2
Introduzione
La ricerca foto-realistica dell’industria degli effetti speciali, la cui massima ambizione e
obiettivo tecnicamente e tecnologicamente più avanzato, è sempre stato la perfetta
riproduzione sintetica del volto e del complessivo corpo umano, al punto da renderli
indistinguibili rispetto a quelli reali.
1
Con il termine «incarnato» vogliamo riferirci al colore e al colorito, all’espressione che il
corpo può assumere all’interno di un film, sia in presenza di un referente reale, sia in sua
assenza. Va sin da subito chiarito che lo spunto per questo taglio di analisi del cinema post-
moderno ci è venuto leggendo il saggio di Didi- Hubermann dal titolo La pittura incarnata,
nel quale vengono analizzate le tipologie dell’incarnato riferite alle arti figurative.
2
Su tale
impronta metodologica dunque, imposteremo la nostra analisi inerente al cinema post-
moderno. Talvolta, ci discosteremo dalle tesi hubermiane, ma vedremo come, spesso,
l’incarnato del corpo è utilizzato al fine di veicolare significati e attivare simbologie.
Sappiamo come il corpo possa essere considerato (o studiato) sotto diverse prospettive.
Quest’ultimo può identificare una cultura, può esprimere uno stato d’animo, può
simboleggiare qualcosa. Da sempre, infatti, il corpo è stato oggetto di discussione o di
rappresentazione, non solo nel campo del cinema. Si pensi alla pittura, in cui è spesso al
centro di molte raffigurazioni: la rappresentazione della pelle e dell’incarnato è stata sempre
oggetto di studio, al fine di mostrare non un semplice disegno, ma vera e propria vita. Così
anche il cinema. Nel nostro percorso di analisi ipotizzeremo varie forme dell’incarnato in
relazione a una costante attenzione del cinema digitale al corpo e alla pelle. A tal proposito, il
sociologo Roland Barthes, afferma: “Che corpo? Ne abbiamo parecchi. Ho un corpo
digestivo, un corpo nauseabondo, un corpo col mal di testa, e così via: sensuale, muscolare,
umorale e soprattutto emotivo: che è commosso, agitato, o appesantito, o esaltato, o
spaventato, senza che vi appaia nulla”.
3
Oggi più che mai, con l’era digitale, abbiamo una
continua tensione tra rappresentazione e riproduzione mimetica della realtà. Gli attori possono
essere esclusivamente digitali e le scenografie dei grandi teli verdi, ma se in una prima fase
1
G. Latini, Forme digitali, Meltemi editore srl, Roma 2007.
2
G. Didi-Hubermann, La pittura incarnata. Saggio sull’immagine vivente, trad. it. S. Guindani Il Saggiatore
Milano 2008 (1985).
3
G. Canova, L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Studi Bompiani, Milano
2009.
3
tendevano a destare meraviglia nello spettatore, ora vengono usati per rafforzare l’effetto di
realtà. Sembra presagire tutto ciò:
“Non ve l’aspettavate tanta perfezione! Avete davanti una donna, e cercate un quadro.
Questa tela ha una tale profondità, l’aria è talmente vera, che non riuscite più a distinguerla
da quella che ci circonda. Dov’è l’arte? Perduta, smarrita! Queste sono le fattezze di una
fanciulla in carne e ossa. Non ne ho saputo cogliere alla perfezione il colorito. Non sembra
quasi di poter sfiorare questo dorso con la mano?... Ma respira, mi pare!”.
4
Questa affermazione si riferisce alla pittura di una tela, ma è importante per ciò di cui ci
occuperemo. Difatti, la resa e il colorito di una rappresentazione cinematografica, possono
confondere a tal punto lo spettatore da sembrare reali. In questo studio analizzeremo in
quattro capitoli altrettante forme di incarnato, rintracciandole in film che vanno dagli anni ‘70
a oggi.
