5
contesto, sia esso politico, economico, culturale o sociale (Avallone,
1994).
Nell’odierna società post-industriale il lavoro costituisce per le
persone un oggetto ricco di significati psico-sociali: non solo è il
principale strumento per ottenere le risorse materiali indispensabili al
proprio sostentamento, ma rappresenta un valore centrale nella nostra
cultura e svolge numerose funzioni di natura psicologica, sociale e
normativa (Romagnoli, Sarchielli, 1983).
Se si guarda al nostro processo di civilizzazione appare evidente come il
lavoro abbia assunto significati diversi in periodi e aree geo-culturali
differenti. Nel mondo occidentale, le antiche tradizioni greco-latina e
giudeo-cristiana lo consideravano come attività servile. E’ con il
cristianesimo che esso assume il significato di redenzione e riscatto; in
seguito, il cattolicesimo gli conferisce caratteristiche positive: il
dedicarsi all’attività lavorativa era concepito come indice di integrità
morale e spirituale della persona, che quindi fuggiva l’ozio e la pigrizia.
Il massimo riconoscimento al lavoro arriva con la riforma protestante:
esso viene considerato il modo migliore per servire Dio e rispondere alla
sua chiamata. L’enfasi sul lavoro, però, viene ridimensionata intorno alla
fine del secolo scorso, quando esso assume diverse funzioni: economica,
dando modo alla persona di prendersi cura di se stessa e del proprio
nucleo familiare; di sviluppo soggettivo, divenendo fonte di identità,
autostima ed autorealizzazione; relazionale, poiché la persona che lavora
interagisce in un ambiente costituito da rapporti interpersonali e di ruolo;
6
sociale, infine, poiché il ruolo lavorativo conferisce un certo status e
prestigio (Bellotto, 1997).
Da tali considerazioni, dunque, si evince come il lavoro sia stato da
sempre parte integrante della quotidianità: ad esso ci si può sottrarre
oppure lo si può considerare come la fonte primaria di ogni diritto della
persona.
1.2 I DATI SULL’OCCUPAZIONE
Da un monitoraggio sulle forze di lavoro effettuato dal Ministero del
Lavoro nell’anno 2001 e con riferimento al 2000, emergono dati
confortanti circa l’aumento occupazionale nel nostro Paese.
Nel 2000 la fase di crescita, avviatasi timidamente dalla primavera
del 1995, è proseguita denotando ulteriori segni di miglioramento. Nella
media dell'anno la crescita è stata dell'1.9%.
Come è possibile constatare dal grafico (Fig.1), in termini di tasso
d'occupazione, nel gruppo d'età 15-64 anni, si è giunti al 53.5% (si era al
50.6% all'avvio di questa fase di crescita, nel 1995).
Un dato particolarmente interessante appare quello legato alle fasce
d'età 15-24 e 55-64: nella prima fascia il numero di lavoratori dell'area
Centro-Nord supera quello dell’area Meridione; al contrario, nella fascia
d'età compresa tra i 55 e i 64 anni, la situazione è capovolta: infatti, si
rileva una maggiore presenza di lavoratori meridionali. Questo dato
potrebbe dipendere, secondo quanto affermato nel rapporto del Ministero
del Lavoro, dal fatto che al Meridione l'ingresso nel mercato del lavoro
7
avviene più tardi rispetto alle altre aree geografiche: di conseguenza
l'uscita dallo stesso viene posticipata.
Figura 1: Tasso di occupazione per fasce d’età e aree geografiche (Anno 2000)
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30
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80
15-24 25-54 55-64 15-64
Centro - Nord
Mezzogiorno
Tabella 1: Tasso di occupazione per fasce d’età e aree geografiche (Anno 2000)
15-24 25-54 55-64 15-64
Centro - Nord 34,8 75,4 26,2 59,9
Mezzogiorno 14,5 53,9 30,8 42
8
Sempre secondo quanto emerge dal monitoraggio effettuato dal
Ministero del Lavoro, la componente femminile ha continuato a
registrare risultati migliori della media: nel gennaio 2001 il tasso di
crescita dell'occupazione femminile era del 5.1% e nella media del 2000
il tasso d'occupazione (nella classe d'età 15-64 anni) era giunto al 39.6%
(era 35.4% nel 1995). Anche se i livelli della partecipazione femminile al
mercato del lavoro rimangono strutturalmente bassi, specie nel
Mezzogiorno, appare evidente una chiara disposizione verso una
riduzione dei gap esistenti.
Un'inversione di tendenza, rispetto al pressoché ininterrotto calo
precedente, si registra anche per quanto riguarda l'occupazione dei più
anziani: il tasso d'occupazione nella classe d'età 55-64 è stato nella
media del 2000 pari al 27.7%, dopo che nel periodo 1993-99 era passato
dal 30.4 al 27.6%.
