3
cultura cinematografica sviluppata e così appassionatamente coltivata nel
corso degli anni.
RINGRAZIAMENTI
Nel corso della stesura mi sono accorto di quanto fosse importante e, a
volte, necessario il contributo di molte persone nella realizzazione di un
progetto così impegnativo e importante. Anche grazie al loro aiuto è stato
possibile realizzare il presente lavoro.
Il mio primo doveroso ringraziamento va, innanzi tutto, alla Professoressa
Claudia Piccardo e al Professor Franco Prono che pazientemente e
concretamente hanno stimolato lo sviluppo di un lavoro interdisciplinare di
non facile realizzazione.
Desidero inoltre ricordare il valido contributo di Barbara Vecchio, Ligeia
Studer, Maurizio Ferrari, Michel Paganini e Sabrina Porfido che, con la loro
disponibilità ed affettuosa amicizia, hanno permesso di alleggerire e
agevolare il difficile lavoro di reperimento e traduzione di molto materiale
bibliografico.
Infine colgo l’occasione per ringraziare il Dottor Vittorio Pongolini, resosi
disponibile a rilasciare al sottoscritto un’intervista nella duplice veste di
appassionato cultore dello sport canoistico e di spettatore cinematografico.
4
INTRODUZIONE
Il 1895 è una data importante per il cinema così come per la Psicologia. In
quell’anno Freud pubblica insieme a Breuer gli Studi sull’isteria, mentre i
fratelli Lumière fanno la loro prima proiezione pubblica a Parigi. C’è, in
sostanza, una sorta di condizione gemellare tra questi due fenomeni della
nostra epoca e non è certamente un caso che i luoghi di nascita siano le
capitali culturali dell'epoca: Vienna e Parigi. E non va dimenticata la lunga
permanenza di Freud a Parigi (13 ottobre 1885 - 2 febbraio 1886), dove, con
una borsa di studio, ha potuto seguire le celebri lezioni alla Salpetrière del
grande Charcot, per completare il quadro di questo gemellaggio
1
.
Il fatto di essere gemelli non ha impedito però a queste due nuove forme
culturali e mentali di ignorarsi del tutto per molto tempo. Questa
coincidenza è stata analizzata solo dopo molti anni, finendo poi per essere
enfatizzata solo nel suo centenario, come se fosse una ricercatezza
intellettuale volta a rendere più interessante e attraente un evento tipico della
società mass mediatica. Tralasciando questo aspetto, i cui risvolti toccano
solo marginalmente il nostro tema, è interessante, in ogni caso, notare come
alcuni dei più noti esponenti della psicanalisi sia americana sia italiana
hanno ritenuto opportuno riflettere in maniera critica sulle potenzialità
espressive del cinema e sui suoi aspetti clinici. Come noto Musatti, da una
prospettiva teorica psicanalitica, ha compreso le evidenti analogie tra la
produzione onirica e le immagini in movimento cui assiste uno spettatore di
un’opera cinematografica. Ha constatato, in particolare, come il cinema,
molto più del teatro, riesce ricreare le sensazioni e le impressioni del sogno:
“Quando ci si domanda per quale motivo il cinematografo ha una così
grande presa sul pubblico, perché esercita un’influenza molto maggiore che
non il teatro o qualsiasi altra forma di spettacolo, la risposta non può essere
trovata che in questa possibilità che il cinematografo ha di trasportare
effettivamente lo spettatore in un’altra realtà. Gli spettacoli cinematografici
1
ERNEST JONES, (1953), Vita e opere di Freud, Vol. I, pagg 258-262, Garzanti, Milano,
1977.
5
debbono essere tenuti al buio per motivi tecnici: le immagini sullo schermo
sono, infatti, meglio visibili al buio che non in ambiente illuminato”
2
.
Come si può notare, il parallelismo fra sogno e spettacolo cinematografico è
operato attraverso le notazioni riguardanti l’aspetto tecnico della fruizione
cinematografica. Tuttavia, a nostro parere, sarebbe oltremodo riduttivo
estinguere l’argomentazione in questi termini. Il buio della sala, infatti, è
uno dei molti aspetti coinvolgenti del cinema. Come non notare, per
esempio, la ricorrente visione in soggettiva dei sogni, la sensazione cioè di
vedere gli avvenimenti della scena onirica in prima persona. Queste
caratteristiche sono un’esclusiva del cinema. Nessun’altra forma d’arte,
neppure il teatro, è capace di trasportare lo spettatore, in senso sia percettivo
sia psicologico, all’interno della scena rappresentata.
