertestuale) è pensato nel tentativo di istituire
un cortocircuito tra le osservazioni teoriche e quelle analitiche, così come tra le
definizioni dei concetti e il loro utilizzo pratico.
Iniziando un discorso sulla popular music non è però né scontato né
banale sottolineare il ruolo che questa forma comunicativa ha nella vita quotidiana
di ogni persona. Per l’uomo occidentale, infatti, la musica è una colonna sonora
pressoché onnipresente: è portatrice tanto di valori di “aggregazione”, in quanto
fattore coagulante di una moltitudine di individui (ai concerti o in discoteca, per
esempio), quanto di “isolamento”. La musica nella società contemporanea può
infatti essere utilizzata anche in opposizione al silenzio della solitudine o al
rumore del mondo che circonda i soggetti. Quest’azione auto-escludente può
avvenire ormai in ogni luogo della vita quotidiana, dal momento che l’evoluzione
tecnologica ha garantito la portabilità della musica: dapprima con il walkman,
inventato dalla Sony nel 1979,
3
e successivamente con il lettore di Compact Disk
portatile,
4
filiazione dell’altra grande rivoluzione nel consumo (e nella
produzione) musicale: la digitalizzazione.
Da quest’ultima tecnologia, e specie dalla compressione dei files musicali nel
formato MP3,
5
sono inoltre derivati lettori capaci di contenere centinaia o
addirittura migliaia di files musicali,
6
garantendo così un flusso potenzialmente
ininterrotto di musica.
2
Come diremo già sul finire di Cap.2 (cfr. par.2.8.3) la citazione non è in realtà una pratica, ma un
“fascio di pratiche intertestuali” di vario tipo e basate su differenti elementi concettuali.
3
Il walkman portava a sua volta a compimento la rivoluzione nella fruizione indotta
dall’introduzione del nastro magnetico (la “musicassetta”) a cavallo tra anni Sessanta e Settanta
(cfr. Sibilla, 2003: 62-64).
4
Il quale ha avuto un’affermazione iniziale più travagliata e meno epidemica, soprattutto a causa
della scarsa durata delle batterie e dell’iniziale instabilità nella lettura del supporto.
5
Mp3 è una sigla (da MPEG 1-Layer 3) che identifica un algoritmo di compressione. Questo
algoritmo permette di comprimere file musicali occupando pochi megabyte e senza perdite di
qualità sonora evidenti. È alla base del cosiddetto peer-to-peer, scambio di file tra utenti connessi
a internet, e rappresenta una vera e propria rivoluzione nel mondo della musica, aprendo nuovi
scenari a livello di fruizione, di tutela del diritto d’autore, di gestione dell’industria discografica.
6
Tra questi va perlomeno citato l’iPod della Apple, divenuto leader del mercato e vero e proprio
status symbol.
12
Queste tecnologie si oppongono però non solo al rumore sociale, ma
anche alla “musica ambientale”, cioè alla diffusione di brani musicali da fonti
sonore di vario tipo presenti nei luoghi pubblici (quella che è ormai definita
genericamente come muzak
7
). Questo tipo di musica si può situare più o meno
vicina al semplice rumore e una delle sue caratteristiche più importanti, come ha
messo in luce Kassabian (2001: 74), è quella di avere una funzione
sostanzialmente fàtica, cioè di cercare di mantenere aperto un collegamento tra la
società (e i suoi luoghi) e l’individuo.
Lo scenario sonoro entro cui viviamo emerge quindi come uno spazio conflittuale
in cui rumori, musica ambientale e musica scelta dai soggetti diventano i termini
di un continuo incontro-scontro sociale e identitario.
Questa descrizione puramente introduttiva vuole sottolineare come la
nostra vita quotidiana sia percorsa dalla presenza (nient’affatto banale) della
musica, che diventa un vero e proprio strumento nelle mani dei soggetti, i quali la
utilizzano continuamente per i propri scopi e ben oltre un puro intento ricreativo.
