INTRODUZIONE
Il presente elaborato è stato sviluppato al fine di descrivere ed approfondire
un nuovo fenomeno, comparso sullo scenario finanziario internazionale già
a partire dai primi anni Cinquanta in Kuwait e nelle allora isole Gilbert,
oggi Kiribati, e diffuso in maniera veramente considerevole solamente in
questa seconda metà del primo decennio del XXI secolo, i fondi sovrani.
Lo svolgimento ha seguito un preciso filo conduttore che ha riguardato gli
investimenti esteri, considerati come l’origine ed il precursore dei suddetti
fondi sovrani: il primo capitolo illustra come gli investimenti esteri si sono
evoluti nel tempo e descrive le numerose teorie formulate con lo scopo di
interpretarli.
Il nesso tra investimenti esteri e fondi sovrani è, quindi, rappresentato da
quel tipo di imprese che fondano la loro attività principali su rapporti
economici con i paesi esteri, ossia le multinazionali, e da quegli enti che,
appunto, investono sui mercati finanziari internazionali, ovvero i fondi di
investimento.
Poi, nel secondo capitolo, sono stati approfonditi i fondi sovrani presenti
nella realtà finanziaria mondiale, suddividendoli per macro aree concettuali
e cercando di comprendere le loro reali intenzioni riguardo le strategie di
investimento, gli obiettivi da ottenere e le regole disciplinari rispettate nella
gestione.
Infine, è stata affrontata la questione degli investimenti diretti esteri
contrapposti a quelli di portafoglio, come strumento principale utilizzato dai
fondi sovrani nella propria attività, nel tentativo di cogliere intenti di tenore
geopolitico rispetto a motivazioni esclusivamente di redditività.
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CAPITOLO 1
GLI INVESTIMENTI ESTERI E
LA LORO EVOLUZIONE
Le relazioni economiche internazionali fanno parte di quel generico
fenomeno chiamato internazionalizzazione, la quale definisce l’espansione
delle imprese al di fuori del proprio mercato nazionale.
1
Gli ultimi decenni ci hanno resi testimoni di alcuni processi che sono stati
indubbiamente una spinta costante e progressiva a questa apertura
internazionale delle imprese. Si sono rivelate fondamentali la
globalizzazione e la terziarizzazione, le quali hanno comportato, da un lato,
il progressivo annullamento delle distanze ed il conseguente avvicinamento
delle economie di ogni parte del mondo e, dall’altro, una crescente
dematerializzazione delle attività produttive a favore dei servizi. Infine, vi è
stata una tendenza alla digitalizzazione, che, insieme all’affermazione di
forme reticolari di organizzazione aziendale, è stata alla base di una
straordinaria ondata di innovazione tecnologica.
Concretamente, l’internazionalizzazione può essere realizzata
attraverso diverse modalità, a partire dalla semplice espansione mercantile,
ovvero l’esportazione e la commercializzazione all’estero di prodotti
realizzati nel paese d’origine, situazione che a partire dalla sua nascita ha
accompagnato il commercio e ogni sua declinazione.
Oltre agli investimenti diretti esteri che saranno illustrati poco più avanti,
l’altra modalità di internazionalizzazione è rappresentata da forme
intermedie che stanno a metà tra l’investimento e
l’esportazione/commercializzazione e che consentono di trasferire la
propria tecnologia mediante affitto o vendita ad operatori locali in paesi
esteri: in particolare si tratta di licenze, marchi e brevetti, ma anche accordi
e contratti vari di assistenza tecnica e commerciale.
1
Murolo A. (1981).
6
Parlando quindi di investimenti diretti esteri come terza modalità di
internazionalizzazione, dobbiamo innanzitutto riferirci alla definizione che
ne dà il Fondo Monetario Internazionale nella Quinta Edizione del Manuale
della Bilancia dei Pagamenti, definizione che nel prosieguo del lavoro
dovrà essere riconsiderata quando si vorrà analizzare il comportamento
degli Stati rispetto all’attività svolta dai fondi sovrani.
Tale denominazione identifica un investimento diretto estero come “la
categoria di investimenti internazionali che rispecchia l’obiettivo di
un’entità residente in una certa economia di ottenere un interesse duraturo
in un’impresa residente in un’altra economia” dove “l’entità residente è
l’investitore diretto e l’impresa è quella oggetto di investimento diretto”.
