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1.1 Breve excursus normativo.
1.1.1. Dalla legge Amato-Carli alla legge Ciampi-Pinza
Le Fondazioni di origine bancaria nascono all'inizio degli anni 90 quali
eredi dell'attività filantropica che, fin dal secolo scorso, svolgevano i Monti
di Pietà e le Casse di Risparmio.
Queste ultime, sorte in Italia a partire dalla prima metà dell’Ottocento, a
seguito della scomparsa delle istituzioni intermedie tra Stato e cittadini
(come le corporazioni), che costituivano una forma di protezione e sicurezza
per gli strati sociali più deboli, presentavano, infatti, inizialmente più il
carattere di Opera Pia che quello di istituto bancario
2
: da un lato, infatti, si
proponevano di promuovere il senso di previdenza della collettività,
raccogliendo i risparmi delle classi disagiate, dall’altro destinavano una
parte dei proventi derivanti dall’investimento dei capitali ad opere di
beneficenza
3
.
Le Casse di Risparmio potevano avere una duplice origine: potevano essere
il risultato dell’iniziativa di privati cittadini associatisi tra loro (c.d. “casse di
risparmio associazioni”), oppure essere fondate da enti morali o su iniziativa
statale (c.d. “casse di risparmio fondazioni”)
Solo quando la raccolta del risparmio si estese al ceto medio emerse una
propensione maggiore a un’attività propriamente bancaria, che andò sempre
più rafforzandosi nei decenni successivi.
La crescente rilevanza economica del fenomeno determinò anche un
aumento dell’interesse dello Stato nei confronti di questi enti, interesse che
si concretizzò con la l. 15 luglio 1888 n. 5546 (c.d. “legge Crispi”), recante
“Riordinamento delle Casse di Risparmio”. La legge rappresenta il primo
tentativo di regolamentazione dell’organizzazione e dell’attività delle Casse
di Risparmio e configura queste ultime come una categoria a sé stante ed
2 Clarich M., Pisaneschi A., Le Fondazioni bancarie. Dalla holding creditizia all’ente non profit, Bologna: Il Mulino,
2001
3 Sanino M., Le fondazioni bancarie: ultimo atto?, Torino: Giappichelli Editore, 2004
6
autonoma, allontanandola sia dal modello delle Opere Pie sia da quello delle
società commerciali
4
.
La finalità perseguita dal legislatore era infatti sottrarre l’attività delle Casse
dall’influenza diretta dei fondatori e degli interessi privati: a questo scopo
contribuirono l’attribuzione di personalità giuridica autonoma a tutte le
Casse e, per quelle a struttura associativa, del carattere personale e
intrasmissibile allo status di socio (scindendo così l’appartenenza
all’assemblea dalla titolarità di una quota) e, infine, il divieto di costituire o
mantenere Casse di Risparmio in forma societaria.
La legge Crispi non consentì, tuttavia, di risolvere la problematica relativa
all’esatta natura (pubblica o privata) da attribuire a tali enti, e solo nel 1930
una sentenza della Corte di Cassazione ne riconobbe la natura pubblica
5
.
La legge bancaria del 1936-1938
6
, infine, definì di interesse pubblico
l’esercizio dell’attività bancaria, includendo quindi le Casse di Risparmio,
insieme agli Istituti di credito di diritto pubblico e ai Monti di credito su
pegno, tra i soggetti pubblici e assoggettandole a un pressante controllo
statale.
L’assetto normativo relativo alla disciplina bancaria permase, in seguito,
pressoché invariato, fino all’inizio degli anni Ottanta, quando, soprattutto in
seguito ai processi di liberalizzazione avviati dalla Comunità Europea che
consentivano l’ingresso nel mercato finanziario di nuovi operatori, il
sistema bancario italiano, caratterizzato da una predominanza di banche
pubbliche, entrò in crisi e dimostrò chiaramente la propria inadeguatezza
nell’operare all’interno di un mercato concorrenziale.
Al fine di rendere il mercato italiano competitivo, si è quindi cercato di
privatizzare il capitale bancario pubblico riconducendo le banche al diritto
comune, mediante l’adozione della struttura della società per azioni
7
(già
proposta dalla Banca d’Italia nel secondo libro bianco del 1988).
