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Volendo delineare le principali differenze tra previdenza pubblica e complementare, possiamo
identificare due aspetti:
1) Le modalità di adesione: nel sistema pubblico l’adesione ha natura obbligatoria, mentre
nel secondo e nel terzo pilastro ha natura volontaria
2) I principi ispiratori: il primo pilastro si basa sul principio della ripartizione3, mentre i
secondi sul principio della capitalizzazione4. Il terzo pilastro si differenzia dal secondo solo
per il carattere individuale delle esigenze dei soggetti che vi ricorrono.
Tra i principali strumenti della previdenza complementare troviamo innanzitutto i fondi pensione
istituiti con il d.lgs. 194/93, ossia i Fpn (fondi pensione negoziali o contrattuali), i Fpa (fondi
pensione aperti), e, con l’art. 9-ter dello stesso decreto, inserito ex art. 2, c. 1 del d.lgs. 47/2000,
anche i cosiddetti Pip (piani individuali pensionistici), cioè «forme pensionistiche individuali attuate
mediante contratti di assicurazione sulla vita stipulati con imprese di assicurazioni autorizzate
dall'ISVAP, ad operare nel territorio dello Stato o quivi operanti in regime di stabilimento o di
prestazioni di servizi». I Pip possono assumere la forma di assicurazioni sulla vita tradizionali a
gestione separata (ramo I)5 oppure polizze unit linked direttamente collegate ad indici o a quote di
OICR (FCI o fondi interni) (ramo III)6.
In realtà già prima della riforma del 1993 esistevano dei fondi pensione, che vengono denominati
Fpp (fondi pensione preesistenti), presenti in particolare nel comparto dell’intermediazione
finanziaria e nei gruppi industriali multinazionali con sede in Italia.
2.1 L’iter legislativo della riforma
A partire dagli anni Novanta, il sistema previdenziale italiano ha visto realizzarsi diversi tentativi di
riforma, che avevano lo scopo di far si che il secondo e il terzo pilastro della previdenza
assolvessero a quella loro funzione di complementarietà del sistema pubblico di base, andando a
coprire la diminuzione del tasso di sostituzione, a garanzia di un tenore di vita almeno pari a quello
antecedente la quiescenza. Non è però necessario che la previdenza arrivi a garantire tassi di
sostituzione prossimi al 100% (Messori 2006). Infatti, secondo la teoria su ciclo vitale del risparmio
(dovuta a Modigliani e Brumberg), ciascuna classe di età è caratterizzata da una diversa attitudine
al consumo e al risparmio. Il reddito tende a seguire una curva a forma di campana durante la vita
(basso livello all'inizio, alto nella parte centrale e nuovamente basso dopo il pensionamento): i
giovani sono quelli che attingono maggiormente ai prestiti di lunga durata (mutui), le persone di
mezza età rappresentano i maggiori risparmiatori e gli anziani, disponendo di un minore reddito,
sono portati a spendere questi risparmi. Ne consegue che durante la vita attiva i lavoratori
tendono ad accumulare uno stock di ricchezza da consumare poi durante il pensionamento. Si
calcola che l’invarianza del tenore di vita richieda un tasso complessivo di sostituzione non
inferiore al 70-75% (cfr. Messori 2006).
3
Tecnica di origine solidaristica in base alla quale il pagamento dei trattamenti di quiescenza ai
pensionati è finanziato dai lavoratori ancora in attività. Non si ha dunque un trasferimento di capitale nel
tempo, ma nello spazio, dai soggetti in attività a quelli in pensione.
4
In pratica i contributi versati dal lavoratore sono accantonati e investiti sui mercati mobiliari sulla base
delle indicazioni fornite dall’aderente e senza che lo stesso ne perda la titolarità, andando a costituire
l’importo delle future rendite pensionistiche ottenute dalla conversione del montante finanziario sulla base
di coefficienti attuariali. In questo caso si genera un trasferimento nel tempo del risparmio previdenziale.