2
Il Manuale introduce quest’ultimo concetto riportando, inoltre, una
percentuale minima del 10% “del capitale azionario o del potere di voto”,
come altra condizione necessaria perché possa trattarsi di investimento
diretto estero.
Nel caso invece in cui tali investimenti non siano connessi ad un rapporto di
investimento diretto e quindi “ad un interesse duraturo nella gestione
dell’impresa”, allora ci si deve riferire ad investimenti di portafoglio i quali,
di conseguenza, comprendendo una percentuale minore del 10% nel
capitale azionario, escludono qualsiasi controllo strategico o partecipazione
direzionale nei confronti dell’impresa estera e tendono piuttosto ad obiettivi
di rendimento, ovvero ad un rendimento superiore rispetto a quello
ottenuto, a parità di rischio, rinunciando ad investire all’estero per farlo con
attività all’interno dei propri confini nazionali.
La suddetta distinzione tra investimenti diretti e di portafoglio fu
introdotta solamente negli anni Venti del secolo scorso ma nei decenni
successivi fino ai giorni nostri numerosi economisti hanno illustrato
altrettante differenziazioni concernenti sia gli investimenti diretti esteri, sia
quelli di portafoglio.
Una prima classificazione, prodotta dall’UNCTAD (United Nations
Conference on Trade and Development) nel World Investment Report
2
http://www.imf.org/external/pubs/ft/bopman/bopman.pdf
7
2008, suddivide gli investimenti diretti esteri in base alla loro forma in tre
categorie.
3
Vi è, come prima tipologia, l’acquisizione di partecipazioni azionarie o di
altro tipo del capitale sociale dell’impresa estera (equity), mentre la seconda
identifica quote di profitti non distribuiti come dividendi e non rimessi
all’investitore ma piuttosto reinvestiti; questa distinzione si conclude con i
prestiti intersocietari e le transazioni intersocietarie di debito a breve oppure
a lungo termine tra la società madre e le affiliate.
Riguardo invece le cause che spingono ad effettuare investimenti
esteri in generale, esse sono state nel tempo molteplici, a partire dalla
semplice esigenza, presente nell’epoca del colonialismo, di cercare nuovi
mercati di sbocco in cui commercializzare i propri prodotti.
Successivamente, i vantaggi che potevano essere originati da questo genere
di operazioni riguardarono altri aspetti quali differenze nei livelli salariali,
minori pressioni fiscali e maggiori possibilità di utilizzare materie prime.
Nel caso delle materie prime, procurarsene a buon mercato rispetto a quelle
presenti sul territorio nazionale avrebbe consentito di ridurre i costi
avvantaggiandosi di conseguenza nei confronti dei concorrenti, così come
l’esistenza di salari più bassi all’estero sarebbe potuta risultare di
fondamentale importanza soprattutto nelle attività a bassa intensità di
capitale ed alta intensità di lavoro.
Pertanto si viene a delineare una classificazione piuttosto nota, quella
proposta da J. H. Dunning che identifica quattro motivazioni per
l’effettuazione di investimenti all’estero.
4
Innanzitutto, vi potrebbe essere la volontà di accedere a risorse scarsamente
disponibili o non presenti nel paese di origine o comunque meno costose da
reperire all’estero; in questo caso gli investimenti in essere si chiamano
“resource seeking”. Potrebbe trattarsi di materie prime, anche prodotti
agricoli, competenze tecnologiche, organizzative e manageriali oppure
forza lavoro, comportando, in quest’ultima circostanza, l’adozione
dell’ulteriore espressione “labour seeking”.
3
www.unctad.org/en/docs/wir2008p3_en.pdf
4
Dunning J.H. (1993).
8
Sono detti invece investimenti “market seeking” quelli volti ad aumentare il
volume delle vendite sul mercato estero, situazione in cui è spesso
conveniente che la produzione sia fisicamente prossimale ai consumatori
locali poiché i prodotti devono generalmente essere adattati ad esigenze e
gusti degli stessi consumatori.