Questa, a ben vedere, è una delle caratteristiche che identificano la musica rispetto
ad altre forme di comunicazione di massa: essa, infatti, costituisce una continua
“colonna sonora” per la vita delle persone, fungendo da accompagnamento
costante come nessun altro prodotto mediale.
8
Se la concezione del ruolo centrale della musica è comune a tutti gli
studiosi che si sono impegnati in questo ambito analitico (come detto in apertura),
meno agevole è la definizione della musica più diffusa nel mondo odierno a
livello terminologico.
Si è infatti tentato di identificare questo fenomeno musicale in vari modi,
per esempio opponendola alla musica “classica”, avente una storia secolare, e
fornendole quindi l’etichetta di “musica leggera”. Quest’ultima è identificata dalla
Nuova Enciclopedia della musica Garzanti (AA.VV. 1983: 879) come:
... tutta quella musica intesa e fruita come svago e divertimento in contrapposizione alla
musica colta o seria, alla musica popolare, al jazz.
7
L’utilizzo del termine in senso di generica “musica diffusa” tradisce in realtà la progettualità che
alla base dei prodotti della Muzak Corporation, e quindi della “muzak” in senso proprio. Cfr.
Fabbri F. (2002: 206-208).
8
Il rapporto con la musica avviene d’altra parte anche fruendo di altri media: la televisione o il
cinema, per esempio (sotto forma di colonna sonora).
13
La musica leggera sarebbe quindi implicitamente a-problematica e caratterizzata
da uno scopo di mero intrattenimento e di semplicità strutturale. Una simile
definizione implica a nostro avviso un certo connotato spregiativo (“leggera” in
quanto “frivola”), ben presente d’altro canto in molti discorsi orientati alla critica
del fenomeno musicale nella società di massa (cfr. par.1.1.1).
Dal nostro punto di vista, però, il problema è soprattutto che una simile
visione rappresenterebbe una base di partenza problematica per l’analisi. Una
domanda infatti si viene a porre immediatamente: cosa distingue concretamente la
musica leggera da quella colta?
Si potrebbe pensare che l’elemento distintivo sia la presenza di un’orchestrazione
(musica classica) rispetto a un insieme strumentale più semplice (musica
leggera). Questo però non è necessariamente vero, poiché anche nella musica a
più ampia diffusione le orchestre (spesso anche di numerosi elementi) sono state
spesso utilizzate per la creazione dei prodotti sonori.
Il termine di distinzione si potrebbe però vedere, spostandosi dal prodotto
musicale alla fase produttiva, anche in una presunta “semplicità compositiva”
della musica leggera. Questa ipotesi non sembra in verità avere concreta
dimostrazione nei testi: pensiamo ad esempio a un disco come Sgt. Pepper’s
Lonely Hearts Club Band – The Beatles (1967a), universalmente riconosciuto di
grande creatività e complessità musicale, ma anche ai prodotti di molte band del
progressive rock, la cui cifra creativa fu proprio rappresentata dalla complessità
delle componenti musicali e dalla possibilità di unire linguaggio “colto” e stilemi
del rock.
9
Basterebbe d’altra parte riflettere sulla produzione di un autore come
Frank Zappa, che proprio a cavallo tra musica “colta” e musica “leggera” si è
mosso con maestria, per capire come una simile distinzione crei più problemi di
quanti non paia risolverne.
In ambito anglosassone, in realtà, si è affermata un’espressione che ha
permesso di superare simili questioni terminologiche: popular music. In Italia si è
avuto però un certo timore ad adottare questa definizione, che si temeva potesse
richiamare la musica popolare di tutt’altra derivazione e natura (tanto che, nella
9
“...stava prendendo forma allora un’entità ibrida chiamata progressive, che alla lettera alludeva al
progresso ma nei fatti si rivolgeva al passato. Se davvero il rock aveva bisogno di ‘credibilità’,
l’idea di associarlo alla musica classica – tanto autorevole quanto ossificata in accademia – era
quel che ci voleva” (Campo, 2004: 126-127).
