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giurisprudenza, non solo di merito, in tema di forma ed impugnazione dell'atto di
recesso datoriale.
In particolare, sarà trattato il tema della forma del licenziamento, anche in
riferimento a fattispecie particolari, quali il licenziamento durante il periodo di prova
e il licenziamento dei dirigenti, per poi passare alla disamina dell'impugnazione del
licenziamento e delle conseguenze sanzionatorie, sempre attraverso il puntuale
rimando alle disposizioni sostanziali dei principali testi normativi in materia, senza
tralasciare la doverosa attenzione verso i contributi offerti dai maggiori esperti in
dottrina e verso le più significative pronunce della giurisprudenza, soprattutto della
Suprema Corte.
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CAPITOLO I
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PREMESSE E NOZIONI PROPEDEUTICHE
§ 1.1. Le fonti legislative in materia di licenziamento
Numerosi sono i testi normativi che il legislatore nel corso degli anni ha
dedicato al tema del licenziamento. Tra questi è opportuno ricordare la legge 15
luglio 1966, n. 604, recante «Norme sui licenziamenti individuali»; ovviamente la
legge 20 maggio 1970, n. 300 (c.d Statuto dei lavoratori), contenente «Norme sulla
tutela della libertà e dignità del lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività
sindacale nel luoghi di lavoro e norme sul collocamento»; importante è senza dubbio
anche la legge 11 maggio 1990, n. 108, contenente la «Disciplina dei licenziamenti
individuali», che ha apportato fondamentali modifiche alla legge n. 604/1966, mentre
la legge 23 luglio 1991, n. 223 («Norme in materia di cassa integrazione, mobilità,
trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea,
avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro») contiene
significative disposizioni in relazione ai licenziamenti collettivi e alla mobilità.
§ 1.2. Il licenziamento: nozione e cenni fondamentali
L'estinzione del rapporto di lavoro, in virtù del particolare bene giuridico
oggetto del contratto, è regolata da particolari regole, le quali escludono
l'applicazione delle disposizioni generali dettate dal codice civile, in tema di
risoluzione del contratto.
Ad eccezione del contratto di lavoro c.d. “a termine”, nel quale la cessazione del
rapporto lavorativo coincide con la scadenza del termine (salvo il caso di recesso per
giusta causa), l'estinzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato è conseguente
all'atto di recesso dell'una o dell'altra parte del contratto: il recesso del lavoratore si
sostanza nelle dimissioni, mentre il recesso datoriale consiste nel licenziamento.
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Con l'entrata in vigore della nuova normativa sulle dimissioni (legge 17 ottobre
2007, n. 188), anche il recesso del lavoratore richiede una particolare forma.
Al lavoratore sono imposti oneri formali minori, rispetto a quanto imposto al
datore di lavoro: la nuova disciplina prevede che tutti i lavoratori, compresi i
collaboratori occasionali, gli associati in partecipazione ed i collaboratori a progetto
(cd. co.co.pro.), che desiderino recedere dal contratto di lavoro, debbano comunicare
le dimissioni in forma scritta con l'utilizzo di un apposito modulo (contenuto in un
decreto ministeriale la cui emanazione è prevista entro tre mesi dalla data di entrata in
vigore della legge n. 188), il quale recherà un codice alfanumerico progressivo di
identificazione, con validità limitata nel tempo, pari a quindici giorni dalla emissione,
e caratterizzato da altre misure atte ad impedirne la contraffazione o le falsificazioni.
La normativa sul licenziamento fa ancora invece riferimento ad un impianto
complesso, nel quale, in conseguenza della legge 11 maggio 1990, n. 108, il recesso
ad nutum, ovvero quel particolare tipo di licenziamento che permette al datore di
lavoro di recedere dal contratto senza motivazione, è ormai solo residuale: in linea
generale il datore di lavoro non può licenziare il dipendente se non per giusta causa o
per giustificato motivo, pena l’invalidità del recesso.
Per giusta causa del licenziamento si intende, secondo quanto enunciato dall'art.
2119 cod. civ., qualsiasi «causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria,
del rapporto»: si intendono dunque tutti quei fatti che abbiano compromesso in
maniera grave e irrimediabile gli elementi essenziali del rapporto e della fiducia tra le
parti, valutabili come necessari per la prosecuzione del rapporto stesso.