Il primo capitolo tratterà dell’incarnato “verosimile”. Con questa categoria ci riferiremo a film
dove sono presenti, insieme ad attori reali, creature fittizie, le cui fattezze e precisione dei
tratti siano utilizzate per creare illusioni di realtà. Questi esseri sono realizzati completamente
in computer grafica o sono ibridi (cioè realizzati utilizzando attori reali e immagini di sintesi);
sono integrati anche in un contesto reale, e in tal modo assumono carattere di verosimiglianza,
coinvolgendo lo spettatore. Analizzeremo il concetto d’ibridazione, cioè la presenza, in uno
stesso personaggio, di elementi discordanti o non armonici tra loro. Un altro aspetto che
esamineremo, sarà la «duttilità dell’incarnato», con cui si intende la malleabilità di un dato
oggetto. Grazie alle nuove tecnologie digitali, il corpo nel cinema post-moderno assume e
muta il suo aspetto ripetutamente. Infatti come sostiene Canova:
Nell’era del morphing e della virtualità, la staticità iconica diventa impraticabile e
penalizzante.
5
Il secondo capitolo focalizzerà l’attenzione sull’incarnato “realistico”. Analizzeremo quei film
in cui forme, dimensioni e attori corrispondono a quelle della nostra quotidianità e in cui i
corpi, pur se privi di un referente reale, appaiono realistici agli occhi degli spettatori. Non
abbiamo, infatti, alterazioni nella fisicità esteriore del personaggio, ma l’uso di effetti speciali
permette la rappresentazione di una realtà esteriormente possibile, ma in verità fittizia. Ci
4
G. Didi-Hubermann, cit., p.140.
5
G. Canova, cit., p. 71.
4
occuperemo anche di nuove tecnologie, come la motion capture, che permette di avere
l’animazione di un essere umano applicata a dei modelli digitali.
Il terzo capitolo tratterà dell’incarnato “significante”. Tale definizione si riferisce a una
trasformazione che il personaggio compie all’interno del film, sia nelle sue fattezze esteriori
che in quelle psicologico-comportamentali. Tali cambiamenti sono così evidenti da non
passare inosservati, anzi, diventano parte integrante e, talvolta, guidano la conclusione e il
significato del film.
Nell’ultimo capitolo ci occuperemo dell’incarnato “iperreale”, focalizzando la nostra
attenzione sui film in stereoscopia. Questa tecnica crea un’illusione tale da fare in modo che i
personaggi appaiano dotati di una plasticità superiore alla realtà e che lo spettatore abbia la
sensazione di essere parte del film. Va, comunque, precisato che alcuni film verranno presi in
esame in più di una categoria, mettendo in risalto, di volta in volta, le caratteristiche
tipologiche dell’incarnato. Ciò che ci proponiamo di dimostrare è, quindi, che il cinema post-
moderno, specialmente dopo l’avvento delle tecnologie digitali, ha talvolta optato per una
tendenza realistica della rappresentazione, cercando di nascondere l’inganno illusionistico
dovuto alle immagini di sintesi; altre volte ha inteso costruire mondi e corpi verosimili ma,
nell’uno e nell’altro caso, tendenzialmente ha prestato molta attenzione alla pelle, al colorito,
all’incarnato.
5
CAP. I
INCARNATO VEROSIMILE
Il cinema spettacolare, infatti, se ricorre all’effetto digitale, lo fa unicamente in direzione del
rafforzamento dell’“impressione di realtà”, del raddoppiamento del verosimile, rendendo
credibile l’inverosimile e il fantastico.
6
La verosimiglianza designa l’aspetto di un oggetto o di una persona che è simile o conforme
alla realtà, anche se da questa se ne avvicina e allo stesso modo se ne distacca. Il cinema,
oggi più che mai, ha l’obiettivo di riprodurre verosimilmente la realtà. Esso “ha un forte
“potere di persuasione”, nel senso che la finzione risulta più vera ed oggettiva rispetto alle
altre forme di rappresentazione”,
7
creando un coinvolgimento profondo che porta lo
spettatore a oscillare tra il mondo reale e la rappresentazione filmica. A tal proposito, Metz
sostiene che “ogni film risulta un film di finzione, o un insieme di apparenze che riformulano
il reale e ingannano lo spettatore”.