14
definizione prima riportata, era contrapposta alla musica leggera) o identificare un
fenomeno in qualche modo “straniero”.
10
Considerando il panorama degli studi (particolarmente fecondo in ambito
anglosassone) e la difficoltà nel trovare una traduzione soddisfacente nella nostra
lingua, si ritiene che popular music sia l’espressione più consona e corretta per
l’oggetto d’analisi in questione, e accetteremo qui tale denominazione.
Ma cosa intendiamo concretamente quando utilizziamo questa categoria?
... nel nostro secolo essa indica inizialmente i prodotti del music hall e poi quelli di
produttori di canzoni per il mercato di massa come Tin Pan Alley e il suo equivalente
britannico. (Middleton, 1990: 20)
Questo è quindi un vero e proprio termine-ombrello, che dalla musica di inizio
Novecento passa a comprendere tutti i linguaggi musicali che si sono succeduti da
allora: dalla rivoluzione del rock’n’roll negli anni Cinquanta al punk, dalla techno
al grunge, dal country fino al pop lolitesco delle girlbands degli anni Novanta.
Una simile definizione del termine “popular music” risulta a parer nostro
particolarmente utile proprio per la sua generalità, che permette di riferirsi a un
ambito e non a un limitato fenomeno o genere. Secondo Franco Fabbri, infatti, lo
studio della popular music comprende, tra le altre cose, “la canzone, il pop, il
rock, la musica del cinema, della televisione, della pubblicità” (Fabbri F., 1990:
7).
Occorre però dire che non tutti gli studiosi sono d’accordo con l’utilizzo
di questo termine: a questo proposito, per esempio, Gianni Sibilla preferisce il
termine “pop”, con cui egli intende:
… un macrogenere musicale contemporaneo che ricomprende tutti i sottogeneri
specifici della canzone popolare sviluppatisi a partire dall’avvento del rock’n’roll,
contraddistinti dalla diffusione intermediale su supporti fonografici e mezzi di
comunicazione. (Sibilla, 2003: 29)
10
La musica “popolare” corrisponde nel nostro paese alle musiche tramandatesi per via orale e
perlopiù anonime (i “canti”). È, quindi, l’equivalente della cosiddetta folk music (o traditional
music) anglosassone. Cfr. Fabbri F. (2002: 48-51).
15
Nella nostra ottica, però, il pop va inteso come un insieme di generi interni
all’ambito della popular music, che vengono solitamente percepiti in opposizione
(e non come termine superiore) rispetto ad un altro macrogenere: il rock.
11
Se si ha una certa sicurezza, e tutto sommato una ragionevole
condivisione concettuale, rispetto a cosa si intenda con l’espressione “popular
music”, resta tuttavia da dibattere come sia stata studiata questa forma di
comunicazione e come, negli ultimi anni, sia stato possibile migliorarne
l’approfondimento teorico attraverso gli strumenti semiotici, prima scarsamente
utilizzati in quest’ambito. Sarà proprio una rapida considerazione di tale scenario
teorico, quindi, a costituire lo scopo fondamentale del primo capitolo di questo
elaborato.
11
La costituzione di rock e pop come macro-generi in opposizione si ha con il rock progressivo
degli anni Settanta, che “pretendeva di basarsi sull’autenticità artistica in contrasto con la volgarità
commerciale del pop” (Chambers, 1985: 112). Sull’impossibilità di fare coincidere pop e popular
music cfr. anche Fabbri F. (2002: 48-49).
17
– CAPITOLO 1 –
FORME DI STUDIO DELLA POPULAR MUSIC:
APPROCCI E APPRODI ANALITICI
“Ma pensa se le canzonette
me le recensisse
Roland Barthes”
(Francesco Guccini, “Via Paolo Fabbri, 43”)
1.1. Approcci sociologici
La musica
12
è un fenomeno sociale. In questa affermazione, in realtà
notevolmente generica, sta certamente una grande verità circa la natura e le forme
della comunicazione e della significazione musicale, ma sta forse anche una verità
parziale.