Inoltre, a differenza del teatro, il cinema possiede dei mezzi espressivi
incomparabilmente più coinvolgenti per lo spettatore. Sergej M. Ejzenstejn,
grande regista sovietico e insuperato teorico del cinema, capì subito
l’enorme importanza emotiva del mezzo cinematografico. Secondo
Ejsenstejn il primo piano e il dettaglio, ad esempio, sono capaci di indurre lo
spettatore a penetrare ciò che succede sullo schermo. Senza approfondire
quanto verrà fatto in seguito, vorremmo qui anticipare valutazioni
riguardanti l’esclusività espressiva del cinema. A tal proposito ci sembra
condivisibile quello che Gianni Rondolino afferma in una sua recente
pubblicazione:
“Il luogo comune contro il quale bisogna battersi è quello che vede nella
parola il mezzo ideale per esprimere l’essere del personaggio, la
convinzione che solo il narratore letterario possa, attraverso la parola,
penetrare nei mondi interiori dei suoi esistenti e portare alla luce tutta la
complessità.[…] Del resto l’essere di un uomo non è fatto né di parole, né di
immagini. In entrambi i casi ci troviamo di fronte a un processo di
2
CESARE MUSATTI, Psicologia degli spettatori al cinema, “Quaderni di Ikon” n. 7, Milano,
1969, pagg. 10-11.
6
codificazione attraverso cui si rappresenta qualcosa che, nella sua natura
originaria, è altro da ciò che è utilizzato per rappresentarlo”
3
.
Il punto dal quale vorremmo partire sta proprio in quello che Rondolino dice
a proposito del luogo comune. Quasi tutti i tentativi di utilizzare il cinema
come mezzo attraverso il quale trattare argomenti riguardanti la psicologia
4
hanno sempre dimenticato una sua caratteristica fondamentale: le immagini
in movimento. Il cinema e i suoi film sono sempre analizzati, invece, da una
prospettiva meramente narrativa. La trama diventa l’attore protagonista e su
di essa si concentra l’attenzione degli autori. E’, invece, esperienza comune
del lettore di questi lavori il cercare di ricordare la scena descritta sulla
pagina. L’espressione dell’attore, una particolare luce o inquadratura, un
movimento di macchina ottenuto con un’apparecchiatura particolare
5
fanno
ricordare al lettore l’esperienza vissuta durante la visione del film. Ed è quel
ricordo che permette di proseguire la lettura. Il lato tecnico, così importante
nel cinema, non ha mai trovato un’adeguata trattazione. Questa lacuna ha,
inoltre, impedito di convogliare le conoscenze delle due discipline in un
unico contenitore epistemologico. Per sopperire a questa mancanza di
costruttiva comunicazione interdisciplinare, abbiamo ritenuto opportuno
permettere ai concetti e alle tematiche teoriche del cinema di svolgere una
preponderante funzione di supporto alla trattazione teorica degli argomenti
psicologici di questa tesi.
Attraverso lo studio di molte pubblicazioni, abbiamo avuto modo di
constatare come la psicologia sociale e la psicologia del lavoro sono sempre
3
GIANNI RONDOLINO, DARIO TOMASI, Manuale del film. Linguaggio Racconto Analisi,
UTET, Torino, 1995, pagg. 84-85.
4
Gli esempi a riguardo sono moltissimi e la maggior parte cerca di creare un dialogo
costruttivo tra Psicanalisi e cinema. Tuttavia l’analisi dei film si riduce sempre ad una
semplice analisi dei dialoghi o della trama svilendo quello che il mezzo cinematografico e
la sua grammatica sono capaci di esprimere. Nonostante sia spesso presente una nutrita e
puntigliosa bibliografia di argomento estetico, sembra si preferisca far parlare i personaggi,
senza dare al cinema dell’autore oggetto dell’analisi e al suo stile inconfondibile (fatto di
primi piani, movimenti di macchina, piani sequenza e montaggi ricercati) una consona
attenzione.
