del Thatcherismo. Tale rabbia è da mettere in relazione con il frequente ricorso,
da parte di questi autori, ad immagini e scene di grande violenza: fu proprio la
violenza di uno di questi testi, Blasted (1995) di Sarah Kane, e lo scandalo
giornalistico che ne seguì, ad imporre all’attenzione di critica e pubblico la
nuova direzione che il teatro inglese stava prendendo, elaborando un
linguaggio in antitesi con quello della generazione precedente. Nonostante
fosse evidente nei nuovi autori l’intento di denuncia sociale, esso non si
identificava più con l’impegno politico di partito che aveva caratterizzato il
teatro inglese degli anni Sessanta e Settanta. Il presente studio si propone di
dimostrare che anche il teatro di questi autori può essere considerato "politico",
seppure in senso diverso rispetto alla tradizione, adeguato al mutare della
realtà socio-culturale di questi anni.
L'intento polemico nei confronti della società è uno dei tratti distintivi
costanti nella storia del teatro inglese a partire dal secondo dopoguerra. La
“rinascita” del teatro inglese avvenuta nel 1956 con Look Back in Anger di John
Osborne, si qualificò soprattutto nei termini di un’apertura della nuova
drammaturgia a questioni di rilevanza nazionale e sociale, come la perdita del
prestigio internazionale della Gran Bretagna successiva alla fine dell’Impero, la
crisi di Suez, la delusione per il mancato rinnovamento sociale promesso dal
governo laburista eletto nel 1945. Nel capitolo I del presente studio vengono
presi in esame alcuni aspetti di questo teatro, attraverso l’analisi dei suoi autori
più rappresentativi. L’arco di tempo coperto dal capitolo va dal 1956 al 1979,
passando attraverso la data importante del 1968, la quale, non solo in Gran
Bretagna, e non solo nell’ambito teatrale, costituì una sorta di spartiacque. A
partire dal 1968 infatti si assistette nel teatro inglese all’emergere di una nuova
generazione di autori, fortemente politicizzati, per i quali il teatro non aveva
più solamente la funzione di denunciare gli aspetti antiquati ed ingiusti della
società, ma quella di promuovere una trasformazione del paese in senso
socialista. Per tutti gli anni Settanta si avvertì nell’ambiente intellettuale un
senso diffuso di rivoluzione possibile. Si ebbe così il passaggio da un teatro di
denuncia sociale ad un teatro di “impegno socialista”
1
. Alcuni tra i maggiori
autori della scena inglese contemporanea debuttarono proprio in questi anni, e
nonostante la diversità di stili e temi, avevano in comune l'adesione
all’ideologia socialista e l’idea di una palingenesi culturale e sociale
concretamente realizzabile: David Hare, David Edgar, Howard Brenton, Trevor
Griffiths, John McGrath, Caryl Churchill, solo per citarne alcuni. Che si trattasse
di una trasformazione a livello culturale e non delle convinzioni di un singolo
movimento, è dimostrato dal fatto che anche alcuni tra gli autori già affermati
della generazione del 1956, come Edward Bond e John Arden, a partire dal 1968
si politicizzano radicalmente.
La fiducia nella possibilità concreta di un’alternativa socialista in Gran
Bretagna, subì una dura sconfitta nel 1979, con la vittoria elettorale del Partito
Conservatore guidato da Margaret Thatcher. Benché per tutto il periodo del
dopoguerra i governi laburisti si fossero succeduti con regolarità a quelli
conservatori, il governo Thatcher segnò una svolta radicale nella vita politica e
sociale della Gran Bretagna. Nel capitolo II vengono descritti i caratteri generali
del Thatcherismo (termine coniato da Stuart Hall per indicare l’insieme di
convinzioni e valori che costituirono il progetto politico di Margaret Thatcher),
e le sue conseguenze sul teatro inglese. Attraverso una politica di forti tagli alla
spesa sociale, il governo Thatcher liberò capitale a sufficienza per rilanciare
l’economia del paese, che nel 1979, all’epoca della sua prima elezione, versava
in condizioni di forte crisi. La Thatcher effettuò l’ormai necessaria riconversione
dell’economia britannica dall’industria manifatturiera a quella dei servizi,
dando anche grosso impulso al mercato finanziario.