8
Non ci si muove più con l’intento di un’apparenza, ma si
fa uso di mezzi tecnici per rafforzare la credibilità. Secondo Frenhofer, il pittore
d’invenzione dell’opera di Balzac, in una rappresentazione di una tela è fondamentale
l’interstizio, cioè il tenersi-fra, come se, a opera completata, si potesse girare attorno al
quadro.
9
Una ricerca, attraverso i mezzi tecnici di una perfezione che portava la sua opera ad
uscire dall’arte per diventare carne.
Dov’è l’arte? Perduta, smarrita! Queste sono le fattezze di una fanciulla in carne e ossa.
10
Lo scopo del cinema è, quindi, restituire un eccesso di somiglianza. Nello specifico,
vedremo come le moderne tecnologie servano a trasmettere una verosimiglianza che
avvicina alla realtà. In effetti, ciò che fa il film è avvicinare e allontanare lo spettatore in una
sorta di allucinazione. Pensiamo alla presenza di oggetti virtuali che assumono le stesse
6
C. Uva, Impronte digitali. Il cinema e le sue immagini tra regime fotografico e tecnologia numerica, Bulzoni
editore, Roma 2009.
7
A. Rabbito, L’illusione e l’inganno. Dal barocco al cinema, Bonanno Editore, Roma 2010.
8
Ibidem, p. 210.
9
G. Didi-Hubermann, cit., p.31.
10
Ibidem. p.140.
6
forme, colori e dimensioni di quelle reali; oppure a personaggi che si muovono, camminano
e interagiscono come gli esseri umani, ma di cui si riesce a capire la non appartenenza alla
realtà. Questo può essere dovuto al fatto che, sebbene i personaggi compiano azioni come
quelle degli uomini, da questi se ne distaccano per via di differenze morfologiche, come un
viso anomalo (Gollum) o il colore della pelle (Avatar). Il loro incarnato dà quindi la
percezione di verosimiglianza. Col termine incarnato, seguendo la tesi di Hubermann, non
vogliano riferirci soltanto ad un rivestimento di colore del corpo.
Il colore non è un vestito; il colore non dovrebbe mai trovarsi sui corpi come rivestimento;
quando succede esso non è che un sudario o un belletto”.
11
L’incarnato è qualcosa di più complesso, che ha a che fare non soltanto con il colore ma
anche con il colorito. Non è solo un rivestimento esteriore, ma è l’espressione di qualcosa di
più profondo che richiama la “voce della carne”, gli interstizi della pelle.
12
Ci sono moltissimi esempi di personaggi all’interno dei film, e non solo, che possiamo
considerare verosimili. Questi non riguardano solo il cinema, ma dilagano, come abbiamo
già accennato, in altri settori. Con l’introduzione della computer grafica e degli effetti
speciali, gli occhi dello spettatore iniziano a essere ingannati. Il perfezionamento della
tecnologia e delle tecniche digitali ha portato ad uno stato quasi di allucinazione in chi
guarda un’immagine o una figura digitale.
[…] l’immagine mi cattura, mi rapisce; mi incollo alla rappresentazione, ed è questa colla a
fondare la naturalità (la pseudo -natura) della scena filmata.
13
Oggi, le creature virtuali non sono più semplicemente ristrette entro la cinematografia, ma
sono presenti in molti campi come l’arte, gli spot pubblicitari, la moda. L’immagine
verosimile appare naturale agli occhi di chi la guarda, pur essendo ibrida. Il concetto di
“ibridazione” è tipico del cinema che va dagli anni settanta fino a oggi. “Per ibridazione si
intendono delle immagini preesistenti che sono arricchite con l’inserzione di più elementi”.
14
Quei film che abbiamo considerato verosimili hanno, in effetti, l’unione di attori e set reali a
oggetti elaborati interamente al computer, o a personaggi e oggetti che sembrano cartoon,
11
Ibidem, p.20.
12
Ibidem, p. 23.