La terza tipologia identificata dalla classificazione di Dunning è quella
degli investimenti “efficiency seeking” secondo cui si crea nell’impresa
un’organizzazione divisionale del lavoro a livello internazionale
razionalizzando quindi la struttura produttiva; in questo modo vengono
sfruttati i vantaggi comparati di ogni località poiché disponendo di un
portafoglio di attività geograficamente disperse è possibile trarre beneficio
dalle differenti dotazioni fattoriali dei diversi paesi, dai diversi sistemi
politici ed economici, dalle varie politiche e strutture di mercato.
Gli investimenti “strategic asset seeking” (o “competence creating”)
rappresentano l’ultimo tipo di tali investimenti i quali hanno come obiettivo
l’accesso a nuove tecnologie, a competenze e risorse identificate come
cruciali al fine di arricchire il portafoglio dell’impresa e di aumentarne la
competitività.
Per delineare in modo ancor più completo ed esauriente il mondo
degli investimenti esteri, occorre inoltre identificare altre due dicotomie.
5
La prima differenzia gli investimenti diretti esteri orizzontali da quelli
verticali: i primi si concretizzano duplicando all’estero la stessa produzione
presente sui confini nazionali e vengono spesso fatti coincidere con gli
investimenti “market seeking”; inoltre comportano un maggior impiego di
lavoro qualificato a seguito di una maggiore necessità di supervisione,
coordinamento, ricerca e sviluppo e marketing presso la casa madre.
I secondi hanno l’obiettivo di trasferire all’estero, quindi delocalizzandola,
una o più fasi del processo produttivo; di conseguenza i paesi verso cui si
indirizzano tali investimenti sono quelli a più basso costo del lavoro per
attività a maggiore intensità di lavoro non qualificato.
L’altra dicotomia riguarda la diversa natura dell’impresa oggetto di
investimento: si individuano gli investimenti greenfield (dall’inglese “a
5
Goldstein A., Piscitello L. (2007).
9
prato verde”) che identificano la costruzione all’estero di unità produttive
ex novo e quindi rappresentano la modalità utilizzata prevalentemente dalle
piccole e medie imprese e gli investimenti brownfield che sono costituiti da
investimenti all’estero su unità produttive già esistenti, attraverso
acquisizioni e partecipazioni dirette.
1.1 LE TEORIE DEGLI INVESTIMENTI
ESTERI
Per descrivere compiutamente le teorie degli investimenti esteri, la
modalità più adatta è quella cronologica: è sufficiente quindi analizzare, a
partire dai primi decenni del XX secolo fino ai decenni a cavallo di XX e
XXI secolo, i contributi dei vari economisti riguardo le diverse forme
assunte dal più generico fenomeno dell’internazionalizzazione, ovvero le
semplici esportazioni, gli accordi fra imprese basati o meno su
partecipazioni azionarie e gli investimenti diretti esteri.
Quest’ultimi sono stati, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale,
direttamente collegati alle imprese multinazionali e di conseguenza
possiamo definire tali teorie degli investimenti esteri anche come teorie
dell’impresa multinazionale o, come già detto, dell’internazionalizzazione.
1.1.1 LA TEORIA NEOCLASSICA
Fino alla fine degli anni ’50, però, le proposte di teorizzazione sono
decisamente trascurabili poiché ogni argomentazione deriva dalla teoria
cosiddetta neoclassica, collegata all’approccio neoclassico al commercio
internazionale. Secondo tale pensiero, il modello tradizionale di crescita in
equilibrio economico generale presenta condizioni di mercati trasparenti e
aggiustamento dei mercati mediante il meccanismo dei prezzi, inoltre i
diversi movimenti internazionali di capitali sono considerati come varianti
al sopraccitato modello tradizionale introducendo i diversi concetti di
differenziale fra paesi, ovvero la misura in cui certe variabili, parliamo ad
esempio di rendimento del capitale investito, tasso di crescita del prodotto e
10
dimensione del mercato, differiscono tra vari paesi e in particolare tra il
paese investitore e quello destinatario dell’investimento.