9
Figura 2: Tasso di occupazione per sesso e fasce d’età (Anno 2000)
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30
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15-24 25-54 55-64 15-64
MASCHI
FEMMINE
Tabella 2: Tasso di occupazione per sesso e fasce d’età (Anno 2000)
15-24 25-54 55-64 15-64
Maschi 29,6 84,7 40,9 67,5
Femmine 22,1 50,9 15,3 39,6
10
1.3 I BISOGNI DELLA PERSONALITA’ LAVORATIVA
“Una delle variabili più significative, indipendentemente dal tipo di
impresa, è proprio quella umana” (Novaga, 1997, pp. 91). Infatti,
l’individuo che si appresta ad entrare in un’organizzazione e a divenirne
parte reca con sé, anche nel lavoro, la propria individualità (Maslow,
1976): individualità che secondo Allport è la caratteristica che sta alla
base della personalità (Allport, 1937).
L’uomo che lavora è dunque portato a far emergere la propria personalità
e a soddisfare dei bisogni: evitare l’insicurezza, conquistare la stima e
l’approvazione altrui, provare emozioni, raggiungere un certo status
sociale, accrescere il proprio Io. Tutto questo crea la necessità di un
adattamento tra l’individuo e l’organizzazione: se ciò non avviene ne
scaturiscono dei conflitti (Kahn e all., 1964).
A questa necessità di adattamento possono essere ricondotti i bisogni
della personalità lavorativa (Tannenbaum, 1975), raggruppabili in due
macrocategorie: i motivi personali e i motivi sociali.
Tra i motivi personali rientrano:
- il bisogno di affiliazione: quel bisogno del contatto sociale che è
insito nell’uomo. Esso nasce in risposta a certe situazioni, quali
minacce che provocano paura, oppure in condizioni di frustrazione
(Schachter, 1959). Infatti l’individuo ha la tendenza ad instaurare
delle relazioni con persone che stanno vivendo un’esperienza
simile alla sua: la condivisione sembra ridurre lo stato d’ansia ed
appagare il desiderio di protezione.
11
- i motivi egotici: bisogno di autostima. Esso è accompagnato da
sentimenti di fiducia in se stessi, di adeguatezza, di tranquillità; la
frustrazione di questo bisogno fa sì che l’individuo si percepisca
inferiore, insicuro e debole (Maslow, 1968).
- i motivi di potere: bisogno di controllare gli altri. Esso è segno di
successo e, se soddisfatto, si accompagna a sensazioni di
superiorità e dominio; se insoddisfatto, questo bisogno porta a
sensazioni di inferiorità e soggezione.
- il bisogno di sicurezza: necessità di protezione, sia nel presente
che nel futuro; è nella sicurezza che i bisogni trovano
soddisfazione e la persona si sente sicura di poter continuare a
soddisfarli (Novaga, 1997). La frustrazione di tale esigenza
provoca ansia ed apprensione, legate anche a fattori economici e
sociali.
Tra i motivi sociali rientrano:
- il bisogno di appartenenza: bisogno di sentirsi membro. In ambito
organizzativo spesso scaturisce dalla percezione, da parte
dell’individuo, che le possibilità di sviluppo siano esigue: è una
reazione difensiva a tale situazione.
- il bisogno di realizzazione: è la tendenza dell’individuo a trovare
la via del successo (Kast, Rosenzweig, 1970) e si manifesta
soprattutto in quelle persone che hanno una spinta interna al
raggiungimento di uno scopo.
- il bisogno economico: in passato la ricompensa economica veniva
considerata come l’unica motivazione al lavoro, ma adesso si pone
12
maggiore attenzione ai suoi aspetti psicologici: infatti l’entità dello
stipendio accresce, o ridimensiona, il concetto che l’individuo ha
di se stesso (Tannenbaum, 1975). Esso diviene simbolo della
posizione sociale ricoperta e del successo raggiunto in ambito
lavorativo, dando la misura del livello di autorealizzazione. E’ in
conseguenza di ciò che la retribuzione economica ricopre un ruolo
ambivalente: se la si considera esclusivamente sotto l’aspetto
economico essa è fonte di insoddisfazione, ma se la si considera
motivo di realizzazione professionale diviene fonte di
soddisfazione (Di Naro, Novaga, 1977).
Al giorno d’oggi forse il bisogno di sicurezza è quello maggiormente a
repentaglio.
1.4 COSA SI INTENDE PER FLESSIBILITA’
Il mondo del lavoro è in rapida e continua evoluzione e noi siamo
costretti a correre per mantenere il passo: che cosa sarà del posto di
lavoro organizzato e protetto? E’ lecito sognare ancora il posto fisso?