Se è indubbio che la popular music sia da sempre connessa a delle dinamiche di
tipo sociale, infatti, è altrettanto vero che molti degli approcci nati in quest’ambito
teorico hanno spesso peccato di una serie di parzialità che ne hanno limitato
l’efficacia e l’applicabilità. Questo non modifica ovviamente quanto è stato
sottolineato da Walser (2003: 18):
Sociologists should be credited, though, with having studied popular music first,
decades ago, because they weren’t worried about whether popular music was ‘art’; they
knew it was socially important.
13
12
D’ora in poi, per evidenti ragioni di scorrevolezza, si utilizzerà il termine “musica” come
sinonimo della sola popular music. Nel caso ci si riferisse all’ambito musicale in senso generale o
alla musica classica la cosa verrà specificata.
13
“I sociologi dovrebbero essere accreditati, comunque, di aver studiato per primi la
popular music, decenni fa, perché ad essi non interessava se la popular music fosse o meno ‘arte’;
sapevano che era socialmente importante” [trad. nostra].
18
Per mettere in luce i principali problemi che sono emersi da simili studi si seguirà
qui un percorso volutamente sommario, con lo scopo primario di isolare alcuni dei
principali nodi d’interesse teorico.
Se si parla di sociologia e musica, tuttavia, diventa necessario cominciare
dalle radici di questo lungo e produttivo rapporto, cioè da chi pensava che la
musica “leggera” fosse il segno di una società di massa in rapida affermazione e,
al contempo, caratterizzata da ricadute negative e pericolose per la libertà stessa
degli individui: ci riferiamo a Theodor Wiesengrund Adorno.
1.1.1. La critica di Adorno alla popular music
Adorno è stato uno dei primi pensatori a dedicare riflessioni specifiche alla
popular music. L’autore, come si sa, muoveva le sue osservazioni nell’alveo della
cosiddetta “Scuola di Francoforte”, una corrente di pensiero animata da un
profondo intento critico verso la cultura di massa e i prodotti in essa concepiti.
14
Non si intende qui soffermarsi in dettaglio né sul pensiero di Adorno né
sulle critiche alle sue osservazioni compiute da autori successivi (per esempio si
veda Middleton, 1990: 59-98). L’importanza delle riflessioni di questo autore,
infatti, sta oggigiorno soprattutto nel loro valore storico: Adorno concepiva la
popular music come un ambito su cui ragionare e interrogarsi, e ciò è storicamente
importante anche se le sue argomentazioni critiche possono risultare schematiche
e notevolmente datate.
Possiamo però riassumere brevemente quanto egli sosteneva, mettendo
così in chiaro come alcuni dei suoi punti di vista siano rimasti alla base di varie
considerazioni successive.
Adorno riteneva in primo luogo che l’industria culturale feticizzasse la musica,
proponendola come una forma artistica dotata di valori puramente emotivi e
“spirituali” nonostante il suo sostrato più profondo fosse evidentemente
mercantile e commerciale. La popular music (come pure il jazz) non sarebbe
quindi altro che un insieme di stili solo apparentemente spontanei, aventi lo scopo
di creare un circolo vizioso tra i bisogni dei soggetti e i prodotti artistici
14
Ci si riferisce soprattutto all’opera che rappresenta la summa di alcune delle tesi di questa
scuola, cioè Adorno e Horkheimer (1947).