6
Una prima ipotesi poggia sui differenziali fra i saggi di rendimento
del capitale investito nei diversi paesi e tali differenziali sono attribuiti alla
diversa dotazione fattoriale da un paese all’altro, ovvero il saggio di
rendimento è alto nei paesi in cui il capitale è scarso e viceversa in caso di
basso saggio di rendimento. Ciò comporta che il trasferimento di capitali tra
paesi si riduca man mano che il livello di capitale aumenta e tenda ad
arrestarsi quando si raggiunge l’equilibrio dei saggi di rendimento nei vari
paesi. Di conseguenza le imprese, avendo come obiettivo la
massimizzazione del profitto tendono a spostarsi verso paesi diversi
ricercando la migliore remunerazione del capitale fisso: la tendenza che si
viene a creare, legata inoltre agli assetti internazionali tipici dei decenni
precedenti alla seconda guerra mondiale e all’ancor viva influenza dei
modelli di riferimento coloniali, è quella di una enorme quantità di
investimenti diretti verso i paesi in via di sviluppo o addirittura del Terzo
Mondo, dove logicamente il capitale è scarso e il rendimento risulta più alto
a parità di altre condizioni.
Ipotizzando la caduta delle barriere politico-istituzionali ai movimenti
internazionali di capitali, si arriva ad una perfetta mobilità dei fattori poiché
a questo punto gli investimenti diretti esteri sono perfetti sostituti degli
scambi internazionali. Ciò porta quindi ad equilibrare i prezzi dei fattori tra
paesi, condizione per cui viene a mancare l’ipotesi iniziale delle differenti
dotazioni fattoriali fra paesi: questa prima teoria risulta allora deficitaria
poiché carente per quanto riguarda i presupposti.
Un’altra variabile che integra la succitata teoria è il differenziale tra
combinazioni di saggi di rendimento e rischio e in particolare la varianza
degli stessi rendimenti, concetti derivati dal modello di portafoglio di
Tobin-Markovitz; anche in questo caso tale ipotesi non riesce a spiegare
alcune situazioni, per esempio la presenza più consistente di investimenti
diretti rispetto a semplici scambi commerciali nei settori caratterizzati da
alti rendimenti e alti rischi.
7
Invece, uno spunto interessante riguarda la
6
Onida F. (1984).
7
Onida F. (1984).
11
propensione degli investitori nei paesi in via di sviluppo a forme di
investimento diretto piuttosto che investimenti di portafoglio nel caso in cui
la varianza dei rendimenti sia particolarmente elevata in presenza di cattivo
funzionamento del mercato dei capitali.
La terza ipotesi si origina dalla teoria macroeconomica degli
investimenti e illustra come gli investimenti diretti riflettano differenziali
fra settori e fra paesi nel tasso di crescita del prodotto e nella dimensione
del mercato dei paesi. Tuttavia, tali variabili non sono in grado di spiegare
né la preferenza per gli investimenti diretti piuttosto che per l’esportazione
in determinati paesi, né la particolare capacità delle imprese straniere di
sfruttare le opportunità di crescita dei mercati locali a svantaggio delle
stesse imprese locali.
Infine, assume una notevole importanza la variabile del differenziale
nei costi di produzione e nel ciclo di vita del prodotto: la teoria concernente
quest’ultimo argomento sarà fondamentale nell’analisi degli investimenti
diretti esteri basata sull’esistenza di mercati di monopolio o di concorrenza
oligopolistica con barriere all’entrata affermatasi nella metà degli anni ’60,
ma, pur discostandosi dal modello neoclassico per i due aspetti della
funzione di produzione non identica tra paesi e di capitale e tecnologia
mobili tra paesi, tale teoria consente di esprimere come la dinamica
geografica e settoriale di tali investimenti rifletta una strategia dell’impresa
dipendente dal ciclo di vita del prodotto.
Quindi, al variare delle fasi del ciclo di vita variano il peso e la qualità degli
input richiesti, l’intensità tecnologica e in genere le funzioni di produzione,
incluso il ruolo delle economie esterne e dei rendimenti di scala; per
prodotti nella fase di sviluppo l’esigenza di penetrare in mercati esteri
suggerisce un decentramento produttivo sul mercato locale al fine di
realizzare economie di scala di marketing e distribuzione e di ridurre
l’incidenza dei costi di trasporto. In questo caso quindi, l’interpretazione
della teoria degli investimenti diretti esteri basata sui differenziali nei costi
non deve fare riferimento solamente ai costi della manodopera ordinaria nel
processo produttivo ma comprendere anche altre svariate categorie di costi.