Questo passaggio è avvenuto con la legge-delega 30 luglio 1990, n. 218
(c.d. “riforma Amato-Carli”) e il relativo D.Lgs. 20 novembre 1990, n. 356,
4 Sanino M., op. cit., 17
5 Clarich M., Pisaneschi A., op. cit., 25
6 R. D.L. 12 marzo 1936, n. 375, convertito con L. 7 marzo 1938, n. 141, e R.D.L. 17 luglio 1937, n. 1400, convertito
con L. 7 aprile 1938, n.636
7 Sanino M., op. cit., 32
7
che avviarono la trasformazione degli istituti di credito pubblico in società
per azioni; tale trasformazione fu resa però soltanto facoltativa,
incentivandone il ricorso attraverso il riconoscimento di particolari
agevolazioni fiscali. Il procedimento di trasformazione poteva avvenire
secondo due modalità: per trasformazione diretta dell’ente pubblico
economico in società per azioni nel caso di enti a struttura associativa, per
conferimento dell’azienda bancaria in una neocostituita società per azioni
con attribuzione del capitale all’ente pubblico conferente nel caso di enti a
struttura di fondazione
8
.
In base alla legge Amato, quindi, i pacchetti azionari delle aziende bancarie
vennero affidati a enti pubblici, i c.d. “enti conferenti”; questi ultimi
avevano il compito, in qualità di soci di controllo, di detenere la titolarità
della maggioranza delle azioni, nominare gli amministratori della società,
percepirne gli utili, e impiegarli per il perseguimento delle originarie finalità
di pubblica utilità sociale.
Tuttavia, il timore che i nuovi enti, guidati più dalla politica che dalle
logiche di mercato, potessero ostacolare il rafforzamento del sistema
bancario italiano, determinò alcuni cambiamenti nel successivo decreto di
attuazione (D.Lgs. n. 356/1990).
L’obiettivo di questa disposizione era, infatti, limitare i poteri di gestione
della banca da parte degli enti conferenti e accentuarne le funzioni di utilità
sociale, assegnando a questi ultimi le funzioni pubbliche storicamente
esercitate dalle Casse di Risparmio e riservando alle aziende bancarie la
funzione creditizia. A tal fine il decreto stabiliva che gli enti conferenti
potevano solo “amministrare la partecipazione nella società per azioni” allo
scopo di perseguire “fini di interesse pubblico e di utilità sociale,
preminentemente nei settori della ricerca scientifica, dell’istruzione,
dell’arte e della sanità” (art. 12, D. Lgs. N. 153/1990).
Mentre nella legge Amato era stata stabilita la natura pubblica degli enti
conferenti, nel successivo decreto legislativo essi vennero dotati di piena
capacità di diritto pubblico e privato, lasciandone dunque incerta la natura
giuridica: da un lato, infatti erano autorizzati a compiere le operazioni
8 Clarich M., Pisaneschi, A., op. cit., 40
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finanziarie, commerciali, immobiliari e mobiliari, ritenute opportune (tranne
esercitare attività bancaria e acquisire il controllo di società bancarie o
finanziarie diverse dalle controllate), dall'altro erano però sottoposti alla
vigilanza del Ministero del Tesoro, che aveva anche il compito di
approvarne i bilanci.
La riforma Amato aveva quindi dato origine a una privatizzazione
“formale”, consistente nella semplice trasformazione giuridica dell’ente
pubblico economico in società per azioni, il cui controllo, affidato agli enti
conferenti, era ancora in mano pubblica.
Il passaggio a una privatizzazione di tipo “sostanziale” avvenne
gradualmente negli anni successivi, in parte favorito dalla crisi finanziaria
del 1992 che spinse il Governo a dismettere le partecipazioni statali e a
privatizzare le imprese controllate dallo Stato.
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1.1.2. Dalla legge Ciampi-Pinza alla riforma Bossi-Tremonti
Dopo un lungo confronto tra le associazioni di categoria, le forze politiche e
il Parlamento, si giunse all’emanazione della legge-delega 23 dicembre
1998, n. 461 (c.d. “Legge Ciampi-Pinza”).