La differenza principale tra il governo Thatcher e i precedenti governi
conservatori, fu l’abbandono della politica del consenso, che per tutto il
dopoguerra aveva garantito tra i due partiti maggiori - nonostante le differenze
ideologiche - un accordo di massima su alcuni principi di giustizia sociale, come
l’autonomia del Welfare State. Nei suoi undici anni di governo ininterrotto (fino
al 1990), Margaret Thatcher si adoperò al fine di creare un nuovo consenso nel
paese, fondato sui principi dell’individualismo e del liberismo economico. Fin
dall’inizio il Thatcherismo si presenta non solo come progetto politico, ma come
progetto morale e ideologico. Quello che ottenne fu la diffusione a livello
nazionale, sia nelle istituzioni che tra i cittadini, della enterprise culture, o cultura
dell’impresa. Il Thatcherismo promosse un recupero dei valori "vittoriani" della
famiglia, della legge e dell’ordine, e diffuse il mito del ritorno della Gran
Bretagna alla sua passata grandezza. I costi sociali di questo cambiamento
culturale furono ingenti: crebbe la disoccupazione, vennero ostacolate le
rivendicazioni sindacali, e indebolito il Welfare State, per effetto dei numerosi
tagli governativi. L’impulso dato all’individualismo competitivo si tradusse
nella perdita del senso di collettività, coerente con la convinzione di Margaret
Thatcher che “la società non esiste. Esistono individui, uomini e donne, e
famiglie”
2
.
Nel settore specifico dell’attività teatrale, il governo Thatcher ridusse i
finanziamenti all’Arts Council, - l’organismo statale preposto al
sovvenzionamento delle arti e della cultura, attivo fin dall’immediato
dopoguerra -, nella convinzione che la cultura non fosse un bene autonomo,
isolato dal resto della società, che quindi lo Stato dovesse preoccuparsi di
salvaguardare e mantenere: la cultura dal governo è considerata alla stregua di
un qualsiasi altro prodotto di mercato, e quindi per sopravvivere deve
sottostare alle leggi del mercato. Anche nel settore teatrale venne quindi dato
impulso all’iniziativa individuale, incoraggiando l’auto-finanziamento e la
ricerca di sponsorizzazioni private. La sponsorizzazione privata comportò
spesso forme sottili di censura, che pesarono in modo particolare
sull’autonomia del teatro politico: come ha fatto notare John Bull, è difficile che
una multinazionale, ad esempio, decida di finanziare la produzione di un
dramma apertamente critico nei confronti del capitalismo delle multinazionali
3
.
In ambito teatrale ciò si tradusse, nel corso degli anni Ottanta, nel grosso
impulso dato al teatro commerciale: musicals, commedie brillanti (legate ai nomi
drammaturghi di successo come Tom Stoppard, Alan Ayckbourn, Alan
Bennet), revivals di drammi degli anni Trenta e Quaranta (Priestley, Rattigan e
Coward soprattutto). A partire dal 1956, nel mondo teatrale londinese si era
venuta a creare una polarizzazione che vedeva la produzione di teatro
commerciale concentrarsi nei teatri del West End, finanziati solo dall’incasso
dei biglietti venduti; mentre ai teatri sovvenzionati dall’Arts Council (Royal
Court, Royal Shakespeare Company, National Theatre per citare i maggiori) era
riservata la produzione di teatro “serio”. Nel corso degli anni Settanta
quest’ultimo spazio era stato occupato prevalentemente dal lavoro degli autori
politici a cui abbiamo accennato. Negli anni Ottanta i tagli governativi del
governo Thatcher costrinsero i teatri sovvenzionati ad adottare la stessa politica
del teatro commerciale per fare fronte alla necessità di alti guadagni. Un’altra
conseguenza negativa di tale politica fu l‘assenza di quel ricambio
generazionale di nuovi autori drammatici, che per tutto il dopoguerra aveva
contraddistinto la vitalità del teatro inglese. Basso fu il numero di autori che
debuttarono negli anni Ottanta, rispetto al decennio precedente - anche se
spesso di buon livello, come Martin Crimp e Sarah Daniels. La ragione è da
ricercarsi nel fatto che i nuovi principi monetaristici imposti al teatro
sovvenzionato, inibivano la sperimentazione e la disponibilità al rischio
commerciale sempre presenti nella proposta di autori giovani, non conosciuti.