12
Poi per prodotti nella fase di maturità, per cui si attua una standardizzazione
delle tecniche produttive con elevata incidenza del capitale fisico e della
manodopera ordinaria, le imprese dei paesi sviluppati perseguiranno
strategie di cost saving decentrando la produzione verso aree a minor
reddito pro capite e costi unitari del lavoro più bassi: la conseguenza sarà
una rinnovata competizione tra di loro e con le imprese nascenti sui mercati
di sbocco. Maggiore sarà lo spazio in un dato settore in una situazione di
concorrenza basata sui costi di lavoro e maggiormente ci si aspetterà che gli
investimenti diretti esteri si aggiungano ed anche sostituiscano i flussi di
esportazione dei paesi sviluppati.
Una variazione di questo contesto è quella derivante dall’idea che gli stessi
investimenti non consistano solamente nell’apporto di capitale finanziario
ma anche di un insieme di capitali umani: capacità organizzativo-
manageriali, tecnici e formazione professionale di manodopera locale e in
generale trasmissione delle conoscenze. In questo senso gli investimenti
diretti esteri non vanno tanto a sostituire precedenti esportazioni ma creano
nuovi flussi di commercio estero allargando il processo di integrazione
commerciale tra paesi a diverso grado di sviluppo.
Dopo la seconda guerra mondiale e a partire dalla metà degli anni
‘60, furono prodotte altre numerose teorie, poiché il flusso di investimenti
esteri si era spostato sui paesi industrializzati, sia come provenienza sia
come destinazione; per questo motivo l’approccio neoclassico legato alla
teoria del commercio internazionale cominciò a presentare limiti di
interpretazione e l’importanza dei differenziali tra paesi, basi di tale teoria,
venne meno e fu soppiantata da quella dei differenziali tra le imprese.
1.1.2 IL CICLO DI VITA DEL PRODOTTO DI VERNON
La prima teoria sviluppata in questo periodo è quella del ciclo di vita del
prodotto di Raymond Vernon, che è stata già accennata riguardo il
differenziale nei costi di produzione come teoria che spieghi, attraverso
l’approccio neoclassico, come gli investimenti diretti esteri si distribuiscano
a livello geografico e settoriale; nel 1966 l’economista francese formulò
appunto un modello che lega le decisioni di investimento all’estero da parte
13
delle imprese al processo di introduzione sui mercati dei nuovi beni, sia di
consumo sia di investimento; in questo senso viene a crearsi un chiaro
legame tra espansione internazionale delle imprese, ciclo di vita del
prodotto e capacità innovativa dei paesi.
8
A seconda dello stadio del ciclo di vita in cui il bene prodotto si
trova, l’impresa consegue differenti vantaggi, vengono utilizzate tecnologie
diverse e si raggiunge un certo livello di concorrenza servendo determinati
mercati.
Nella prima fase di introduzione sul mercato l’impresa intende far fronte
alla domanda interna e localizza la produzione il più vicino possibile sia ai
consumatori, circostanza necessaria al fine di evitare problemi riguardo
l’incertezza sulle tecnologie, sulla domanda e sui contatti con i clienti, sia ai
fornitori di fattori produttivi; quindi l’impresa non ha la necessità di
effettuare decentramenti produttivi e si rivolge principalmente al mercato
domestico poiché gli elementi di novità e unicità del prodotto o del
processo le garantiscono vantaggi monopolistici.
Essendoci molta incertezza riguardo le dimensioni finali del mercato,
riguardo gli sforzi che faranno i concorrenti per accaparrarselo e riguardo le
specifiche del prodotto che prevarranno, diventa più importante la capacità
di essere flessibile, di sperimentare vari modelli e materie prime e di
apprendere per poi innovare piuttosto che quella di ottimizzare; inoltre la
bassa elasticità della domanda rispetto al prezzo fa passare in secondo piano
le considerazioni sul costo rispetto alla necessità di soddisfare la domanda
crescente.
Quando si passa nella fase di sviluppo del prodotto la domanda rimane
ancora sostenuta, diminuisce l’esigenza di flessibilità e si affermano le
economie di scala; perciò si afferma uno standard di base ma non
uniformità di prodotto poiché si moltiplicano ugualmente tipologie e
varianti.
Per soddisfare la domanda di nuovi prodotti che si espande anche all’estero,
le imprese iniziano ad esportarli ma la standardizzazione delle tecniche
produttive e la mancanza di innovazioni comportano il fatto che le imprese
8
Grandinetti R., Rullani E. (1996).
