Il primo è il calo occupazionale e produttivo registratosi nel comparto
industriale dovuto sia alle nuove strategie industriali, sia a
ristrutturazioni o a riallocazioni. E’ importante segnalare il declino
occupazionale che si è avuto nella grande industria e il contemporaneo
aumento dell’occupazione registrato nelle piccole imprese o nel settore
dei servizi. L’espulsione dei lavoratori dal comparto industriale a quello
terziario ha prodotto radicali cambiamenti, non solo dal punto di vista
retributivo, ma anche per ciò che concerne produttività ed orari. Ciò ha
favorito un rapido cambiamento del sistema lavorativo a svantaggio delle
carriere di lavoro più stabili, più lunghe e ben retribuite (o almeno
sufficienti a mantenere una famiglia) a vantaggio di lavori precari,
instabili con redditi bassi. L’altro aspetto della deindustrializzazione è
quello della mancata risposta in termini di incremento dell’occupazione
anche in presenza di cicli di crescita economica e ripresa della
produzione.
Dal punto di vista economico, questa fase si presenta, invece, come
espressione di una netta frattura avvenuta in due fasi: un primo periodo,
che va dal dopoguerra all’inizio degli anni settanta, caratterizzato da alti
livelli di crescita, di produzione, di occupazione. Un secondo periodo,
che va dagli inizi degli anni settanta fino ai tempi attuali, nel quale la
crescita del prodotto è stata molto più contenuta e la disoccupazione ha
raggiunto livelli decisamente alti.
Da un’analisi generale appare che questo processo è relativamente meno
accentuato negli U.S.A. mentre è più chiaro nei paesi colpiti da danni
bellici. Confrontando il graf.1 e il graf.2 e cioè comparando i tassi di
crescita nel periodo 1950 – 1994, è facile rilevare come in U.S.A. e in
G.B. la crescita si sia ridotta di un terzo, mentre negli altri paesi della
metà o oltre. Inoltre si è d’accordo nel ritenere che sia l’ascesa che il
declino del ritmo di crescita siano due aspetti dello stesso fenomeno.
TABELLA1. Tassi medi annui di crescita del prodotto lordo
(tra parentesi il coefficiente di variazione dei tassi annuali di variazione)
1950-1963 1963-1973 1973-1983 1983-1994
FRANCIA 5,02 (0,28) 5,28 (0,15) 2,28 (O,61) 2,07 (O,74)
GERMANIA 7,43 (0,47) 4,43 (0,48) 1,60 (1,14) 2,69 (0,69)
ITALIA 5,84 (0,17) 4,94 (0,35) 2,66 (0,91) 2,26 (0,51)
REGNO UNITO 2,56 (0,69) 3,29 (0,42) 1,12 (1,49) 3,25 (0,85)
GIAPPONE - - 9,50 (0,28) 3,45 (0,51) 3,38 (0,57)
STATI UNITI 3,40 (0,81) 3,89 (0,44) 1,79 (1,22) 3,00 (0,53)
GRAFICO1.coefficienti di variazione dei tassi annuali di crescita del prodotto lordo
GRAFICO2. Tassi medi annui di crescita del prodotto.
L’ascesa economica, rilevata nel periodo 1950 – 1970 viene attribuita
all’operato di un circolo virtuoso che mette in relazione un sostenuto
aumento del prodotto e dell’occupazione con bassi tassi di inflazione tali
da garantire, attraverso un aumento di produttività, sia un rialzo non
inflazionistico dei salari reali che un tasso di produttività in grado di
assicurare un livello di accumulazione eccezionalmente alto.
In questo contesto macroeconomico il traino fornito dalla ricostruzione
post - bellica è indiscutibile. Inoltre il meccanismo di sviluppo si è
imperniato sul ruolo decisivo della domanda interna piuttosto che dal
commercio estero che, seppur anch’esso in ascesa, svolgeva un ruolo
ancora marginale. Questa progressiva espansione economica è stata
frenata dal 1° shock inflazionistico generato dalla crisi petrolifera del
1973. Questo evento non solo è considerato lo spartiacque temporale, ma
anche l’elemento che segnerà un’inversione di tendenza rispetto a questo
primo ventennio.