Gli anni Ottanta videro anche la crisi degli autori politici della generazione
del 1968. La retorica socialista della rivoluzione ormai alle porte si rivelava in
quegli anni, in pieno regime reazionario, quanto mai infondata. Sorse per questi
autori la necessità di una ridefinizione del proprio linguaggio teatrale e della
propria funzione all’interno di una società in rapida evoluzione, se non
dell’ideologia socialista alla quale rimanevano legati. Si fecero frequenti in
questi anni i dibattiti teorici sulla “crisi del teatro inglese”. Per “crisi” si
intendeva l’assenza di una risposta adeguata alla reazionarietà del governo
Thatcher da parte della “grande tradizione radicale” del teatro inglese
(l’espressione è di Howard Brenton). Da parte di alcuni autori si assistette al
tentativo di compromesso tra le istanze di denuncia politica e le esigenze
spettacolari del teatro commerciale. I risultati di questa tendenza furono
drammi come Pravda (1985) di Howard Brenton e David Hare, e Serious Money
(1987) di Caryl Churchill. Entrambi i testi ricevettero grossi allestimenti e
contavano un cast di più di venti attori. Entrambi ebbero un notevole successo
commerciale. Sono due satire che prendono di mira due settori professionali
che per prosperità e corruzione raggiunte sotto il governo Thatcher possono
considerarsi rappresentativi del periodo. Pravda prende di mira il mondo del
giornalismo e la politica thatcheriana che, in nome dei principi del liberismo,
favoriva la concentrazione dei mezzi di informazione nelle mani di pochi
detentori di capitale. Serious Money descrive l’ambiente dell’alta finanza, che
ricevette grande impulso negli anni Ottanta in seguito al Big Bang dei mercati
finanziari nel 1986. Nonostante, dunque, almeno nelle intenzioni i due testi
rientrino nella tradizione politica radicale, la critica rimase generalmente
perplessa sulla loro effettiva incisività. Più che settori specifici della società
thatcheriana, essi attaccano il clima di avidità e spregiudicatezza dell’Inghilterra
degli anni Ottanta. E’ una critica “morale”, piuttosto che “politica”, con la
quale, come fu osservato, possono trovarsi d’accordo le stesse classi prese di
mira. Non a caso si è guardato con sospetto al grande successo che Serious
Money riscosse proprio tra i nuovi yuppies dell’alta finanza londinese, che
intesero il dramma come una sorta di “celebrazione” del loro nuovo status
sociale appena raggiunto.
La crisi del teatro politico socialista venne aggravata dall’episodio storico del
crollo dei regimi socialisti nell’Europa dell’Est a partire dal 1989, che sancì la
scomparsa dell’alternativa socialista al modello economico capitalista, il quale, a
partire dagli anni Novanta si avviò ad una rapida diffusione a livello globale,
non più limitata ai paesi occidentali.
La “fine” storica dell’ideologia socialista non ha fatto che aggravare la crisi
del teatro che ad essa faceva riferimento. Non è un caso, che tra gli esempi più
convincenti di teatro politico della fine degli anni Ottanta, figurino i brevi
drammi scritti da Harold Pinter a partire dal 1984: One for the Road (1984),
Mountain Language (1988) e Party Time (1990). Pinter è sempre rimasto estraneo
all’identificazione con uno schieramento ideologico, sia nella vita privata, che
nelle sue opere. La svolta degli anni Ottanta verso tematiche apertamente
politiche - la tortura di Stato in medio oriente: ma, come vedremo nel paragrafo
su Pinter, tali contenuti hanno una valenza fortemente metaforica - non si
identifica con nessuna ideologia: al contrario, la critica si rivolge proprio
all’utilizzo dell’ideologia da parte del Potere allo scopo di giustificare la
persecuzione degli individui, e mantenere lo status quo.
Il rifiuto di allineamento con un’ideologia politica sarà un atteggiamento
condiviso anche dai giovani autori inglesi degli anni Novanta, di cui si parla nei
capitoli III, IV e V. Non a caso, di tutti i drammaturghi della tradizione teatrale
inglese recente, Pinter è uno dei pochi di cui essi apertamente riconoscano
l’influenza. Nei confronti degli autori politici degli anni Sessanta/Settanta, al
contrario, prevale un netto rifiuto. Paradossalmente, è proprio tale rifiuto
dell’ideologia uno degli elementi che qualificano questi autori come “politici”.