Ovunque si fa un gran parlare di flessibilità: “bisogna essere più
flessibili”, “occorrono orari di lavoro flessibili”, “questi sono i tempi del
lavoro flessibile”, e via dicendo.
Ma cosa implica la flessibilità nell’ambito lavorativo? Sennett
constata che si chiede ai lavoratori di essere più versatili, pronti ai
cambiamenti con breve preavviso, di correre continuamente qualche
rischio, di non far conto su leggi e contratti, di convincersi che non
esistono più carriere intese come percorsi professionali disegnati e
13
garantiti nel lungo termine (Sennett, 1999). L’immediata conseguenza di
ciò è che la flessibilità generi ansietà: “Se la stabilità di occupazione è
compromessa, ai problemi economici si accompagnano quelli
esistenziali, all’insicurezza si accompagna la perdita dell’identità
lavorativa” (Novara, Sarchielli, 1996, pp. 14).
Nel suo libro Sennett racconta la storia di un gruppo di programmatori
di mezza età che, licenziati, si ritrovano spesso in un Caffè a discutere
del loro fallimento professionale e tentano di ricostruire quanto accaduto:
sentono di essere stati gettati via come rami secchi dal mondo
produttivo, prima di avere i capelli grigi. I componenti del gruppo non
sanno più ritrovare un'identità e regrediscono in una vita privata
insignificante. L’autore sfrutta questo episodio per porre in atto la sua
provocazione: secondo lui la vita personale e il carattere di chi è
coinvolto nell’economia “flessibile” verrebbero profondamente
modificate e poste a grave repentaglio, anche mentale (come accaduto al
gruppo di programmatori). L’originalità della tesi di Sennett sta nel fatto
che egli riconduce ad un solo e specifico agente causale la possibile
disgregazione della personalità e del carattere: il capitalismo flessibile,
cioè quella flessibilità che viene esaltata come fattore risolutivo dei
problemi della società post-moderna e considerata l’attitudine per
eccellenza di chi desidera essere parte creativa dell’odierna società
(Sennett, 1999).
Negli ultimi anni l’evoluzione dell’organizzazione produttiva ha
portato ad un ricorso crescente, da parte delle imprese, a forme di
flessibilità nell’utilizzo di lavoro. A partire dall’accordo stipulato nel
14
1993 tra governo e parti sociali, nuove forme di flessibilità sono state
messe a disposizione dei diversi settori produttivi allo scopo di
aumentare la competitività del sistema delle imprese. Esistono, dunque,
diversi tipi di flessibilità (Giaccardi, 2000), ed una prima distinzione può
essere operata tra flessibilità interna ed esterna:
- interna: è quella che riguarda le scelte strategiche disponibili
all’impresa di fronte alle variazioni della domanda, la flessibilità di
orario in primis. Un esempio applicativo di questa forma di
flessibilità viene dal sistema tedesco;
- esterna: consiste nell’adeguamento dell’organico alle esigenze
produttive del mercato del lavoro. Il sistema americano è orientato
in tal senso (Giaccardi, 2000).
Esistono, poi, delle altre forme di flessibilità:
- funzionale: consente alle imprese di adeguare le condizioni di
impiego del fattore lavoro all’andamento del mercato, modificando
i regimi di orario di lavoro e, nelle fasi di espansione,
intensificando il ricorso a prestazioni lavorative al di là dell’orario
contrattuale;
- quantitativa: si riferisce alla possibilità di aumentare o ridurre
liberamente il numero di addetti e le ore lavorate;
- retributiva: si fonda sulla possibilità di aumentare o ridurre la
retribuzione sulla base di parametri extra-lavorativi (come il sesso,
il rendimento, ecc.) (Caravella, Di Nicola, Della Ratta-Rinaldi,
1997).
15
Il lavoro a tempo determinato, il part-time (verticale od orizzontale
che sia), le collaborazioni coordinate e continuative, il lavoro
temporaneo rientrano tutti in quella categoria che viene definita “lavoro
flessibile o atipico”.
Gli effetti della flessibilità sono già noti, in parte, nei paesi in cui è
divenuta realtà. Altri, ora non immaginabili, emergeranno in futuro.
Così scrive nel suo libro Enzo Mattina (2001, pp.111) presidente di
Confinterim, l’Associazione italiana delle società di fornitura di lavoro
temporaneo: “Il lavoro c’è, ma è discontinuo; non per questo è
consentito sprecarlo in attesa di un improbabile recupero di continuità. E
chi deve lavorare per realizzarsi, sostentarsi e avere un ruolo sociale
deve stare nel circuito del lavoro, anche se dovrà fare i conti con
momenti d’interruzione e con cambi di velocità”.
