6
Nel capitalismo flessibile la grande impresa fordista ha lasciato il posto a modelli
produttivi reticolari, perché sono processi lavorativi disponibili a reinvenzioni
radicali rispetto a gerarchie piramidali come quelle che dominavano l'era fordista.
Inoltre, l'impresa a rete è un "sistema frammentato", che consente di eliminare
una parte del sistema senza distruggerne altre alla presenza di un mutamento
repentino del mercato o di avverse condizioni sociali del luogo di produzione,
come ad esempio l'elevato costo del lavoro.
La flessibilità non è un’opportunità, ma un rischio, una minaccia, una perdita di
diritti e un salto nel buio.
Il capitalismo flessibile è segnato quindi da disorientamento, ansia e angoscia.
Crescono forme di lavoro atipico, in risposta alla crescente richiesta di flessibilità
da parte delle imprese, che operano in un contesto produttivo ed economico
profondamente diverso rispetto a quello dell’inizio del secolo.
Purtroppo oggi la flessibilità sembra essere l’imperativo economico di tutte le
attività sociali, e al quale tutte le società devono saper rispondere. Sembra
diventata la panacea contro tutti i mali che affliggono sia il mondo del lavoro sia
l’occupazione e l’antidoto principale contro la disoccupazione e le forme di
lavoro irregolare.
Nel primo e nel secondo capitolo si descriverà la globalizzazione e la
postmodernità contesti in cui la flessibilità opera.
Il terzo e il quarto capitolo tratteranno di tutti gli aspetti della società flessibile
e del il lavoro atipico, quali sono le forme principali, le più importanti posizioni
in merito.
Nel quinto capitolo si presenterà il fenomeno attraverso i dati quantitativi relativi
a quella che è la reale diffusione del fenomeno dal punto di vista della domanda e
dell’offerta: i lavoratori e le imprese in Italia. I dati ci serviranno per capire dove
7
si concentra maggiormente il lavoro atipico, quali sono i segmenti della
popolazione e delle imprese maggiormente interessati.
Il capitolo conclusivo sarà indirizzato ad una componente specifica del mondo
del lavoro, i giovani diplomati. Nel corso del capitolo si cercherà, tramite una
ricerca qualitativa analizzando venti interviste sull’argomento, di capire qual è la
portata del fenomeno all’interno del nostro paese, quanto le nuove forme
contrattuali rappresentino una chance o una trappola di ingresso nel mondo del
lavoro. Le interviste serviranno per riportare esperienze reali su quelle che sono
le vite e i percorsi lavorativi di chi sceglie o subisce l’atipico.
8
CAPITOLO PRIMO
La società moderna e postmoderna
Il termine “moderno” compare nel basso latino alla fine del V secolo, per
caratterizzare il mondo cristiano rispetto al greco – romano: “modernus” è un
aggettivo che deriva dall’avverbio “modo”, che significa “appena, recentemente,
adesso”. Il suo senso è quindi essenzialmente cronologico, non esente però da
una connotazione di valore.
Nel medioevo tale connotazione aveva un senso svalutativo: “modernus” era ciò
che è recente in quanto decadente, comportava cioè la consapevolezza di una
senescenza. La distinzione tra “antiqui e moderni” stava a significare infatti una
superiorità degli antichi sui moderni, superiorità ideale, poiché l’antichità non
acquisiva il suo valore dal mero fatto della distanza temporale, ma era soprattutto
il luogo stesso dei veri valori, dei valori eterni.
Verso la fine del XII secolo comincia però ad introdursi in tale distinzione l’idea
di un’accumulazione storica che diventerà senso del progresso facendo spostare
l’ago della bilancia a favore dei moderni.
Con l’Illuminismo, questi tratti progressivi si coniugano con l’idea di
un’emancipazione che si attua grazie all’azione critica e illuminatrice della
ragione.
Nell’Ottocento la radicalizzazione del tempo fondata sulla percezione del
“novum” accentua il momento della rottura e della discontinuità: il “novum”
diventa un valore da perseguire di per sé, e anzi da anticipare, al di là di ogni
possibile accumulazione, tradizione e continuità storica
2
.
2
G.Chiurazzi, “Il postmoderno”, Paravia, Milano 1999
9
Staccandosi dal passato, la novità condanna così ciò che la precede
all’obsolescenza, imponendosi di per sé come un progresso.