Un'ideologia ha lo scopo di approvare e mostrare come naturale una forma
particolare di organizzazione sociale. Una delle sue strategie è quella di fornire
un’interpretazione coerente e sistematica della realtà, così da escludere le
interpretazioni discordanti dal modello “ufficiale”. Nel corso degli anni
Settanta/Ottanta, gli autori socialisti misero in atto nelle loro opere una
sistematica demistificazione dell’ideologia borghese, mettendone in evidenza la
funzione di legittimazione del sistema capitalistico. Tuttavia, la critica
all’ideologia dominante era condotta dal punto di vista di un’ideologia opposta
ma altrettanto “mistificatrice”, come il socialismo. L’incapacità di comprendere
questa contraddizione fu una delle cause della crisi in cui precipitò il teatro
politico negli anni Ottanta. Il suo linguaggio, legato alla dialettica marxista della
divisione della società in classi, lo rendeva inadatto a cogliere lo spirito della
società molto più complessa e stratificata del capitalismo post-industriale. I
nuovi autori degli anni Novanta hanno rivelato di possedere questo linguaggio.
In essi sono presenti la rabbia e il disgusto per i valori monetaristici
dell’ideologia del Thatcherismo. Ma, a differenza degli autori politici della
generazione precedente, è assente la fiducia nella possibilità di un’alternativa
nel socialismo. Ciò li porta, nel teatro, ad un rancore impotente che si ferma alla
constatazione del degrado umano e morale del mondo contemporaneo, privo
però di soluzione, o del senso di un cambiamento possibile. Il loro
atteggiamento è volto più al cinismo e al nichilismo che alla protesta, e ha fatto
spesso parlare i critici di “ambiguità” nei confronti di ciò che viene messo sotto
accusa. L’assenza di soluzione non deve essere vista come un limite, ma
piuttosto come uno dei temi principali della loro critica. Ciò che questi autori
polemicamente mettono in scena è la fine delle ideologie e l’assenza di un
modello positivo da contrapporre alla sostituzione dei valori umani con quelli
monetaristici nella moderna società post-industriale.
La visione della contemporaneità presente nel teatro di questi autori, così
come l’idea della fine dell’ideologia, deve molto alla diffusione a livello di
cultura di massa delle teorie sulla condizione postmoderna formulate in ambito
filosofico a partire dagli anni Settanta. Nel saggio La Condizione Postmoderna
(1979)
4
, Jean-François Lyotard denunciò la natura arbitraria dei modelli
omnicomprensivi di interpretazione della realtà, quelle che chiama grand-
narratives o grandi racconti. In questa definizione rientrano tutti i sistemi
ideologici con pretese di universalità, come la Religione, l’idea di Progresso, e
anche il Marxismo. Tali sistemi sono arbitrari in quanto riducono l’eterogeneità
del reale a modelli forzati ma coerenti. Il tema dell’irriducibilità della realtà ad
un modello teorico è centrale nel dibattito postmoderno: Lyotard auspica la
distruzione delle grand-narratives e il recupero del pluralismo culturale
attraverso l’emergere di tante micro-narratives specialistiche prive di pretese
all’universalità. Lyotard vede in questo processo la possibilità di liberazione dai
riduzionismi che nel passato avevano la funzione di mantenimento dell’ordine
culturale. Altri filosofi sono più pessimisti, come Jean Baudrillard, che di questa
situazione sottolinea l’aspetto di perdita di direzione e la frammentazione non
solo della cultura ma anche dell’identità individuale. Baudrillard mette in luce
altri aspetti negativi del postmodernismo, come il ruolo alienante dei media, che
sottopongono l’individuo contemporaneo a un flusso incessante di immagini: se
l’unica esperienza della realtà avviene attraverso la mediazione di una sua
“simulazione” virtuale, l'individuo risulta circondato da una serie di “segni”
privi di referente reale
5
.
Queste e altre teorie verranno esposte nel corso della ricerca. Una
comprensione adeguata del teatro inglese degli anni Novanta non può
prescindere dalla considerazione delle teorie sul postmodernismo, che
compaiono in misura maggiore o minore in tutti i testi affrontati. Faust (1997) di
Mark Ravenhill, ha addirittura per protagonista un filosofo francese, teorico del
postmoderno, che allude chiaramente alla figura e alle teorie di Baudrillard.