La normativa sul licenziamento distingue tra due tipi di giustificato motivo: uno
di carattere soggettivo, inerente alla persona del lavoratore, e l’altro di carattere
oggettivo, riguardante invece le esigenze dell’impresa. In ogni caso grava sul datore
di lavoro l’onere di dimostrare l’effettività delle ragioni poste alla base del
licenziamento e l’impossibilità di impiegare diversamente il lavoratore licenziato.
A rendere effettiva la stabilità che deriva al lavoratore dalla normativa sul
licenziamento ha contribuito senza dubbio l’art. 8 della legge n. 604/1966, stabilendo
il c.d. regime di tutela obbligatoria: essa si applica per il datore di lavoro privato,
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imprenditore non agricolo e non imprenditore con un numero di dipendenti non
superiore a 15 (oppure l’imprenditore agricolo che non supera i 5 dipendenti per ogni
unità produttiva). In queste ipotesi si impone al datore di lavoro, che intenda
effettuare il licenziamento, di motivarlo con la giusta causa o con il giustificato
motivo e di notificare il provvedimento al lavoratore interessato nei termini stabiliti;
qualora il giudice accerti l’illegittimità del licenziamento non vige l’obbligo di
reintegrazione: in questo caso infatti il datore di lavoro può scegliere tra riassumere il
lavoratore entro tre giorni o risarcirgli il danno tramite il versamento di una
determinata indennità, il cui importo varia tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6
mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avendo riguardo al numero dei
dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del
lavoratore, al comportamento ed alle condizioni delle parti.
In ogni caso, prima di ricorrere al giudice, è sempre necessario promuovere il
tentativo di conciliazione e arbitrato: è una procedura, di regola attivata da
un'organizzazione sindacale, che si svolge presso la Direzione Provinciale del
Lavoro, avente il compito di cercare una soluzione bonaria della controversia.
L'art. 18 della legge n. 300/1970 descrive invece il c.d. regime di tutela reale,
applicantesi alle aziende con più di 15 dipendenti in ciascuna unità produttiva, oppure
con più di 15 dipendenti nello stesso Comune anche in unità produttive più piccole,
oppure con più di 60 dipendenti ovunque siano ubicate le singole unità produttive o,
infine, ai datori di lavoro agricolo con più di 5 dipendenti in ciascuna unità
produttiva.
A differenza della tutela obbligatoria, la tutela reale non prevede, per il datore di
lavoro, l'alternativa di scelta tra riassunzione e pagamento.
Accertata l'illegittimità del licenziamento, il giudice ordina al datore di lavoro di
reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro e di risarcirgli il danno, con la
corresponsione di un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto, dal
giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione e al versamento
dei contributi assistenziali e previdenziali relativi al periodo; in ogni caso la misura al
risarcimento non può essere inferiore a 5 mensilità.
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Fermo il diritto al risarcimento del danno, al prestatore di lavoro è data la facoltà
di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro,
un'indennità pari a 15 mensilità di retribuzione globale di fatto. Quindi in tale ipotesi,
la facoltà di scelta è data al lavoratore, non al datore di lavoro.
Il dubbio tra tutela reale e obbligatoria non vige nel caso di licenziamento
discriminatorio: in tale ipotesi si applicherà la tutela reale, a prescindere dal numero
dei lavoratori occupati presso l'unità produttiva dove prestava la propria attività il
dipendente licenziato.
La normativa sul licenziamento, oltre a stabilire in maniera generale, salvo le
eccezioni di cui sopra, questo regime vincolistico della motivazione, prevede anche
delle situazioni in cui vige il divieto assoluto di licenziare, i c.d. periodi di comporto
(art. 2110 cod. civ.): si tratta di particolari periodi, durante i quali il dipendente,
impossibilitato alla prestazione lavorativa per motivi di malattia o di infortunio, ha
diritto alla conservazione del posto di lavoro. I licenziamenti che avvengono in
pendenza di tali periodi non sono validi, a meno che non ricorra la giusta causa.
Detto ciò, va ribadito che è in ogni caso nullo qualsiasi licenziamento ispirato da
motivi illeciti (come ad esempio il licenziamento discriminatorio).
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§ 1.3. La forma: definizione
In ambito giuridico la forma è il modo di manifestarsi della volontà negoziale.
Tale manifestazione può essere due tipi: manifestazione tacita o espressa. La prima
consiste in fatti concreti, comportamenti che sarebbero incompatibili con una volontà
diversa da quella che si deduce dai fatti stessi; tale tipo di forma è quella che viene di
fatto utilizzata, spesso inconsapevolmente, per la conclusione di quotidiani contratti
verbali (quale ad esempio un piccolo acquisto in un supermercato).