5
Si tratta di polizze in cui il rischio dell’investimento è a carico dell’impresa e l’assicurato ha diritto ad un
capitale minimo. I premi versati, al netto dei costi, saranno investiti in specifiche attività di gestione interne
all’impresa (gestioni separate). In caso di pagamento tramite premi costanti, il capitale o la rendita assicurati
avranno un incremento solo in relazione agli utili finanziari realizzati attraverso la gestione separata; in caso
di premi rivalutabili, invece, il capitale o la rendita assicurati crescono sia in funzione dei rendimenti
conseguiti dalla gestione separata, sia grazie alla rivalutazione dei premi versati.
6
Artt. 2 e 41, d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209
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2.1.1 La riforma Amato
Il percorso normativo è iniziato con la riforma Amato (d.lgs. 503/1992), la quale:
- Ha innalzato l’età per la pensione di vecchiaia da 55 a 60 anni per le donne e da 60 a 65
per gli uomini
- Ha innalzato il requisito minimo per la pensione di vecchiaia da 15 a 20 anni
- Ha modificato la base pensionabile presa a riferimento per il calcolo delle prestazioni
pensionistiche: si passa dalla retribuzione media degli ultimi cinque anni a quella degli
ultimi dieci, e all’intera vita lavorativa per quelli che al 1 gennaio 1996 non avevano ancora
iniziato a contribuire.
- Infine è stata modificata pure l’indicizzazione delle pensioni: le stesse non erano più
indicizzate alla dinamica retributiva, ma al tasso di inflazione.
Tutto questo è avvenuto in un arco di tempo pluriennale, per poter salvaguardare i diritti
acquisiti dai soggetti che erano assoggettati ai precedenti regimi pensionistici.
2.1.2 La riforma del 1993
Nel 1993 viene approvata la legge istitutiva dei fondi pensione, con d.lgs. 124/1993 che, come già
detto, ha introdotto la distinzione tra Fpn e Fpa.
I fondi pensione preesistenti (Fpp) alla data di approvazione del decreto erano costituiti all’interno
delle imprese, in genere grandi organizzazioni come banche, assicurazioni, o gruppi industriali
multinazionali, e spesso erano costituiti non a favore di tutti i dipendenti, ma solo per i dirigenti.
Molte volte non formavano nemmeno un patrimonio giuridicamente autonomo e separato, ma
erano parte del patrimonio dell’impresa stessa che li promuoveva. Per questi fondi, gli schemi
adottati erano per lo più a beneficio definito con gestione finanziaria diretta, o a contribuzione
definita con gestione assicurativa del patrimonio7.
I nuovi fondi istituiti dal decreto del ’93 differivano in parte da quelli esistenti, per varie ragioni. In
primo luogo l’adesione agli stessi avveniva in modo volontario, e non obbligatorio come nei Fpp. In
secondo luogo per i lavoratori dipendenti erano imposti schemi a contribuzione definita, andando
così a scaricare i rischi finanziari sull’aderente. Era invece prevista, per le organizzazioni di
lavoratori autonomi e di liberi professionisti, anche l’adozione di schemi a beneficio definito, al
fine di garantire «una prestazione determinata con riferimento al livello del reddito o a quello del
trattamento pensionistico obbligatorio» (art. 1 c. 2, b) ). In terzo luogo il decreto prevedeva la
costituzione di fondi in forma di associazioni (riconosciute e non) e di fondazioni, ovvero
attraverso la costituzione di un patrimonio destinato all’interno del patrimonio di società, a patto
che la società fosse una S.p.A. o una S.A.p.A., che il patrimonio fosse dotato di strutture gestionali,
amministrative e contabili autonome e separate, e che la contabilità e i bilanci fossero sottoposti a
controllo contabile e certificazione da almeno due esercizi chiusi in data antecedente a quella della
richiesta di autorizzazione.
7
Per fondo pensione a contribuzione definita si intende uno schema previdenziale nel quale viene fissato
il livello contributivo e le cui prestazioni non sono definibili a priori in quanto dipendono dal risultato
ottenuto dalla gestione del patrimonio del Fondo. A parità di contribuzione è quindi il rendimento degli
accantonamenti che determina l'entità della prestazione.