Graham Holderness ha affermato che, in termini postmoderni, il radicalismo
politico di una attività culturale dipende dalla misura in cui essa resiste
all’allineamento con le grand-narratives, e rivela gli strumenti attraverso cui
l'ideologia agisce nella società
6
. E aggiunge che la “politicità” di una forma
culturale non si deve esplicare tanto sul piano dei contenuti tematici quanto sul
piano della forma, e della funzione:
(...) the political character of a cultural form should be sought only in its
politics of form - estranging, alienating, self-reflexive - and its politics of
function - de-stabilising the conventional relation between spectator and
performance, disrupting traditional expectations of narrative and aesthetic
coherence, de-familiarising and interrogating the oppressive power of
naturalised cultural forms.
7
In questo senso il nuovo teatro inglese degli anni Novanta può considerarsi
politico, anche se in maniera diversa rispetto a come veniva inteso dagli autori
socialisti della generazione precedente. La violenza scenica spesso presente in
questi testi ha la funzione di problematizzare il tradizionale rapporto con il
pubblico. L’abbandono della struttura narrativa è un altro tratto caratteristico di
questo teatro, che si distingue per una ricerca volta nella direzione di una
maggiore libertà formale del testo drammatico, che adotta di volta in volta
soluzioni strutturali diverse: è il caso di testi come Attempts on Her Life (1997) di
Martin Crimp, Cleansed (1998) e Crave (1998) di Sarah Kane, Faust (1997) di
Mark Ravenhill.
La sfiducia nella politica attiva, e più in generale nella dimensione pubblica
dell’individuo, ha come conseguenza che la critica ai valori della società
contemporanea venga svolta di preferenza nell’analisi dei suoi effetti sul piano
privato. Gli autori degli anni Novanta abbandonano i contenuti apertamente
politici. Temi ricorrenti sono la prevaricazione, lo sfruttamento - soprattutto
sessuale -, e la scomparsa della dimensione affettiva nei rapporti tra le persone.
Nel capitolo III vengono analizzati alcuni testi di quattro tra gli autori più
significativi del teatro di questo decennio: Philip Ridley, Martin Crimp, Irvine
Welsh e David Greig. Gli ultimi due sono scozzesi, e meritano un discorso a
parte: la Scozia ha vissuto negli anni Novanta una rinascita non solo culturale
ma anche politica, e l'atteggiamento degli autori nei confronti del teatro degli
autori socialisti non è di rifiuto, ma cerca una riconciliazione
8
. L'inclusione di
Greig e Welsh in questo studio nasce dal desiderio di mostrare l’esempio di un
teatro degli anni Novanta che, seppure con temi e linguaggio rinnovati, si pone
in una linea di continuità con la tradizione del teatro politico degli anni
Settanta.
I capitoli IV e V sono dedicati all’analisi della produzione dei due
drammaturghi maggiori tra quelli emersi in questo decennio: Sarah Kane e
Mark Ravenhill. Sono autori molto diversi tra loro. Dopo l’atto d’accusa contro
la guerra di Blasted (1995), Sarah Kane trasferisce più decisamente la propria
ricerca verso terreni intimistici e privati: i suoi temi più ricorrenti sono l’aridità
emotiva e il nichilismo morale in cui si rifugia l’individuo per difendersi da una
collettività ostile e violenta. James MacDonald, regista di Blasted, ha detto di
Sarah Kane che la sua unicità come drammaturga risiede nella capacità di
parlare del politico senza mai uscire dalla sfera privata.
Mark Ravenhill dimostra fin dall’esordio di Shopping and Fucking (1996), una
maggiore attenzione per l’analisi della società consumistica nei suoi aspetti più
sordidi e corrotti, ma il tono da commedia leggera e ironica che utilizza nella
sua denuncia gli hanno spesso guadagnato da parte dei critici l’accusa di
ambiguità e sostanziale complicità con il bersaglio della sua satira. La vocazione
sociologica di Ravenhill si rivela soprattutto in Handbag (1998), che affronta il
tema della famiglia alternativa nell’epoca dell’inseminazione artificiale,
all’interno della cornice giocosa di una riscrittura di The Importance of Being
Earnest di Oscar Wilde.