19
“predigeriti” (cioè contenenti al proprio interno le prescrizioni per la loro
fruizione) proposti dall’industria:
... secondo Adorno, la promessa utopica, che è il marchio di autonomia dell’arte
superiore, è rilevante nella popular music solo in quanto ne è assente, perché in questo
campo il controllo sociale del significato e della funzione della musica è totale, la forma
musicale è un riflesso reificato di delle strutture sociali manipolatrici, e questo momento
nell’attuale processo storico rappresenta in verità la fine della storia, in quanto la
contraddizione e la critica non sono più possibili. (Middleton, 1990: 60)
A questo elemento si unisce poi il concetto di pseudo-individualizzazione: Adorno
critica infatti la proliferazione di numerosi sotto-generi che appaiono adattarsi a
diverse situazioni della vita quotidiana (cfr. D’Amato 2001, a cura di: 32-33), ma
che verrebbero sempre e comunque consumati dagli ascoltatori in modo
superficiale, distratto e acritico.
15
Se le teorie di Adorno sono state messe profondamente in discussione da
tempo (anche nell’ambito della sociologia generale), un elemento che le
caratterizza si è nondimeno trasmesso a molte delle analisi sociologiche
successive: la tendenza a una spiegazione dei fenomeni musicali basata
sull’omologia
16
società/musica, tramite la quale i fenomeni musicali diventano un
mero riflesso di dinamiche sociali ben più generali. Questo punto, quindi, è
particolarmente evidente in altri approcci sociologici che hanno cercato di
focalizzarsi sullo studio della popular music, e all’interno dei quali sono state
compiute numerose osservazioni su questo tema.
15
“Qualsiasi ‘bisogno’ musicale apparentemente soddisfatto dalla musica è falso, in quanto
il valore d’uso è distrutto, e tutto ciò che i consumatori in realtà consumano è il ‘successo’ che loro
stessi hanno aiutato a produrre” (Middleton, 1990: 89).
16
Middleton (1990: 223), citando Hall e Jefferson, definisce l’omologia come “il processo
per mezzo del quale ‘gli interessi focali, le attività, la struttura e l’immagine collettiva del gruppo’
vengono agglomerati in un insieme coerente e caratteristico, in cui i membri riescono a
‘riconoscere il [sic] loro valori essenziali’ (Hall e Jefferson 1976, p.56)”.
20
1.1.2. L’omologia come elemento di spiegazione: la sociologia della musica come
analisi “trascendente”
Dalle riflessioni di Adorno in poi si è andato affermando in ambito
sociologico un punto di vista orientato all’analisi del contesto
17
in cui la popular
music è fruita, sulla base della convinzione che simili considerazioni potessero
spiegare il valore dei fenomeni musicali.
Correlato inevitabile di una simile visione è il focalizzarsi quasi esclusivamente
sul lato del consumo musicale, finendo per sminuire tanto la produzione quanto
l’oggetto consumato e circolante, cioè il testo di popular music. Come sostiene
Sibilla (2003: 68-69):
... la sociologia si è occupata prevalentemente di tre aspetti: gli sfondi socio-economici
e le dinamiche produttive; le forme di autorialità e i fenomeni di “divismo”; e, appunto,
le forme del consumo e gli effetti sociali.
Studi macrosociologici di questo tipo sono tutto sommato abbastanza
semplici da giustificare: soprattutto a partire dal turning point rappresentato dal
rock’n’roll negli anni Cinquanta, infatti, il consumo di popular music è sembrato
coincidere con il comportamento di un gruppo sociale ben preciso, i giovani. È
d’altro canto indubbio che molti dei linguaggi musicali della popular music
abbiano avuto (almeno in una prima fase) una connessione profonda con questo
gruppo sociale, dal quale sono derivati molti dei fenomeni più interessanti ed
evidenti del secondo dopoguerra: dall’utilizzo delle droghe alla protesta
antimilitarista contro la guerra nel Vietnam, dalla disco culture al satanismo.