5
L’uso della steadycam (vedi Glossario presente in Appendice) fatto da Kubrick in Shining
(1980) costituisce un avanzamento del cinema verso un totale coinvolgimento dello
spettatore nella fruizione dell’arte cinematografica. Il movimento di macchina in avanti di
Garret Brown che riprende il triciclo di Danny nei corridoi dell’Overlook Hotel è stato
concepito dal regista per immergere lo spettatore nella narrazione, nel tentativo di
proiettarlo, in senso letterario e psicanalitico, fin dentro lo schermo.
7
state branche della psicologia capaci di recepire, senza pregiudizi,
innovazioni e ipotesi originali. A titolo esemplificativo possiamo, senza
timore di essere smentiti, citare le audaci congetture di Kurt Lewin capace
di utilizzare principi teorici e argomentazioni ricavate da quella branca della
geometria matematica, che va sotto il nome di topologia, per spiegare quello
che avviene in un gruppo, arrivando a coniare il concetto stesso di dinamica
di gruppo. Il filone antropologico ha avuto in psicologia del lavoro ampio
spazio e riconoscimenti sia in ambito accademico sia in ambito
organizzativo
6
. Elliot Jaques, esponente di spicco della socioanalisi
britannica, si è servito delle opere dell’arte mondiale, da Dante a Beethoven,
per trattare, da una prospettiva psicanalitica, argomenti di ampio respiro
come la crisi di mezza età, elaborando un’originale e funzionale teoria,
supportata da una corposa parentesi clinica
7
.
Ricordare questi precedenti, oltre ad avere una funzione rassicurante, di cui
non nascondiamo la portata, ci stimola a tentare una strada finora poco
battuta da coloro che hanno intuito le potenzialità metodologiche del
cinema. Appare evidente, ormai da tempo, una decisa spinta innovativa sia
nella psicologia del lavoro sia della formazione. Sono dunque discipline
ormai mature per permetterci di avanzare molte delle ipotesi presenti in
questo volume. Tuttavia sarebbe ingenuo, da parte nostra, non evidenziare i
limiti intrinseci di operazioni simili. Senza dubbio questa prospettiva
conoscitiva e metodologica è insolita per analisi di questa natura. Siamo,
tuttavia, convinti della necessità di tentare questo percorso per due motivi
sostanziali. Il primo è sostenuto dalla constatazione delle capacità intuitive
esclusive degli artisti. La loro sensibilità e la loro intuitività coinvolgono il
fruitore delle opere a diversi livelli. Sono, per loro natura, degli eccellenti
formatori e educatori. Lo sfruttamento di queste capacità, insite nelle loro
6
Il libro di CLAUDIA PICCARDO e ANGELO BENOZZO, Etnografia Organizzativa, Raffaello
Cortina Editore, Milano 1996, si propone esplicitamente lo scopo di rendere comunicanti
due discipline solo superficialmente inconciliabili come l’antropologia e lo studio delle
organizzazioni. In questa pubblicazione una solida preparazione antropologica e
sociologica costituiscono la premessa, la conditio sine qua non per affrontare argomenti
psicologici. Indicativo a riguardo la trattazione molto partecipe sulla scuola di Chicago con
l’ampia e particolareggiata esposizione di Street Corner Society di Whyte.
7
ELLIOT JAQUES, (1970), Lavoro, creatività e giustizia sociale, Boringhieri, Torino, 1978.
8
opere, rimane per noi una fonte importante di conoscenza. Il problema
relativo al linguaggio, caratteristico di ciascuna forma d’arte, è solubile
attraverso l’impiego degli strumenti ermeneutici offerti dall’estetica.
Sostanzialmente è questa la ragione principale della nostra scelta
metodologica. Evitare queste problematiche comporterebbe una sostanziale
rinuncia conoscitiva dello strumento e quindi, di conseguenza, una rinuncia
al suo stesso utilizzo.
Il secondo aspetto che ci preme sottolineare è legato all’opportunità offerta
dalla stesura di una tesi di laurea. Comunicare attraverso la scrittura le
proprie conoscenze, completate dai propri interessi intellettuali e culturali, è
esperienza di grande formazione personale, la cui rinuncia non solo è atto di
rinuncia intellettuale ma anche di incapacità di riflettere sulle proprie scelte
e sulle proprie esperienze personali. Un’opportunità la cui essenza risiede
nel rendere vivo e stimolante il lavoro di stesura, permettendo,
contemporaneamente, una creativa composizione piena, soprattutto, di
riflessioni personali.