La manifestazione espressa riguarda invece la forma espressa in modo esplicito,
positivo da parte dell'autore del messaggio negoziale: si tratta di forma scritta,
potendo trattarsi di una scrittura privata (contratto scritto e firmato dalle parti) oppure
di un atto pubblico (artt. 2699 e ss. cod. civ.).
Nel nostro ordinamento vige la regola generale della libertà delle forme, nel
senso che quando l'ordinamento non prevede per la validità del negozio una
determinata forma (come ad esempio l'atto scritto per le compravendite immobiliari),
si presume che questo possa essere concluso nella forma ritenuta più opportuna,
anche oralmente.
Vi sono però dei negozi particolari, richiamati dalla legge, per la cui validità
l'ordinamento richiede il rispetto di una determinata forma: rilevante in tal senso è
senza dubbio la norma di cui all'art. 1350 cod. civ., richiamante una serie di atti e
contratti nulli se non rivestiti della forma scritta.
In virtù di questa norma è possibile distinguere tra negozi solenni, ossia quelli
per la validità dei quali la legge richiede una determinata forma, e negozi non solenni,
per i quali la forma è libera.
Per i primi la forma è richiesta per la validità del negozio (forma ad
substantiam): ad esempio, la vendita di un bene immobile pretende la forma dell'atto
pubblico, sotto pena di nullità, cosa che non accade invece per l'acquisto di un
giornale in edicola.
Per i negozi non solenni, invece, la forma è richiesta, non per la validità del
negozio, ma semplicemente per provarne l'esistenza (forma ad probationem): in
questo caso sarà possibile provare l'esistenza del negozio solo attraverso la particolare
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forma richiesta (oppure attraverso quel particolare mezzo di prova che è il
giuramento, ma non è questa la sede per trattare tale argomento); in ogni caso il
negozio cui è richiesta la forma ad probationem è pur sempre valido anche senza la
forma prescritta (esempio di negozio ad probationem è il contratto di trasferimento di
azienda).
§ 1.4. La forma nel diritto del lavoro
Come osservato da autorevole dottrina
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, nel diritto del lavoro il legislatore
impone l'obbligo della forma scritta in più occasioni, tra le quali si ricordano la
stipulazione del contratto di lavoro subordinato a termine (art. 1, d.lgs. n. 368/2001),
l'intimazione del licenziamento individuale (art. 2, l. n. 604/1966) e collettivo (artt.
14, comma 12, e 5, comma 3, l. n. 223/1991): si tratta di casi in cui la mancanza del
requisito formale determina l'inefficacia dell'atto o della clausola di apposizione del
termine.
Vi sono comunque altre fattispecie per le quali è prescritto l'utilizzo della forma
scritta, come la contestazione disciplinare (art. 7, comma 5, l. n. 300/1970),
l'assunzione a tempo parziale (art. 2, comma 1, d.lgs. n. 61/2000) o la trasformazione
di un rapporto a tempo pieno in rapporto a tempo parziale (art. 5, comma 1).
In pratica, nel diritto del lavoro, al tradizionale binomio “forma scritta – certezza
dei rapporti”, si affianca quello giuslavoristico “minor tutela sostanziale – maggiore
tutela formale”: in quest'ottica si inserisce la prescrizione legislativa dell'art. 2, l. n.
604/1966 relativa all'obbligo di comunicazione del licenziamento individuale in
forma scritta.
1 GAROFALO, Licenziamento e forma, in CARINCI, Diritto del lavoro. vol. 3. Commentario. Il rapporto
di lavoro subordinato: garanzie del reddito, estinzione e tutela dei diritti, UTET, 2007, pag. 173.
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§ 1.5. L'impugnazione
L'impugnazione è, in ambito processuale, un rimedio giuridico creato per
rimuovere uno svantaggio derivante da un provvedimento del giudice che si ritiene,
in tutto o in parte, viziato. Attraverso l'impugnazione è possibile chiedere un controllo
del provvedimento impugnato da parte di un giudice diverso da quello che lo ha
emesso, ottenendo così una nuova pronuncia.
Intesa in senso lato, l'impugnazione è la resistenza della parte interessata contro
atti e provvedimenti: non necessariamente per aversi impugnazione il soggetto
interessato deve adire il giudice, potendo invece rendere noto il proprio pensiero nei
confronti di chi ha emesso l'atto o il provvedimento impugnato in sede stragiudiziale,
in modo da rendere chiara la contestazione dell'atto stesso.