Da questo spirito innovatore, nel Novecento, il distacco tra antichi e moderni si
comprime sempre di più nello spazio di una generazione o di pochi anni,e
l’inseguimento del nuovo diventa anticipazione.
La modernità, secondo Anthony Giddens
3
,
si potrebbe identificare con un
“bisonte della strada” (juggernaut), un “mostro” di enorme potenza che
collettivamente, come esseri umani, riusciamo in qualche modo a governare ma che
minaccia di sfuggire al nostro controllo e andarsi a schiantare. Il “mostro” schiaccia
coloro che gli resistono e se a volte sembra seguire un percorso regolare, in altre
occasioni sterza bruscamente e sbanda in direzioni che non possiamo prevedere”
4
.
La corsa non è certo priva di piaceri e compensi ma fintanto che perdurano le
istituzioni della modernità non saremo mai in grado di controllare la rotta del
viaggio. Non saremo mai nelle condizioni di sentirci del tutto al sicuro, perché le
strade sono piene di rischi ad alto tasso di conseguenze.
È facile comprendere come una crisi del moderno si sia delineata proprio a partire
da esperienze che hanno messo in discussione l’idea di progresso. Alcuni segni di
questa crisi sono conseguenza di una radicalizzazione distorcente di caratteristiche
proprie del moderno; altri invece stanno ad indicare una vera e propria inversione
di tendenza: in primo luogo le due guerre mondiali, che hanno svelato il
potenziale distruttivo di una guerra condotta con criteri di pianificazione a livello
industriale, il crescente disagio dell’uomo in una società “razionalizzata”, in cui si
affermano processi produttivi alienanti, le conseguenze distruttive, per lungo
tempo sottovalutate, di uno sfruttamento indiscriminato della natura; l’emergere
3
A. Giddens, “Le conseguenze della modernità”, Il Mulino , Bologna 1994
4
ibidem cit. pag.138
10
sulla scena mondiale di nuovi soggetti politici portatori di istanze di
rivendicazione che mal si conciliano con l’universalismo dell’età moderna
5
.
Dal XX secolo molti studiosi sostengono che sta per dischiudersi una nuova era:
la postmodernità.
5
G.Chiurazzi, “Il postmoderno”, Paravia, Milano 1999
11
1.1 Le caratteristiche della società moderna
1.1.1 La discontinuità
Lo sviluppo sociale moderno è discontinuo rispetto al passato; infatti, i modi di
vita introdotti dalla modernità ci hanno allontanato, in maniera nuova, da tutti i
tipi tradizionali di ordinamento sociale. Tanto per estensione che per intensità, le
trasformazioni legate alla modernità appaiono più profonde della maggior parte
dei mutamenti avvenuti nelle epoche precedenti.
Diversi sono gli aspetti della discontinuità che entrano in gioco nell’epoca
moderna. Uno è il ritmo del cambiamento in cui la rapidità con la quale si
succedono i cambiamenti nelle condizioni della modernità è estrema, basti
pensare alla tecnologia.
Una seconda discontinuità è la portata del cambiamento: via via che diverse aree
del pianeta stringono tra di loro legami reciproci, l’intera superficie della terra è
virtualmente attraversata da ondate di trasformazione sociale.
Un terzo aspetto riguarda la natura delle istituzioni moderne. Alcune forme
sociali moderne non trovano riscontro nella precedenti epoche storiche, sono
quindi delle novità, mentre altre forme presentano una continuità con i
preesistenti ordinamenti sociali. Ad esempio gli insediamenti urbani inglobano
spesso nuclei di città tradizionali ma in realtà l’urbanistica moderna segue
principi del tutto diversi.
12
1.1.2 Le dimensioni istituzionali
Le dimensioni istituzionali della modernità, strettamente legati fra loro, sono il
capitalismo, la sorveglianza, il potere militare, l’industrialismo.
Il capitalismo (accumulazione del capitale nel contesto di mercati competitivi del
lavoro e merci) implica l’isolamento della sfera economica da quella politica nel
quadro di mercati di lavoro e delle merci che operano in concorrenza.
Le società capitaliste sono una particolare sottospecie delle società moderne.