Esplicitare queste nostre intenzioni consente, a nostro modo di vedere, di
comprendere pienamente le ragioni, non solo istituzionali, di questo lavoro.
Partendo da queste premesse analizzeremo in primo luogo lo stato dell’arte
sulle metodologie in auge nell’ambito della formazione. Saranno
privilegiate le pubblicazioni che, in ambito italiano e internazionale, hanno
dato maggior risalto all’arte in generale e al cinema in particolare quali
mezzi coadiuvanti il formatore. Compiremo poi un excursus storico sulle
correnti psicologiche che hanno trattato quegli aspetti che più da vicino
coinvolgono il presente lavoro. In particolare approfondiremo quegli autori
che, a nostro modo di vedere, più di altri hanno approfondito in maniera
sottile e illuminante le tematiche oggetto della trattazione.
Il gruppo cui un individuo appartiene è la base delle sue percezioni, del suo
comportamento e dei suoi sentimenti. Molti psicologi si sono occupati delle
caratteristiche salienti della vita mentale del singolo, dimenticando che
solamente il gruppo struttura il carattere dell’individuo.
Quest’interdipendenza è fondamentalmente inevitabile e al contempo
9
essenziale. Alcuni autori, seppur consapevoli di questo legame, hanno
parlato solo vagamente di influenza del gruppo sull’individuo. Altri hanno
invece enfatizzato le caratteristiche di dipendenza del singolo dal gruppo. A
nostro parere le intuizioni teoriche di Kurt Lewin e di Wilfred Bion sono
state capaci di dimostrare, da due prospettive tra loro distanti,
l’interdipendenza tra individuo e gruppo in maniera equilibrata e con
l’impiego di concetti nuovi, ormai entrati nel linguaggio comune. In
particolare i concetti di Lewin si sono imposti alla nostra attenzione perché,
mentre da una parte traggono la loro essenza dalle esperienze concrete,
dall’altra sono forieri di principi scientifici e psicologici il cui utilizzo
consente una generalizzazione efficace per il nostro oggetto epistemologico.
Questa “semplicità d’uso” costituirà un importante strumento ermeneutico
capace di spiegare molte delle fasi dello sviluppo narrativo del film. Il loro
apporto permetterà, inoltre, di introdurre e di verificare il ricorso all’estetica
del cinema, vista come metodologia formativa.
I contributi teorici di Bion saranno fondamentali per comprendere l’altro
versante del gruppo: il versante dinamico. Bion sostiene che nessun
individuo, per quanto isolato, può essere marginale rispetto a un gruppo, o
essere carente di psicologia di gruppo. Le osservazioni del gruppo presente
in Deliverance risentiranno molto degli apporti psicanalitici di Bion. Le sue
formulazioni ci consentiranno di cogliere alcuni dettagli dell’interazione
all’interno del gruppo che, in un’altra prospettiva, passerebbero inavvertite.
Il suo apporto risulterà particolarmente efficace per rendere conto delle
reazioni emotive dei personaggi del film e per dimostrare come il regista
Boorman abbia dedicato particolare attenzione non solo formale ma anche
psicologica al suo film
8
.
Ovviamente i vari autori verranno chiamati in causa secondo una sequenza
niente affatto stabilita né tantomeno pregiudiziale. Considereremo questi
8
Rilevante, a tal proposito, l’intervista rilasciata da Boorman a Ciment e riportata da
ADRIANO PICCARDI in John Boorman, Il Castoro cinema, La Nuova Italia, Firenze, 1982,
pag. 7: “Il film agisce a un tale numero di livelli diversi nel suo rapporto col pubblico, che è
difficile dire a quale di questi funziona. Ma certi film – e fra questi, forse, i miei – tendono
a toccare le persone a livelli profondi, inconsci, che possono dare fastidio se gli spettatori
hanno deciso di escludere da sé alcune correnti del loro psichismo”.