14
locali cerchino di imitare la tecnologia presente nei prodotti importati e
riescano man mano a diventare concorrenti delle imprese straniere,
rappresentando quindi una minaccia per la posizione di mercato conquistata
da quest’ultime.
Ciò avviene poiché le imprese locali sfruttano alcuni vantaggi di
localizzazione quali la presenza di barriere doganali, agevolazioni
pubbliche, minori costi di trasporto, minore costo del lavoro e capacità di
adattare il prodotto alle esigenze locali.
Nel momento in cui si vengono a creare positive opportunità di
investimento, ovvero quando i dazi doganali e i costi per il trasporto del
prodotto sommati a quelli per la produzione all’interno del territorio
nazionale risultino maggiori dei costi di produzione diretta nel paese estero,
comincia ad essere presa in considerazione e di seguito adottata la decisione
di sostituire le esportazioni con la produzione estera: si parla quindi della
terza fase del ciclo di vita del prodotto, ovvero quella della maturità, nella
quale il prodotto è pienamente standardizzato e la competizione viene
spinta verso la minimizzazione dei costi di produzione.
In questa fase cresce l’intensità capitalistica dei processi, la quale è una
sorta di “dimensione” del processo produttivo rispetto all’impiego del
capitale, inoltre i processi di imitazione si sviluppano anche nei paesi esteri
di produzione rendendo possibile l’ingresso sul mercato di produttori locali,
favoriti dall’introduzione da parte dei governi nazionali di strumenti
tariffari che mirino a scoraggiare gli investimenti esteri e incentivare la
produzione interna.
Nel complesso crescono significativamente le ragioni e le motivazioni per
investire all’estero: per mantenere la propria quota di mercato appena
conquistata e difendersi da potenziali entranti, l’impresa investitrice
rivolgerà il proprio interesse ad altre fasi della filiera produttiva investendo
a valle della produzione in senso stretto nella commercializzazione,
nell’assistenza e nella manutenzione del prodotto.
Quando poi la domanda di prodotto esaurisce la sua crescita e diventa
stabile o addirittura in calo, l’impresa che sta investendo all’estero non ha
più alcun vantaggio monopolistico, i processi imitativi sono ormai completi
15
e la tecnologia è totalmente matura, standardizzata e perfettamente
accessibile agli imitatori locali: si entra di conseguenza nella cosiddetta fase
di declino del prodotto in cui la variabile chiave di sopravvivenza sul
mercato diventa la possibilità di produrre a costi minori.
L’impresa è obbligata a decentrare la produzione in paesi dove i fattori
produttivi hanno costo inferiore, spostando i propri investimenti diretti
esteri da paesi avanzati a paesi in via di sviluppo e costo del lavoro molto
basso.
In questo modo l’impresa, ormai multinazionale, dopo aver prodotto in
paesi a basso costo del lavoro reimporta il prodotto per venderlo anche sui
mercati dei paesi avanzati e non solo su quelli dei paesi dove è stato
prodotto.
Una volta raggiunta la fase di declino nel ciclo di vita del prodotto, si viene
a formare un’alternativa per l’impresa investitrice all’estero, ossia quella di
abbandonare il mercato del prodotto finora trattato per attuare una strategia
innovativa offrendo prodotti differenti che quindi permettono ad essa di
ripercorrere dall’inizio lo stesso processo basato sui vantaggi monopolistici.
1.1.3 LE AREE VALUTARIE DI ALIBER
Ciò che le teorie degli investimenti diretti esteri e in particolare quella del
ciclo di vita del prodotto di Vernon tendono a non chiarire è l’origine delle
scelte tra investimenti diretti esteri e esportazione di prodotti, brevetti e
tecnologie.
Infatti l’approccio basato sui vantaggi oligopolistici considera necessario
per il successo di investimenti diretti esteri il godimento da parte
dell’impresa che investe, di profitti superiori a quelli delle imprese locali
sul mercato in cui si vuole investire: tale impresa gode di un vantaggio
rispetto alle altre sul mercato dei capitali poiché ha una maggiore capacità
di ottenere prestiti a tassi di interesse più bassi; ciò è dovuto al fatto che sul
mercato dei titoli le azioni dell’impresa della nazione investitrice possono
essere capitalizzate ad un tasso più elevato rispetto ai profitti delle imprese
locali.
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