Il regime a beneficio definito prevede una prestazione già determinata indipendentemente dai risultati della
gestione finanziaria.
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Forme pensionistiche complementari potevano essere costituite in base a contratti e accordi
collettivi, anche promossi da sindacati od organizzazioni di lavoratori, anche autonomi, e pure
mediante regolamenti di aziende i cui rapporti di lavoro non fossero regolati da accordi collettivi.
Non era (e non è tutt’oggi) permesso ai fondi – anche se soggetti giuridici o dotati di personalità
giuridica – di gestire direttamente le risorse dei destinatari. Le stesse dovevano infatti essere
gestite da soggetti gestori esterni, il cui patrimonio peraltro non poteva comprendere al proprio
interno i valori e le disponibilità affidate in gestione. Infatti, secondo l’art. 6, c. 4-ter «I valori e le
disponibilità affidati ai gestori … costituiscono in ogni caso patrimonio separato ed autonomo,
devono essere contabilizzati a valori correnti e non possono essere distratti dal fine al quale sono
stati destinati né formare oggetto di esecuzione sia da parte dei creditori dei soggetti gestori, sia
da parte di rappresentanti dei creditori stessi, né possono essere coinvolti nelle procedure
concorsuali che riguardano il gestore». Non era invece previsto l’obbligo di affidare le risorse a una
banca depositaria. Lo stesso obbligo è però stato prescritto con l’introduzione della legge
335/1995 (riforma Dini), e permane tutt’oggi.
I fondi pensione potevano essere gestiti da:
- società di gestione del risparmio (SGR), le quali hanno come oggetto la gestione su base
individuale di portafogli di investimento;
- società di intermediazione mobiliare (SIM);
- imprese assicurative;
- società di gestione dei fondi comuni di investimento mobiliare.
Inoltre (art. 6, c. 1) i fondi pensione gestiscono le risorse anche attraverso:
- sottoscrizione o acquisizione di azioni o quote di società immobiliari, osservando dei limiti:
non si possono investire le disponibilità:
o in azioni o quote con diritto di voto, emesse da una stessa società, per un valore
nominale superiore al 5% del valore nominale complessivo di tutte le azioni o
quote con diritto di voto emesse dalla società stessa se quotata, o al 10% se non
quotata, né comunque, azioni o quote con diritto di voto per un ammontare tale
da determinare in via diretta un'influenza dominante sulla società emittente;
o in azioni o quote emesse dalle società sponsor in misura complessiva superiore al
20% delle risorse del fondo e, se trattasi di fondo pensione di categoria, in misura
complessiva superiore al 30%;
- sottoscrizione o acquisizione di quote di FCI mobiliare chiusi secondo le disposizioni8 del
d.m. 703/1996 (a cui si fa espresso richiamo), ma comunque non superiori al 20% del
proprio patrimonio e al 25% del capitale del fondo chiuso.
Il finanziamento dei fondi, secondo il decreto, doveva gravare sui destinatari, e in caso di lavoratori
subordinati, anche sul datore di lavoro. Era previsto il versamento di un contributo che doveva
essere fissato dalle fonti istitutive del fondo, in misura percentuale, nonché il versamento di una
quota dell’accantonamento annuale al TFR.
Come già detto il decreto 124/1993 ha previsto anche i Fpa (disciplinati dall’art. 9), ai quali
potevano aderire i soggetti per i quali non fosse stato già costituito un apposito fondo negoziale, o
non possedessero i requisiti per aderirvi.
8
Art. 4 c. 2, D.M. Tesoro 703/1996: «il patrimonio del fondo pensione non può essere investito in misura
superiore al 15 per cento in titoli di debito e di capitale, ivi compresi i prodotti derivati che danno diritto
all'acquisto di tali titoli, emessi da uno stesso emittente o da soggetti facenti parte di un medesimo gruppo».