L’impresa capitalistica ha un ruolo di primo piano nell’affrancamento della vita
sociale moderna nelle istituzioni nel mondo tradizionale. Il capitalismo è di per
sé molto dinamico e instabile sia all’interno sia verso l’esterno degli stati. Ogni
riproduzione economica è una riproduzione allargata perché l’ordinamento
economico non può restare in uno stato statico di equilibrio. L’avvento del
capitalismo ha preceduto lo sviluppo dell’industrialismo: la produzione
industriale e il costante rivoluzionamento tecnologico rendono molto più
efficienti ed economici e processi produttivi.
Il contratto di lavoro capitalistico non si fonda più sul possesso diretto di mezzi
di violenza (come accadeva in precedenza) ma è libero. I rapporti di classe
s’inseriscono direttamente nella struttura di produzione. La violenza è così
“esclusa” dal contratto di lavoro e concentrata nelle mani delle autorità statali.
La sorveglianza (controllo dell’informazione e supervisione sociale) è a sua
volta fondamentale per tutti i tipi di organizzazione associati all’avvento della
modernità che storicamente hanno intrecciato il loro sviluppo con quello del
capitalismo. Ha avuto spesso a che fare con lo sviluppo dell’industrialismo
consolidando il potere amministrativo nelle fabbriche. Analogamente vi sono
stretti rapporti tra le attività di sorveglianza e la nuova natura del potere militare
(controllo dei mezzi della violenza).
13
L’apparato militare diventa un supporto secondario dell’egemonia interna delle
autorità civili, mentre le forze armate sono in gran parte rivolte contro gli altri
stati.
Sono presenti rapporti diretti tra il potere militare e l’industrialismo, la cui
principale espressione è l’industrializzazione della guerra. L’industrialismo
(trasformazione della natura) diventa l’asse portante dell’interazione degli esseri
umani con la natura.
1.1.3 Il dinamismo
Dietro alle dimensioni istituzionali della modernità si celano le tre fonti del
dinamismo: l’appropriazione riflessiva del sapere, la separazione del tempo e
dello spazio e lo sviluppo di meccanismi di disaggregazione.
La riflessività della vita sociale moderna consiste nel fatto che le pratiche sociali
sono costantemente esaminate e riformate alla luce dei nuovi dati acquisiti,
alterandone così il carattere in maniera sostanziale.
L’appropriazione del sapere non avviene in maniera omogenea: spesso coloro
che si trovano in posizione di potere e che sono in grado di metterlo al servizio di
interessi settoriali possono accedervi in maniera differenziale.
Si sta configurando, a differenza delle società premoderne, uno svuotamento del
tempo e del luogo nel quale i rapporti fra le persone sono “assenti” perché
dislocate lontano da un’interazione faccia a faccia. Il luogo diventa sempre più
fantasmagorico. La separazione dello spazio e del tempo non va visto come uno
sviluppo unilaterale e privo di rovesciamenti ma come condizione primaria di
alcuni processi di disaggregazione.
14
Nel processo di disaggregazione i rapporti sociali sono nella società moderna
tirati fuori da contesti locali di interazione e ristrutturati su archi di spazio-tempo
indefiniti.
Questo avviene con riferimento a due meccanismi fondamentali: la creazione di
emblemi simbolici (la moneta) e di sistemi esperti cioè sistemi di competenza
professionale o tecnica che organizzano ampie aree negli ambienti materiali e
sociali nei quali viviamo oggi. In questo modo la società è stirata nello spazio-
tempo e si pone il problema delicato della fiducia.
1.1.4 La dicotomia fiducia e rischio
La fiducia è il confidare nell’affidabilità di una persona o di un sistema in
relazione a una determinata serie di risultati o di eventi. La natura delle
istituzioni moderne è profondamente legata ai meccanismi della fiducia nei
sistemi astratti.
La fiducia opera in ambienti di rischio ed è collegata all’assenza nel tempo e
nello spazio. In condizioni di modernità la fiducia esiste nel contesto della
generale consapevolezza che l’attività umana è socialmente creata piuttosto che
essere data dalla natura delle cose o determinata dall’influenza divina. Il rischio è
la fiducia si compenetrano: la fiducia serve normalmente a ridurre o minimizzare
i pericoli ai quali determinati tipi di attività sono esposti.