Da un simile punto di vista si è perciò operato riconducendo la fruizione
della popular music agli stili di consumo generali di (e ai livelli di classe
socioeconomica interni a) questo gruppo sociale. Ecco quindi l’affermarsi, a
fianco di un’analisi omologica di stampo marxista, di un’analisi più complessa ma
ancora infirmata dagli stessi principi generali di funzionamento. Ci riferiamo,
nello specifico, agli studi influenzati dall’approccio derivante dal Centre for
17
Parlando di “contesto” intendiamo qui le condizioni sociali, economiche e strutturali
della società in un dato periodo storico e per un dato gruppo sociale, secondo una visione
sostanzialmente macrosociologica.
21
Contemporary Cultural Studies dell’Università di Birmingham, identificati spesso
come “teorie delle sottoculture”.
Sibilla (2003: 73-75) chiarisce questo approccio (riferendosi nello specifico ai
lavori di Dick Hedbige) ritenendo che in tale visione:
... la musica è uno stile di vita, una risposta all’alienazione di classe. Tra stile di vita e
musica vige una legge di circolarità espressiva basata sull’omologia tra scelte sociali e i
messaggi dei testi pop. Questa circolarità è rilevabile nell’analisi dei testi della cultura
di gruppo, intesa come insieme di pratiche significanti.
In realtà, continua Sibilla, un simile approccio allo studio della musica risulta
eccessivamente semplicistico, dal momento che è impossibile ridurre i fenomeni
musicali a semplici riflessi della cultura di un certo sottogruppo (ibidem).
Questa critica può essere ulteriormente integrata da quanto ha sostenuto D’Amato
(2001, a cura di: 45-47) sugli stessi cultural studies e sul loro modo di procedere:
La debolezza dei primi modelli dei cultural studies consiste proprio nella scarsa
problematizzazione del primo di questi due termini, ossia ... [nel vedere; aggiunta
nostra] categorie sociali, quali la classe o il genere, come “date”, e soprattutto nel
leggere le attività e i prodotti culturali come espressione di tali classi o identità sociali.
...è il livello del testo, della musica, che non viene problematizzato nella sua specificità,
o che viene “forzato” al fine di aderire al rapporto omologico previsto.
Critiche simili sono state rivolte anche da Middleton (1990: 220-240),
il quale ha messo in luce come in questo ambito teorico si giocasse sia
sul versante dell’analisi della cultura giovanile che della
configurazione per classi sociali:
... i nuovi teorici delle sottoculture, avendo intuito giustamente che il discorso relativo
alla “cultura giovanile” era parte integrante della tesi “socialdemocratica” sulla
“scomparsa delle classi”, lo guardavano con tanto sospetto da essere interessati più alle
strutture interne delle sottoculture che ai loro rapporti esterni. ... Ciò che colpisce di
questi saggi è che la musica ne è totalmente assente. Se gli stili sottoculturali possono
essere descritti senza che i gusti musicali dei loro membri debbano essere menzionati,
ciò indica che la teoria delle sottoculture forse non ha (sempre?) i mezzi per capire la
musiche. (Middleton, 1990: 224)
22
Approcci simili ma di periodi successivi hanno avuto senza dubbio un maggiore
orientamento al testo musicale e un minore determinismo, ma sono risultati
egualmente parziali nell’isolare i soli contenuti emergenti dalle liriche dei brani,
rispetto ai quali è stata poi ripresentata la tradizionale spiegazione omologica tra i
caratteri (specialmente controculturali) della specifica sottocultura e i suoi
consumi musicali. Questa nuova forma di cultural studies, perlopiù di derivazione
statunitense, si è caratterizzata inoltre per un approccio molto vicino al post-
strutturalismo e a certe teorie decostruzioniste (cfr. D’Amato 2001, a cura di: 49),
abbandonando una collocazione precisa sotto l’ottica sociologica.