La legge si riferiva per la prima volta agli enti conferenti chiamandoli
“Fondazioni”, ufficializzando così una terminologia divenuta comune nella
prassi, e li definiva “persone giuridiche private, senza fine di lucro, dotate di
piena autonomia statutaria e gestionale, che perseguono esclusivamente
scopi di utilità sociale e di promozione dello sviluppo economico” (art. 2, L.
n. 461/1998).
Nonostante l’affermazione della natura privata delle Fondazioni, di esse
veniva però disciplinato praticamente tutto, dal momento che, per attuare
questa trasformazione, le Fondazioni avrebbero dovuto adeguare gli statuti
alle disposizioni previste dal decreto di attuazione (D.Lgs. 17 maggio 1999,
n. 153), cosa che appariva fortemente lesiva dell’autonomia privata.
Gli statuti avrebbero dovuto istituire organi di indirizzo, di gestione e di
controllo distinti, con la previsione, per l’organo di indirizzo, di una
rappresentanza del territorio.
Per quanto riguarda, invece, l’attività istituzionale, le Fondazioni avrebbero
dovuto operare in specifici settori di intervento, stabiliti dalla legge (ricerca
scientifica, istruzione, arte, conservazione e valorizzazione dei beni culturali
e ambientali, sanità, assistenza alle categorie sociali deboli), anche
attraverso l’esercizio di imprese strumentali.
La legge prevedeva poi la permanenza della funzione di vigilanza in capo al
Ministero del Tesoro, fino a quando gli enti fossero rimasti titolari di una
partecipazione di controllo nella banca.
L’obiettivo della dismissione delle partecipazioni bancarie venne fissato in
sei anni, entro i quali le Fondazioni che avessero provveduto alla
dismissione potevano godere di sostanziosi benefici fiscali.
In sede di emanazione del decreto legislativo attuativo, tuttavia, la legge
Ciampi subì una serie di adattamenti: il decreto stabiliva, infatti, per la
prima volta, l’obbligo di cessione del controllo della banca conferitaria entro
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un periodo di quattro anni (più, eventualmente, altri due), al termine del
quale l’autorità di vigilanza, sentita la Fondazione e mediante un apposito
commissario, poteva provvedere alla privatizzazione.
Per quanto riguarda l'attività delle Fondazioni il decreto imponeva la scelta,
da effettuarsi in sede statutaria, dei settori rilevanti, ai quali gli enti
avrebbero dovuto devolvere non meno della metà del proprio reddito, al
netto delle spese di funzionamento, degli oneri fiscali e degli
accantonamenti e riserve obbligatorie (le Fondazioni avrebbero dovuto
operare prevalentemente in almeno uno di questi, potendo comunque
rivolgere la propria azione anche verso altri settori).
Nell'ambito dei settori rilevanti individuati dallo statuto, inoltre, alle
Fondazioni era consentito (ai sensi dell'art.3, D.Lgs. n. 153/1999) l'esercizio
di attività d'impresa, in forma diretta o indiretta, purché strumentale ai fini
statutari.
Ad esse venne comunque precluso l'esercizio di funzioni creditizie, nonché
di qualsiasi forma di finanziamento, erogazione o sovvenzione, diretti o
indiretti, a favore di enti aventi fine di lucro.
Nonostante l'affermazione della natura privata delle Fondazioni, il
patrimonio da esse gestito manteneva sempre un forte legame con la
comunità locale, e pertanto si pose il problema di fare in modo che gli
amministratori potessero render conto del loro operato nei confronti della
collettività.
A tal fine, il decreto prevedeva che l'attività delle Fondazioni si improntasse
ai principi di trasparenza e visibilità, imponendo ad esse di seguire
procedure di tipo pubblicistico analoghe a quelle messe in atto dagli apparati
amministrativi (con particolare riferimento alle modalità di individuazione e
di selezione dei progetti e delle iniziative da finanziare).
La legge Ciampi, in conclusione, ha avuto il merito di aver individuato una
missione delle Fondazioni nel campo sociale e di averne definitivamente
sancito la natura privata, limitandone tuttavia fortemente l'autonomia
statutaria (il D. Lgs. n. 153/1999 stabilisce dettagliatamente, ad esempio, i
fini da perseguire, l'ammontare minimo del reddito da destinare ai settori
rilevanti, i poteri e i criteri di funzionamento degli organi, ecc.).