Il concetto di rischio
6
è strettamente connesso con le idee di probabilità e di
incertezza: non si può dire di correre un rischio dove il risultato è certo al cento
per cento. Cominciò ad essere largamente usato solo in una società orientata verso
il futuro e attivamente impegnata a rompere con il passato.
6
A. Giddens, “ Il mondo che cambia”, il Mulino , Bologna 2000
15
I due aspetti del rischio - i suoi lati positivi e negativi - sono evidenti fin dagli
inizi della società industriale moderna. Il rischio è il dinamismo che muove una
società legata allo scambio, che intende determinare il proprio futuro anziché
lasciarlo alla religione a alla tradizione.
Un esempio è il capitalismo moderno che si innesta nel futuro calcolando i
profitti e le perdite come un processo continuo ed è normale desiderare di ridurre
il più possibile molti rischi. Questo spiega perché l’idea di rischio si accompagna
a quella di assicurazione. Non solo quelle private o commerciali ma lo stesso
welfare state è essenzialmente un sistema di gestione del rischio.
Se, infatti, il rischio è sempre stato pensato come un modo di affrontare il futuro,
di gestirlo e di condurlo sotto il nostro dominio nella società post moderna, i
nostri tentativi di controllare il futuro tendono a ritorcersi contro di noi,
costringendoci a considerare modi diversi di rapportarci con l’incertezza.
Ci sono due tipi di rischio: il primo è il rischio esterno cioè proveniente dagli
elementi fissi della natura e della tradizione; il secondo è il rischio costruito, cioè
riconducibile all’impatto della nostra conoscenza manipolatoria sul mondo. In
tutte le culture tradizionali e anche nella società industriale fino alla soglia
dell’epoca attuale, gli esseri umani si sono preoccupati dei rischi derivanti dalla
natura esterna: cattivi raccolti, inondazioni e pestilenza.
A un certo punto, tuttavia (molto recentemente in termini storici) abbiamo
cominciato a preoccuparci meno di quello che la natura può farci, e più di quello
che noi stiamo facendo alla natura; ciò segna la transizione dal predominio del
rischio esterno a quello del rischio costruito.
Siamo tutti coinvolti nella gestione del rischio. Con l’estendersi del rischio gli
stati devono collaborare fra loro, poiché sono ben pochi i rischi di nuovo genere
che riguardano singole nazioni.
16
Vivere in un’era globale significa venire a patti con tutta una tipologia di nuove
situazioni di rischio come per esempio la crescita del potere totalitario, i conflitti
nucleari, il disastro ecologico e il collasso dei meccanismi di crescita economica.
17
1.2 La postmodernità
La nostra contemporaneità può essere identificata anche con il nome di
postmoderno
che matura entro il movimento degli anni Sessanta e sviluppata
successivamente negli anni Ottanta
7
.
Il termine postmoderno, letteralmente, non riguarda una determinazione
temporale ma è evocativo ed indeterminato. Il postmoderno è comunque legato
all’esperienza di una rottura o di una crisi. Il progetto postmoderno è rimasto
incompiuto, abbandonato, dimenticato a causa del capitalismo nel quale il
dominio del soggetto sugli oggetti non si accompagna né ad una maggiore libertà
né ad un miglioramento dell’educazione. Il successo è l’unico criterio di giudizio
che crea delegittimazione, non universalità. È la fine delle grandi narrazioni:
cristianità, progresso, finalità della storia. In breve, il postmoderno è caratterizzato
dal declino del mito dell’uno.
Il disfacimento dell’intero lascia spazio alla pluralità, al frammento, alla
contaminazione e alla deriva.
8
D’altra parte “post” indica semplicemente un dopo. Il dopo in quanto tale non
denota alcunché
9
: è il bastone da ciechi degli intellettuali.
“Si tratta di una mezza diagnosi, che si limita a stabilire che non possiamo più servirci
del vecchio apparato concettuale. In ciò si nasconde la pigrizia intellettuale perché il
compito dell’intellettuale è quello di sviluppare concetti con l’aiuto dei quali la società e
la politica possono riorganizzarsi e ridefinirsi”
10
.