Nonostante abbiano avuto l’indubbio merito di fare della popular music un
elemento centrale di approfondimento, insomma, gli approcci della sociologia
“classica” hanno spesso trasformato i testi in un semplice pretesto per confermare
considerazioni compiute a livelli di astrattezza ben più elevati. Questo non
significa che i metodi sociologici o lo studio dei consumi siano da abbandonare
del tutto: la musica resta indubbiamente un indicatore sociale importante, e teorie
caratterizzate da una maggiore flessibilità si sono andate gradualmente
affermando con un certo successo.
18
Il problema, dal nostro punto di vista, è però che questi approcci hanno
alcune parzialità che li rendono inutilizzabili come base per uno studio della
popular music (e delle sue forme intertestuali nello specifico) trasversale e
completo. Proviamo, a questo punto, a sintetizzare alcuni dei principali elementi
problematici emergenti dalle forme più classiche di studio sociologico della
popular music, in vista di una considerazione più generale.
1.1.3. Problemi delle analisi sociologiche: elementi emergenti
Questo breve excursus nella macrosociologia della popular music,
volutamente ristretto e rapido, ha messo in luce una serie di problemi presenti in
questo punto di vista analitico, inteso nella sua generalità:
18
Rimandiamo in particolare alle considerazioni compiute da D’Amato (2001, a cura di:
50-63) sugli orientamenti della “Produzione di cultura”, delle “Culture di produzione”,
dell’etnografia e della “cultural musicology”.
23
1) il vedere la musica come un semplice riflesso di elementi esterni (omologia
società-musica). Come sostiene Sibilla (2003: 75):
... l’omologia tra stile di vita e musica viene giustificata dall’idea che il primo sia un
riflesso di quest’ultima; ma la musica, però, non viene adeguatamente analizzata, perché
rischierebbe di contraddire la teoria. ... La costante degli approcci sociologici al pop
appartenenti a questo filone è che la musica viene intesa e studiata soprattutto come
prodotto che riflette la cultura giovanile, nei suoi riti e miti come fattore di
socializzazione.
2) il trascurare l’analisi testuale ponendo un focus esclusivo sul momento del
consumo e in generale su ciò che circonda il testo (un punto che possiamo
identificare come “trascendenza” dell’analisi). Siamo qui nello spinoso ambito
dei rapporti esistenti tra testo e contesto, che saranno la base di successive
riflessioni sulla necessità di un metodo che superi una rigida antinomia dei due
termini.
19
Se è vero, come si è detto in par.1.1, che la musica è un fenomeno sociale,
è anche vero che in una simile visione manca qualcosa per poter rendere conto
dell’oggetto di studio nella sua complessità. Volendo essere più concreti e
anticipando il tema specifico di Cap.2 e dell’intera Seconda Parte: un’analisi di
tipo sociologico difficilmente riuscirebbe a rendere conto dei rapporti esistenti tra
prodotti musicali legati da vincoli intertestuali, fornendo spiegazioni soddisfacenti
dei loro rapporti e delle dinamiche di senso sottese.
Queste critiche, come detto, non equivalgono a dire che gli approcci
sociologici vadano abbandonati o considerati manchevoli tout court. Studi di
questa matrice potrebbero a nostro avviso essere particolarmente interessanti
soprattutto nel caso in cui da un’ottica macrosociologica si passasse a una visione
microsociologica ed etnografica.
20
19
Considerazioni su questo punto torneranno più volte nel prosieguo del capitolo: cfr.
parr.1.6.1, 1.7 e 1.8.
20
L’etnografia, per esempio, potrebbe essere produttivamente applicata tanto alla
produzione (esaminando attraverso l’osservazione partecipante i contesti di composizione,
produzione artistica ed esecutiva dei prodotti musicali) quanto alla fruizione (vedendo come i
soggetti fruiscano la musica nelle loro pratiche quotidiane di ascolto). Citiamo qui uno studio
tramite osservazione partecipante svolto da Sara Cohen su due band di Liverpool, i Jactars e i
Crikey It’s the Cromptons!, presente in COHEN, Sara, Rock Culture in Liverpool. Popular music
in the making, Oxford UP, London, 1991.