10
teorici secondo una prospettiva che potremmo definire eclettica. Il loro
apporto sarà tanto più prezioso quanto più esso risulterà illuminante ma,
contemporaneamente, non assoluto né esclusivo. In questa sede non ci è
sembrato opportuno assumere un atteggiamento pregiudiziale nei confronti
di alcun autore. Ogni apporto teorico in grado di spiegare in maniera chiara
e intuitiva le situazioni filmate dal regista è stato scelto anche in funzione di
un eventuale utilizzo in ambito formativo. Questo è stato forse l’unico
paradigma che ha guidato la nostra composizione. In questa prospettiva è
stato ritenuto più apprezzabile il ricorso ad un numero limitato di teorie e di
autori, con l’intento, dunque, di non appesantire l’esposizione. In questo
modo abbiamo cercato di evitare di ridurre l’elaborato ad un mero e sterile
elenco di correnti e scuole teoriche, rimandando comunque il lettore che
desiderasse reperire tali informazioni, comunque fondamentali, a
pubblicazioni più adeguate.
Una trattazione ampia e particolareggiata riguarderà Deliverance. La scelta
di utilizzare la versione originale del film è stata dettata dalla possibilità di
cogliere maggiormente alcune sfumature nei dialoghi, che nella versione
doppiata, inevitabilmente si perdono. Questa proposta, lungi dall’essere
interpretata come una forma di esasperata filologia, vuole anche rendere più
esplicita la necessità di affrontare, in ambito formativo, tutte le fasi di
lavorazione di un’opera cinematografica. La traduzione del titolo del film,
fatta dai distributori italiani, oltre a far perdere il doppio senso insito nella
lingua inglese, ha impedito sin dall’inizio agli spettatori italiani di
prepararsi, inconsciamente, alla visione del film
9
.
Per comprendere ogni aspetto del film, abbiamo dedicato ad esso un ampio
capitolo, in cui verrà analizzato sotto vari aspetti. Principalmente verranno
trattate, attraverso la scansione scenica, tutte le fasi di evoluzione
drammaturgica. In primo piano rimarranno essenzialmente due tematiche:
9
MICHEL CIMENT, Boorman: un visionnaire en son temps, Calmann-Lévy, Paris, 1985. Il
critico francese fa notare come la parola, la cui traduzione in francese mantiene lo stesso
significato, contiene un duplice senso. Da una parte significa “liberazione” di solito da un
male, dall'altra fa riferimento al giudizio emesso da una giuria. Il riferimento, ci fa notare
Ciment, alla duplice esperienza provata dai protagonisti del film, viene già anticipata nel
titolo stesso del film. In Italia questa sottigliezza semantica si è persa totalmente, visto che
il film è conosciuto con il titolo Un tranquillo week end di paura.
11
team leadership e dinamiche di gruppo. In questo contesto, tuttavia,
troveranno spazio molti aspetti della formazione alla team leadership, grazie
anche alle note di rimando all’appendice finale dell’elaborato dove, come
anticipato sopra, l’esegesi estetica del film completerà il quadro di
trattazione.
Un capitolo sarà poi dedicato ad un’intervista rilasciata dal Dott. Vittorio
Pongolini, responsabile del Canoa Club di Milano. Un gruppo di aderenti a
questa associazione si è, infatti, recato sullo stesso fiume dove la troupe di
Deliverance ha effettuato le riprese in esterna. Il film di Boorman ha
provocato intorno al fiume e alla sua natura un’intensa atmosfera di
aspettativa magica. La vasta eco del film ha, addirittura, attirato l’attenzione
di alcuni legislatori, fattisi, poi, promotori di una legge in favore della
conservazione naturale del fiume, facendo del Chattooga un precedente cui
oggi si fa ancora riferimento. Il fiume Chattooga è così diventato, ormai da
trent’anni, meta di pellegrinaggio da tutti gli USA, attirando non solo un
turismo di massa, ma soprattutto un turismo di appassionati di canoa. Sulle
sue acque, alcuni dei rappresentanti del club di canoisti, fra cui il Dott.