13
A. Rabbito, cit., p. 116.
14
V. De Rubeis, Vedere digitale , Dino Audino Roma 2005.
7
inseriti in set virtuali. Di conseguenza, cambia anche la concezione, l’interpretazione
dell’attore e del suo corpo. Infatti, “nell’era del virtuale il cinema sente che deve cominciare
a fare a meno della centralità del corpo: sia del corpo umano come referente, sia del corpo
attoriale come significante”.
15
Tale concetto trova il suo compimento in un film come
Terminator II (J. Cameron 1991), dove l’attore Arnold Schwarzenegger diventa un ibrido
uomo-cyborg, integrando in sé pelle umana ed elementi metallici. Il cinema contemporaneo
presenta una commistione continua fra corpo e tecnologia. “La dialettica, infine, incestuosa,
se si pensa a Ballard, tra carne e acciaio è ora sostituita da un’erotica che combina corpo e
digitale. Il pixel diviene porzione di pelle, supporto di una condizione in cui i soggetti
incarnati giocano la continua ricombinazione di digitale e materiale. Sampling, mixing,
morphing: le operazioni dei paradigmi tecnologici vengono applicate direttamente sulla
carne, facendo del sé l’esito di un sincretismo”.
16
E’ evidente come i concetti di sincretismo
e ibridazione, scambio, contaminazione e simbiosi, facciano parte del cinema
contemporaneo: una rivisitazione del tutto nuova rispetto a quella data dal cinema del
passato. La simbiosi, come il termine stesso indica, deriva dal greco sun e bios, cioè vita di due
elementi di natura differente, nel nostro caso il corpo e la tecnologia. Nel cinema post-moderno
questo scambio e questa simbiosi indicano e integrano tutti i sensi e non più soltanto la vista.
Cambia così il concetto di visione, che nel cinema è sempre stato fondamentale. Similmente,
questo era già avvenuto nelle altre arti. Già all’inizio del novecento “coi dadaisti […] l’opera
d’arte diventò un proiettile. Venne proiettata contro l’osservatore. Assunse una qualità tattile.
In questo modo ha favorito l’esigenza del cinema, il cui elemento diversivo è appunto in
primo luogo di ordine tattile, si fonda cioè sul mutamento dei luoghi dell’azione e delle
inquadrature, che investono gli spettatori a scatti”.
17
Walter Benjamin non è il solo a pensarla
così: anche il sociologo Marshall McLuhan, famoso per le sue interpretazioni sugli effetti
della comunicazione, “vedeva nell’era dei grandi media elettronici un’era della
comunicazione tattile. In questo processo, si è infatti più vicini all’universo tattile che a
quello visuale, dove la distanziazione è maggiore, la riflessione sempre possibile”.
18
Questo
cambiamento non è riferito solo al cinema, ma si allarga alle altre arti e alla nostra
quotidianità. Proviamo a riflettere sul fatto che oggi i nostri corpi sono ibridi: la nostra carne,
15
G. Canova, L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Studi Bompiani Milano,
2009.
16
E. Ciuffoli, Texture. Manipolazioni corporee tra chirurgia e digitale, Meltemi editore srl, Roma 2007.
17
W. Benjamin, “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, trad. it. E. Filippini Einaudi Torino
1966 (1936) in P. Klossowski, (a cura di) Zeitschrift für Sozialforschung .
18
J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, tr. it. G. Mancuso Saggi universale Economia Feltrinelli
Milano 2006 (1976).
8
la nostra pelle sta diventando sempre di più un tutt’uno con il trucco, i tatuaggi, i piercing e
le protesi. Un artista che ha fatto dell’ibridazione la sua arte è Stelarc: “Il lavoro sulla Terza
mano inizia negli anni ottanta: una protesi artificiale viene applicata ad un braccio e
collegata con dei sensori che instaurano la sinapsi con le reti neurali, sulla base del principio
che un’unica natura elettrica governa il computer e l’uomo”.