Una caratteristica comune di questi autori è il recupero frequente di una
vasta tradizione teatrale e letteraria, nella forma di riscritture
9
, citazioni
intertestuali (vedi Crave di Sarah Kane), riprese stilistiche. Prendendo le mosse
dalle teorie dell’influenza interpoetica elaborate da Harold Bloom
10
, vedremo
come tale recupero di un passato così vario equivalga ad una reazione di rifiuto
nei confronti del teatro politico della generazione precedente, che viene negato
come modello di influenza. Lo stesso atteggiamento verso il passato non ha più
il carattere “demistificatorio” proprio degli autori degli anni Settanta, ma
diventa la ricerca positiva di un linguaggio con cui dare voce alla modernità.
Alla formulazione di tale linguaggio ha contribuito in gran parte l'apertura di
questo teatro ad elementi della cultura giovanile di massa. Lo stile appare
spesso influenzato dal cinema, dalla musica rock e dalle arti visive
contemporanee, oltre che dalla tradizione letteraria. Ciò è dovuto ad un altro
aspetto della postmodernità: la scomparsa del confine tra cultura "alta" e
"bassa"
11
. L'utilizzo intelligente che gli autori hanno saputo fare di entrambi
questi stimoli, ha avuto l'importante conseguenza di riavvicinare al teatro un
pubblico giovane, che nel teatro ha ricominciato a vedere una forma di cultura
che parli loro di una realtà in cui riescono a riconoscersi.
Non è dunque nell'adesione ad una ideologia, ma nella capacità di affrontare
le problematiche della società contemporanea con un linguaggio rinnovato e
vivo, che sa rivolgersi ad un pubblico nuovo, che questo teatro torna a svolgere
una funzione "politica". I mezzi attraverso cui ottiene ciò - partecipazione al
dibattito teorico sulla contemporaneità, apertura ad elementi della cultura di
massa fino ad ora esclusi dalla rappresentazione teatrale, elaborazione di un
nuovo rapporto con la passata tradizione letteraria - costituiscono il contributo
più importante che questi autori hanno dato (e stanno dando tuttora) alla
ridefinizione del ruolo del teatro come coscienza critica della società.
L'aggettivo "inglese" viene spesso usato come sinonimo di "britannico". In questa ricerca mi sono
concentrato sulla produzione teatrale propriamente inglese, ma affronto anche l'opera di due autori
scozzesi, Irvine Welsh e David Greig, dal momento che un fenomeno analogo di rinascita teatrale ha
interessato in questo decennio anche la Scozia.
1
Vedi Catherine Itzin, Stages in the Revolution, London, Methuen, 1979.
2
Margaret Thatcher citata in Robert Hewison (1995) Culture and Consensus. England, Art and Politics
since 1945, Methuen, London, p. 294.
3
Vedi John Bull (1994) Stage Right: Crisis and Recovery in British Contemporary Mainstream
Theatre, Mac Millian, London, p. 18.
4
Vedi Connor, Steven (1989) Postmodernist Culture. An Introduction to Theories of the
Contemporary, Basil Blackwell, Cambridge, p. 27.
5
Baudrillard, Jean (1996) Il Delitto Perfetto. La Televisione ha Ucciso la Realtà?, Raffaello Cortina
Editore, Milano; tit. orig. (1995) Le Crime Parfait, Editions Galilée, Paris.
6
Vedi Graham Holderness, The Politics of Theatre and Drama, (1992), London, MacMillian.
7
“Il carattere politico di una forma culturale dovrebbe essere ricercato solo nella
politica della sua forma - straniente, alienante, auto-riflessiva - e della sua funzione -
destabilizzare il rapporto convenzionale tra pubblico e rappresentazione, tradire le
tradizionali aspettative di coerenza estetica e narrativa, mettere in questione e rendere
meno familiare il potere oppressivo delle forme culturali naturalizzate.”, vedi
Holderness, op. cit., p. 13.
8
Stevenson, Randall, "Perfect Days? Scottish Theatre at the Millennium", unpublished, 1999.
9
Phaedra’s Love (1996) di Sarah Kane è una riscrittura del mito di Fedra; Faust
(1997) di Mark Ravenhill riprende il mito di Faust; mentre Handbag (1998), sempre di
Ravenhill, alterna come intertesto una trama originale con un’estensione di The
Importance of Being Earnest di Oscar Wilde.
10
Vedi Harold Bloom, The Anxiety of Influence (1973), Oxford University Press.
11
Jameson, Fredric (1984) Postmodernism. Or, the Cultural Logic of Late Capitalism, New Left
Review, p. 10.