Pongolini, hanno avuto modo di effettuare delle riprese allo scopo di creare
un piccolo cortometraggio. La visione di questo reportage, ottenuto mixando
insieme alle riprese alcuni spezzoni del film, è stata possibile alla riunione
annuale degli aderenti al club, svoltasi a novembre di quest’anno. La notizia
di questo viaggio fattaci dal Dott. Pongolini, entusiasta spettatore del film,
ci è parsa un’occasione irripetibile per discutere con lui delle implicazioni
pratiche della nostra tesi. La prospettiva percettiva di un autentico canoista,
si è subito posta alla nostra attenzione. La sua esperienza ormai trentennale
costituirà un’ottima visuale dalla quale guardare alcune delle nuove
proposte della formazione prodotte nel continente americano
10
. Dialogare
10
Come vedremo più in dettaglio in seguito, nella pubblicazione (a cura di) CLAUDIA
PICCARDO, Insegnare e apprendere la leadership, Guerini e Associati, Milano, 1998, il già
citato Angelo Benozzo analizza esaurientemente i cosiddetti “esercizi outdoor” che molto
hanno in comune con le tematiche presenti nel film. Nonostante una precedente
pubblicazione di GIAN PIERO QUAGLINO, Fare formazione, Il Mulino, Bologna 1985,
classifichi questa metodologia di formazione fra quelle emergenti, Benozzo fa notare come
essa, in realtà, trovi le sue radici ideologiche in alcune esperienze educative della Germania
di inizio secolo.
12
con questo particolare interlocutore svolgerà anche la funzione di mettere
alla prova le nostre ipotesi di partenza.
Il capitolo finale comprenderà, oltre a una breve sintesi delle tematiche
trattate all’interno del presente lavoro, presentata allo scopo di rendere più
omogeneo il discorso, alcune note conclusive. L’attenzione maggiore sarà
dedicata alla validità strumentale in ambito formativo dell’estetica del
cinema, utilizzata per analizzare le tematiche psicologiche dell’opera di
John Boorman.
Nel lavoro è presente, come già ricordato in precedenza, un’appendice di
argomento cinematografico, cui spesso rimanderemo il lettore, concepita
allo scopo di rendere più agile un suo eventuale utilizzo in altri contesti.
Essa sarà condotta con l’ausilio del massimo esegeta di John Boorman,
Michel Ciment. Docente di storia e critica del cinema all’Università di
Parigi VII, Ciment ha collaborato per molti anni con la rivista Positif e
proprio sulle pagine di questa periodico ha portato avanti la sua opera di
studi dedicati al regista inglese, di cui si è sempre dichiarato un osservatore
entusiasta.
In essa abbiamo previsto, oltre a un’introduzione al cinema di Boorman e
alle sue tematiche, una sinossi scenica e l’analisi dettagliata di tre scene, da
noi ritenute emblematiche e funzionali per i nostri intenti espositivi.
Per venire incontro, infine, alle carenze di alcuni nostri lettori, abbiamo
creato un piccolo glossario di termini cinematografici, in grado di
comprendere meglio la terminologia utilizzata in appendice.
Un’ultima annotazione riguarda la bibliografia. Rifacendoci ai principi
espositivi degli argomenti trattati, abbiamo volutamente inserito i rimandi
bibliografici nelle note di ogni capitolo, distinguendoli a seconda del loro
ambito disciplinare. Le due bibliografie, psicologica e estetico-
cinematografica, troveranno, tuttavia, un unico spazio espositivo all’interno
del presente lavoro. Eventuali “ingerenze” dell’una o dell’altra disciplina
saranno gestite nelle note.