19
L’ibridazione dilaga ormai in
ogni campo, per cui il cinema non ha fatto altro che riprenderla ed attualizzarla. Possiamo
affermare che oggi la combinazione di corpo e digitale è sempre più stringente. Nei film di
Cronenberg vediamo questa commistione: si pensi a Videodrome (1983), dove è forte
l’unione di uomo e tecnologia o, ancora, a La mosca (1986), in cui si assiste a delle
mutazioni compiute dalla pelle. La riflessione dominante di questi film è il corpo umano e
principalmente la sua corruzione.
Con l’avvento della computer grafica nasce il desiderio di creare e progettare, per portare
quel verosimile, ancora distaccato dalla realtà, ad una concezione sempre più realistica.
L’immagine di sintesi non può essere compresa dall’immaginazione nella sua unità poiché
essendo il suo molteplice tendenzialmente infinito, viene colto solo parzialmente con la
consapevolezza che esso si estende ancora oltre ciò che viene attualmente appreso:
l’immaginazione cioè apprende l’immagine sintetica ma non la comprende per la
tendenziale infinità della sua assenza.
20
Vogliamo adesso analizzare Cool World (R. Bakshi 1992). Il film è caratterizzato dalla
presenza, entro la stessa pellicola, di attori reali e cartoon. La verosimiglianza si realizza
dall’interazione di questi due mondi contrapposti. Crea particolare attenzione la presenza
dell’attrice Kim Basinger che fa dapprima irruzione come cartoon e, successivamente, viene
trasformata in essere umano. Nella sua prima apparizione la precisione dei lineamenti la
rendono riconoscibile senza molta fatica, causando uno strano effetto allo spettatore che si
trova in uno stato di confusione. La resa, il colore dell’incarnato e la sua forma longilinea
sono così dettagliati e precisi da sembrare incredibilmente verosimili.
Vi è ancora incarnato verosimile in quei film, dove sono presenti tecniche innovative che
prevedono l’utilizzo di motion capture e animatronic, che permettono sconvolgenti
lavorazioni. La tecnica della motion capture rappresenta una vera rivoluzione nel mondo
19
R. Tomasino, I cavalieri del caos. Perfomance dello spazio e del corpo nell’era del Ground Zero, L’Epos
Palermo 2004.
20
G. Canova, cit. p. 30.
9
della computer grafica, poiché permette di usare l’animazione di un corpo umano,
estraendone solo il movimento, cosicché si possa applicare su di esso un modello digitale.
21
Questo procedimento, ovviamente, è sconvolgente, se viene applicato a personaggi non
esistenti nella realtà, che, in questo modo, appaiono a chiunque li guardi incredibilmente
verosimili. La motion capture consiste nel filmare un mimo, munito di sensori sulle
articolazioni; il computer registra solo lo spostamento dei sensori, e, quindi, il movimento
d’insieme.
22
Tra gli innumerevoli film che utilizzano questa tecnica c’è il recente Avatar (J.
Cameron 2009). Il film è caratterizzato dalla presenza della popolazione dei Na’vi, che si
differenziano dagli umani per le loro dimensioni e il colore della pelle. Gli uomini
vorrebbero sfruttare le risorse del pianeta Pandora, ma a causa dell’aria tossica decidono di
creare degli avatar, (corpi non umani, dalle sembianze simili a quelle dei Na’vi ,controllati
dalla mente di chi li usa). Possiamo notare, dunque, la commistione di corpi ibridi con una
coscienza umana: realtà e finzione si confondono ancora una volta, facendo sì che gli avatar
appaiano reali. Nel suo Capolavoro Sconosciuto, Balzac afferma che: “la causa finale della
pittura è un andare oltre la pratica della pittura”.
23
Ebbene, il film sembra sorpassare le
classiche rappresentazioni dell’alterità, di ciò che è diverso dal conosciuto. Gli avatar
prendono vita e diventano, nella loro diversità, simili all’uomo. Il regista, per quanto
riguarda la grafica, voleva creare qualcosa di innovativo, così nel dicembre del 2006 in
un’intervista dichiara:
Voglio creare un nuovo tipo di grafica virtuale aiutandomi con l'animazione del motion
capture. Con il mio "Reality Camera System", il digitale sembra reale e viceversa.