16
CAPITOLO II: IL LAVORO TEMPORANEO: UN ESEMPIO
DI FLESSIBILITA’
Con l’entrata in vigore della legge 196 del 24 giugno 1997 anche in
Italia, come già avvenuto in altri Paesi europei (quali Francia, Germania,
Inghilterra) viene regolamentato il Lavoro Temporaneo, altresì detto
“lavoro interinale” o “lavoro in affitto”: questa novità porta ad una vera e
propria svolta culturale e strategica per l’economia italiana.
Si tratta di una nuova tipologia contrattuale che prevede la fornitura
di lavoratori temporanei alle imprese che ne facciano richiesta. I soggetti
coinvolti sono:
™ l’impresa fornitrice, prestatrice dei lavoratori temporanei
™ l’impresa utilizzatrice, presso la quale i lavoratori temporanei
prestano la loro opera
™ i lavoratori temporanei
Il lavoratore viene assunto dall’impresa fornitrice, ma presta la
propria attività, per un periodo di tempo determinato, presso l’impresa
utilizzatrice agendo sotto il controllo e la direzione di quest’ultima
(Gazzetta Ufficiale, 1997). Ci troviamo di fronte ad un’inedita struttura
complessa che vede i rapporti di lavoro articolati in: contratto
commerciale tra azienda utilizzatrice ed agenzia fornitrice di lavoro
interinale, e contratto di lavoro tra agenzia fornitrice di lavoro interinale
e lavoratori temporanei. Caratteristica
del lavoro in affitto è, dunque,
l’esistenza di questa relazione economico-giuridica di tipo triangolare
che, peraltro, si basa soltanto su due rapporti contrattuali; non esiste,
17
infatti, alcun vincolo contrattuale tra chi utilizza concretamente la
prestazione di lavoro ed il lavoratore temporaneo (Liso, Carabelli, 1999):
si parla, dunque, di rapporto de facto.
Ma come si articolano realmente i rapporti tra questi tre attori?
All’occorrenza le aziende si rivolgono a vere e proprie agenzie di lavoro
temporaneo: queste hanno il compito di ricercare e selezionare il
lavoratore adeguato che risponda alle aspettative ed in grado di
soddisfare le esigenze manifestate dall’azienda cliente. Nel momento in
cui la società di lavoro temporaneo comprende le necessità dell’impresa
utilizzatrice di coprire temporaneamente una posizione lavorativa, avvia
un processo selettivo e specializzato fino a trovare, tra i vari candidati,
quello idoneo allo scopo (Galatino, 1997); a questo punto il candidato
prescelto viene mandato in “missione” presso l’azienda che ne ha fatto
richiesta, la quale si assume la responsabilità dell’integrazione del
lavoratore nel proprio organico e ne controlla l’adempimento dei compiti
assegnati. Questo processo consente alle aziende di soddisfare le proprie
esigenze di flessibilità e permette di assumere per periodi limitati. Tale
breve assunzione dà la possibilità al lavoratore, pur se per un lasso di
tempo determinato, di inserirsi in un’azienda, di crescere
professionalmente e di acquisire quella “esperienza” tanto richiesta nel
mondo del lavoro. Inoltre, concluso il contratto interinale, l’impresa
utilizzatrice può decidere di tenere con sé il lavoratore assumendolo
direttamente (G. U. 1997). E’ per questo motivo che il contratto di lavoro
temporaneo rappresenta spesso un vero e proprio trampolino di lancio
verso un’assunzione definitiva.
18
2.1 QUALI VANTAGGI PER IL LAVORATORE?
Il ricorso al lavoro temporaneo nasce, innanzitutto, da esigenze
produttive oggettive e quindi le prestazioni richieste hanno contenuti,
modalità di svolgimento e trattamenti perfettamente speculari a quelle
del lavoro a tempo indeterminato. Questo dà modo a chi lo pratica di
misurarsi con tutte le sfaccettature del rapporto di lavoro strutturato e
formalizzato; inoltre offre al lavoratore la possibilità di acquisire
conoscenza diretta di diversi processi lavorativi, consentendogli di
valutare sul campo quello che più si adatta alle sue aspettative e alla sua
abilità (Mattina, 2001) e di arricchire il proprio bagaglio formativo.
Per chi si trova alla ricerca di una prima occupazione, ma anche per
chi non ha un impiego, diventare lavoratore interinale vuol dire aver
trovato un’occupazione temporalmente limitata ma perfettamente legale
e trasparente, che offre gli stessi diritti (retributivi e contributivi) del
lavoratore di pari livello assunto a tempo indeterminato. La persona che
si reca in un’agenzia di lavoro interinale ha modo di vagliare le
numerose proposte offerte nell’ambito di qualunque categoria
professionale, può scegliere tra part-time e full-time e l’eventuale
mancanza di esperienza lavorativa non preclude la possibilità di trovare
l’occasione giusta.