13
CAPITOLO 1
ARTE E PSICOLOGIA:
ALCUNE CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
Gli studi sulla creatività artistica sono relativamente recenti e nascono con la
pubblicazione dell’Interpretazione dei sogni di Freud nel 1900, che ha reso
accessibile all’investigazione scientifica la creatività e il funzionamento dei
suoi meccanismi mentali. Da allora, molti degli allievi di Freud hanno
dedicato alcuni studi all’arte e alle relazioni che essa intrattiene con il
mondo del quotidiano sotto i suoi aspetti più tangibili e pratici. Otto Rank,
nel suo saggio sul doppio
11
, cercò di dimostrare come i grandi prodotti della
letteratura immaginativa, dalle fiabe, ai racconti fantastici, fossero capaci di
affrontare temi universali come il timore scaturito dall’impossibilità di
controllare volontariamente i propri impulsi. Quello che affascinava gli
studiosi erano le possibilità comunicative ed educative della creatività
artistica. La capacità di autoanalisi di un artista, qualsiasi sia il suo campo di
indagine e di lavoro, sono, spesso, fuori del comune. Mostrare il proprio
mondo interiore permette all’autore di gettare un ponte ideale verso il suo
pubblico in grado di produrre un contatto emotivo con la sua stessa opera,
permettendo a chi ne fruisce di vedere rappresentato qualcosa che, molto
spesso, gli appartiene. L’espressività diventa, in tal modo, un’incredibile
fonte di informazioni da poter utilizzare per comprendere eventi, spesso al
di fuori delle nostre possibilità interpretative. Nel caso delle arti figurative,
il potenziale espressivo diventa più universale perché esso gioca su un piano
sensoriale, quello visivo, predominante in questo secolo. Anche se la
prospettiva occidentale, in parte, potrebbe deformare e condizionare il
discorso, ci sembra pertinente l’argomentazione. E’ indubbio, tuttavia,
rilevare come l’arte ha sempre accompagnato l’attività umana per
l’universalità del suo linguaggio, un metalinguaggio comprensibile da
individui appartenenti a diversi contesti culturali, distanti anche
11
OTTO RANK (1914), Il Doppio. Il significato del sosia nella letteratura e nel folklore,
Sugarco, Milano, 1979. Esaminando un ampio materiale sul tema del doppio, fornisce una
14
temporalmente fra loro. Ci appare importante iniziare a delineare alcune
ipotesi di studio elaborate al fine di comprendere aspetti della complessità
umana mediante l’ausilio di aspetti attinenti, direttamente o indirettamente,
all’arte e ai suoi creatori. Nelle prossime pagine, infatti, vedremo come
alcuni studiosi di varie discipline psicologiche abbiano avuto l’intuizione di
servirsi dell’arte come metodologia didattica per illustrare, con efficacia,
temi o ipotesi di lavoro elaborate, precedentemente, in ambiti disciplinari
strettamente connessi con la psicologia del lavoro, delle organizzazioni o
della formazione professionale.
Come ha avuto modo di rilevare Kets de Vries, le personalità artistiche
pongono al centro dei loro prodotti creativi la rappresentazione dei propri
“demoni interiori”, mitigandone la loro carica ansiogena. La possibilità di
sublimare queste esperienze traumatizzanti, di solito di origine infantile,
dona alle creature artistiche un fascino e una potenza comunicativa, capaci
di travalicare i confini artistici. Kets de Vries, in un intervento dedicato al
rapporto tra narcisismo ed esercizio della leadership
12
, evoca alcuni versi del
Riccardo III di Shakespeare al fine di condurre un'attenta e interessante
disamina sui vari aspetti del potere e del suo esercizio:
“Storia e letteratura ci offrono abbastanza esempi di conseguenze di questi
eccessi da giustificare il timore e il sospetto che ci invade quando il potere si
incarna in un individuo. […] Che cosa accade quando si abusa del potere? E
il senso di frustrazione provato nella fanciullezza produce inevitabilmente
un attaccamento patologico al potere o può avere uno sbocco positivo in un
costruttivo uso del potere?”.
13
Un approccio così poco ortodosso, operato con una freschezza espositiva
invidiabile, rende non solo molto appassionante la lettura e la riflessione, ma
ha il merito di invogliare il lettore ad aprire nuovi orizzonti conoscitivi.
Utilizzando le prose di Shakespeare si riesce ad esprimere tematiche
universali, come il desiderio di esercitare la propria leadership, citando una
magistrale e acuta interpretazione del fenomeno, di cui anche il suo maestro Freud sarà
debitore nella stesura del saggio sul Perturbante del 1919.
12
MANFRED F. R. KETS DE VRIES (1993), Leader, giullari e impostori, Raffaello Cortina,
Milano, 1995.
13
MANFRED F. R. KETS DE VRIES, ibidem, pag. 31.
15
sola frase, conosciuta da un vasto pubblico: “Un cavallo! Il mio regno per
un cavallo!”. L’universalità, indiscussa, di questa battuta detta da Riccardo
nel finale della tragedia omonima, riunisce in sé un insieme di importanti
riflessioni sulla leadership e sui suoi risvolti psicologici, spesso necessarie
in un contesto formativo. Indubbiamente sarebbe oltremodo riduttivo
considerare la tragedia shakespeariana, enfatizzando un solo celebre verso.