7
S.Natoli, “Progresso e catastrofe”, Marinotti , Roma 1999
8
J.F Lyotard, “Il postmoderno spiegato ai bambini”, Feltrinelli , Milano 1989
9
U.Beck ,“Libertà o capitalismo”, Carocci, Roma 2001
10
ibidem cit.pag.19
18
1.2.1 Critiche e proposte
Secondo Fredric Jameson
11
è del tutto errato intendere il postmoderno come uno
degli stili del mondo contemporaneo, ma si deve intenderlo come la dominante
interculturale, l’ideologia ( nel senso marxiano) del tardo capitalismo. Il
postmoderno è la cultura del capitalismo multinazionale che tende, come ogni
ideologia, alla giustificazione di questo ordine economico. Questo tardo
capitalismo, che non è un’epoca postindustriale, bensì la forma più pura di
capitalismo che si sia finora affermata, costituisce una radicalizzazione delle
caratteristiche della società capitalista borghese emersa a partire dalla rivoluzione
industriale: in primo luogo la riduzione di qualsiasi prodotto a merce, la
generalizzazione del valore di scambio fino alla scomparsa della memoria di
qualsiasi valore d’uso, e il conseguente valore d’uso, e l’affermarsi di una società
con uno stile di vita consumistico che domina gusto e moda.
Di questa estrema pervasività del mercato e delle forme economico-culturali del
capitalismo sono oggi portatori, proprio i mass-media. La superficialità e la
frivolezza della società dello spettacolo e della cultura dell’immagine comporta
un privilegio delle coordinazioni spaziali rispetto a quelle temporali: nel mondo
postmoderno tutto è sincronico. Il mezzo televisivo, il computer e l’immagine,
oggetti dell’esaltazione estetizzante del postmoderno, sono i simboli di una
cultura che ha abolito la profondità (spaziale e temporale), riducendosi ad un
vissuto superficiale e puntuale, in cui tutto viene immediatamente trasformato in
immagine.
Si attua così il passaggio dal soggetto alienato del mondo moderno al soggetto
frammentato del postmoderno: un soggetto con un vissuto spezzettato che però
vive in questa condizione in maniera quasi euforica, sovraeccitata. Questa
11
F.Jameson, “ Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo”, Garzanti, Milano 1989
19
difficoltà del soggetto post moderno di ricostruire in termini coerenti il proprio
vissuto è del resto una conseguenza della stessa complessità della società
postmoderna, che ne rende difficile la rappresentazione, condizione essenziale per
definire sia individualmente sia socialmente, la propria collocazione nel mondo.
Per Jurgen Habermas
12
il postmoderno non è il risultato di una degenerazione, di
un fallimento o ancor meno della presa di coscienza dei limiti del moderno, ma
piuttosto il tentativo di sbarazzarsi del progetto di emancipazione proprio della
modernità. Questo ritorno al premoderno, cioè ad una condizione paradossale,
tende non a far proseguire il moderno, correggendone le distorsioni, ma quasi a
saltarlo.
Secondo Jean Francois Lyotard
13
, a differenza di Habermas, il postmoderno non
si pone affatto come antitetico al moderno. Il postmoderno è frammentazione del
modo di vedere e sentire; è un processo di delegittimazione delle istanze
universalistiche del moderno (che sono i metaracconti), i germi di tale
delegittimazione si annidano nella dialettica stessa della modernità.
Il postmoderno quindi
non è da collocare semplicemente dopo il moderno, né
contro di esso, ma è piuttosto da intendere come un movimento celato entro la
stessa modernità.
La modernità entra in crisi perché confutata dalla storia ma anche per le
trasformazioni interne alla società postindustriale che comportano una retroattiva
trasformazione del “sapere”. Il sapere è costretto a cambiare il proprio statuto per
via delle condizioni stesse della sua trasmissibilità, che sono ormai quelle della
informatizzazione, per cui tutto ciò che non soddisfa queste condizioni è destinato
ad essere abbandonato.
Per Ulrich Beck
14
la modernità viene fatta seguire da una “seconda modernità”.
12
J.Habermas, “Moderno, postmoderno e neoconservatorismo”, Alfabeta n 22, 1981 pp. 15-17
13
J.F Lyotard, “ La condizione post moderna, Feltrinelli, Milano 1979
14
U.Beck, “Libertà o capitalismo”, Carocci, Roma 2001