24
Questa frase integra e allarga il nostro discorso. Il regista utilizza la suddetta tecnica da
applicare a dei modelli interamente digitali, facendogli compiere dei movimenti umani. Per
l’appunto, i protagonisti, creati interamente al computer, sono la popolazione indigena dei
Na’vi. Nell’osservarli, pur essendo consapevoli di non averli mai visti nella nostra realtà, la
loro verosimiglianza ci inganna a tal punto da considerarli reali. E’ interessante notare come
in tutta la storia vi sia un continuo scambio fra due mondi opposti, i Na’vi, che vivono in
contatto con la natura incontaminata, e gli umani, il cui scopo è quello di appropriarsi delle
21
A. Amaducci, Computergrafica. Mondi sintetici e realtà disegnate, Kaplan Torino 2010 .
22
R. Hamus- Vallée, Gli effetti speciali. Forma e ossessione del cinema, trad. it. E. Mugellini Lindau editore
Torino 2006 (2005).
23
G. Didi-Hubermann, cit., p.14.
24
S. Waxman, intervista a J. Cameron, 9 gennaio 2007, in
http:// it.wikipedia.org/wiki/Avatar_%28film_2009%29.
10
risorse che scarseggiano sulla Terra. Una citazione all’interno del film ci segnala
l’oscillazione continua tra percezione del mondo reale e finzione: “Adesso mi sembra questa
la realtà, e il mondo reale la fantasia”.
25
La frase è pronunciata dal protagonista Jake Sully,
un invalido ex marine, un reietto nella società, che diventa un vincente e un prescelto per i
Na’vi.
Se facciamo attenzione alle scene iniziali in cui viene rappresentata la sfrenata corsa di Jake,
alle prese con il suo nuovo avatar, ci accorgiamo che un personaggio creato in digitale
compie una corsa davvero realistica. La pelle degli avatar, tuttavia, non reagisce come quella
umana: corrono ma non sudano, mentre il sangue non fuoriesce dalle loro ferite. Il colore
distoglie dalla realtà, sembra allontanarci dalle regole del colorare, importanti per certi
pittori, in cui la resa di un volto è inscindibilmente legata al colore.
26
Qui sembra che questo
non ci sia, perché i corpi dei Na’vi sembrano tutti bluastri. Ciò che li rende verosimili è in
realtà il volto, che è insito di espressioni. Ad esempio, sul viso dell’avatar utilizzato dalla
dottoressa Grace Augustine, possiamo riconoscere le vere espressioni dell’attrice che l’ha
interpretata, Sigourney Weaver (figg.1,2). Il movimento è così reale, perché è una
trasposizione di quello della attrice vera, sicché non possiamo rintracciare nessuna differenza
rispetto a quelli umani. Ad esempio, nella fig.3 i Na’vi cercano di guarire la dottoressa
Grace. Le posizioni dei loro corpi nello spazio sono estremamente simili a quelle umane,
così come le espressioni facciali, che esprimono concentrazione per Eywa, ed estrema
preoccupazione per Jack. La verosimiglianza è sconvolgente, tanto più se riflettiamo sul fatto
che tutto ciò era impensabile fino a qualche decennio fa.
Negli ultimi due decenni le possibilità del digitale sono state caratterizzate da uno sviluppo
smisurato. Non è la creazione stessa ma il processo ad aver rivoluzionato il modo in cui i
professionisti svolgono il loro lavoro.
27
La straordinaria verosimiglianza è dovuta anche all’utilizzo della perfomance capture.
Questa tecnica, rispetto alla motion capture, permette una verosimiglianza ancora più
intensa. I personaggi acquistano sia un movimento reale, ma anche l’emozione e l’intenzione
dei protagonisti. Gli attori si trovano a recitare in contesti particolari, con figure non
realistiche, che non vedono, ma che successivamente, attraverso il computer, saranno i
25
Battuta tratta dal film Avatar 2009.
26
G. Didi-Hubermann, cit., p.19.
27
J. Wiedemann, Digital beauties. 2D and 3D CG digital models, trad. it. S. Nerini Taschen Editore 2004.