Tuttavia la consuetudine ad associare questo verso a Shakespeare impone, al
lettore, una riflessione riguardante le capacità sintetiche presenti nel suo
stile narrativo. In essa, infatti, sembrano rappresentate le possibili
conseguenze logoranti derivate da un abuso di potere, potenzialmente insito
in una leadership gerarchicamente conferita da un’organizzazione forte
come una monarchia. Ci piace pensare che Kets de Vries abbia voluto
servirsi di questa fonte artistica, nella consapevolezza di poter ricavare da
essa una metafora, le cui capacità esplicative fossero universalmente
riconosciute. Del resto la metafora racchiude, al suo interno, potenzialità
comunicative tipiche del linguaggio simbolico. Essa ha, peraltro, la capacità
di evocare rappresentazioni mentali inducenti a trasfigurare, a proprio
piacimento, la realtà e i suoi oggetti. Inoltre, per quanto si vogliano studiare
e comprendere le sue componenti, resta sempre un oggetto
“noumenicamente” inafferrabile. Ed è proprio grazie a questa sua intrinseca
caratteristica che la metafora raggiunge il suo grado massimo di forza
trasformatrice. Ci sembra pertinente, in questo frangente, aggiungere alcune
considerazioni fatte da Anna Castellano in una sua recente pubblicazione
del 1995
14
. Tra le competenze necessariamente rinvenibili in un formatore,
vengono indicate alcune conoscenze in ambiti diversi da quelli canonici. Fra
essi spiccano, ad esempio, quelle relative all’arte, alla letteratura e al
cinema. Questi ambiti disciplinari vengono riuniti in insieme di competenze
relazionali più consone a persone, i formatori appunto, il cui compito è sia
quello di interagire con uomini e donne, sia quello di interloquire con essi.
Elliot Jaques, il cui eclettismo espositivo ha sempre impressionato i suoi
studiosi, rientra nelle file di coloro che hanno saputo cogliere questi aspetti
14
ANNA MARIA CASTELLANO, Le parole della formazione, Tirrenia Stampatori, Torino,
16
sussidiari dell’arte e della vita dei loro creatori. Il suo lavoro più conosciuto
e studiato rimane, indubbiamente, Lavoro, creatività e giustizia sociale.
Leggendo la prefazione si intuisce subito la possibilità di interloquire con
uno studioso la cui curiosità culturale e accademica non è stata condizionata
da limitazioni intellettuali:
“Il lavoro e la creatività non rientrano in una particolare disciplina
accademica, anzi si può affermare il contrario: dobbiamo ricorrere a
molteplici discipline per comprenderne i processi. In questo modo evitiamo
di adottare punti di vista troppo restrittivi, e facciamo luce, invece, sulla
vera natura di processi umani così importanti.”
15
In questo lavoro affascina lo studio puntiglioso delle biografie degli artisti,
di cui dimostra di aver apprezzato il loro contributo alla conoscenza della
natura umana. La crisi di mezza età, secondo lo studioso inglese, è
formidabilmente descritta nelle prime due terzine della Divina Commedia di
Dante. Del capolavoro dantesco, Jaques ammira e sottolinea la sua
straordinaria universalità, valida per qualsiasi credo religioso o ambito
culturale. Questo inizio serve poi a Jaques per affrontare il tema della
consapevolezza della propria morte. Di solito questo pensiero viene mitigato
attraverso negazione del lutto e della morte o tramite pensieri di
immortalità. A questo punto è lecito, da parte nostra, operare un possibile
parallelo tra queste forme di difesa inconsce e le terzine dantesche. La
consapevolezza della morte può essere rintracciata nella “selva oscura” in
cui si è smarrita la “diritta via”, rappresentante la tranquillità emotiva
precedente la presa di coscienza. Il viaggio stesso di Dante nell’aldilà, non
può essere, invece, un vero e proprio pensiero di immortalità? La trattazione
di Jaques prosegue lungo sentieri che lo conducono a considerare altri
artisti, come Beethoven o Goethe, capaci di rappresentare degli esempi
illuminanti per la spiegazione della necessità del raggiungimento di un
equilibrio interiore, necessario ad una creatività costruttiva e matura.
1995.
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ELLIOT JAQUES (1970), Lavoro creatività e giustizia sociale, pag. 11, Boringhieri,
Torino, 1978.