Le conseguenze economiche sono state, oltre ad un rallentamento della
produttività, l’irrigidimento dei salari reali e l’aumento della pressione
competitiva. Queste concause hanno prodotto una compressione dei
margini di profitto che ha scoraggiato gli investimenti. Questa nuova
fase (1975 – 1997) è stata caratterizzata da instabilità della crescita,
disoccupazione e inflazione. La concomitanza di questi eventi ha indotto
i governi a varare drastiche politiche restrittive che hanno finito con lo
stroncare la crescita. La conseguenza negativa è stata soprattutto per
l’accumulazione. Il ritmo di espansione dello stock di capitale, infatti,
nell’ultimo periodo si è notevolmente contratto. L’effetto risultante è
stata la riduzione degli investimenti. Le politiche monetarie adottate
hanno favorito una netta flessione della domanda interna.
Durante gli anni ’80 l’incertezza e l’instabilità hanno reso ancora più
difficile la ricomposizione della relazione tra prodotto, produttività e
occupazione. Il rallentato e disarticolato andamento ha generato una
riduzione della crescita. Tuttavia, la necessità di raggiungere ugualmente
elevati livelli di produttività è stata perseguita attraverso una
razionalizzazione delle risorse esistenti in un contesto sempre più
svincolato dalla capacità produttiva. Le politiche restrittive, la riduzione
degli investimenti, il calo di produttività hanno impresso un mutamento
significativo sia sul tipo di produzione che sul tipo di occupazione. Tutti
infatti sono d’accordo sul fatto che ingenti livelli di disoccupazione siano
collegati alla caduta del ritmo di espansione dell’attività economica
avutasi all’inizio degli anni ottanta.
Quest’analisi può essere interpretata sia nell’ottica di breve periodo,
osservando le risposte che le singole economie forniscono in seguito alla
dinamiche dell’output, sia in un’ottica di lungo periodo, valutando la
variazione della disoccupazione.
Nel breve periodo fruendo dei risultati a cui perviene la legge di Okun
2
si
evince che la riduzione di un punto percentuale dei disoccupati è
associata ad una variazione positiva dell’output nell’ordine di due o tre
punti.
2
Okun studiando l’economia degli U.S.A. notò il nesso esistente tra crescita del reddito e variazione della
disoccupazione; più precisamente notò che ad una riduzione della disoccupazione corrispondeva un aumento del
reddito.
(a) X = § ( 1 – u ) h FL
FL = forza lavoro; ( 1 – u ) = percentuale della forza lavoro occupata
§ = produttività media oraria del lavoro; h = numero medio delle ore lavorate
( 1 – u ) h FL esprime il numero di ore di lavoro complessive. L’equazione (a) ci dice che la produzione
nazionale è pari alla produttività media del lavoro per la quantità di lavoro svolto.
Da alcuni studi che hanno messo in relazione il livello dell’output e della
disoccupazione, emerge chiaramente una relazione stabile tra queste
variabili per USA e GB, ed un legame meno evidente per Italia e Spagna.
Analisi ulteriori, hanno mostrato il nesso esistente tra il livello di
occupazione (L) e il livello di output (Y). Da questi studi si deduce che
una relazione più forte, che corrisponde ad un’alta elasticità
dell’occupazione rispetto al reddito è associata ad un maggior grado di
flessibilità. In questo caso, ad esempio, nell’economia americana
variazioni del prodotto esercitano sull’occupazione un ruolo più rilevante
che altrove. E’ evidente che a partire dagli anni ’80 si sia sviluppata una
tendenza forte basata su un approccio flessibile della produzione e del
lavoro a fronte della maggiore incertezza che caratterizza la seconda fase
post – fordista. Questa crescente incertezza produce una forte
penalizzazione alle economie con sistemi rigidi (con minore grado di
flessibilità) nelle fasi espansive. Terminato il periodo che molti
economisti definiscono golden age
3
si è avviato un profondo processo di
ristrutturazione dei processi di lavoro e di riorganizzazione produttiva
3
Tale periodo si intende quello post-bellico quando le economie europee erano caratterizzate da alti livelli di espansione,
bassi livelli di inflazione e disoccupazione
che hanno segnato l’inizio dell’era post-fordista. In più paesi, la
flessibilità del lavoro e delle relazioni aziendali viene utilizzata per
controllare questa fase. L’era post-bellica si caratterizza per l’incapacità
dell’intero sistema di creare posti di lavoro, soprattutto in Europa.
Questo aspetto è stato definito “eurosclerosi” e il modello USA è
diventato il modello di riferimento a cui l’Europa deve guardare visto
che “l’economia nordamericana con l’allentamento delle restrizioni e un
mercato del lavoro flessibile hanno consentito di spostare in avanti la
frontiera dell’occupazione, aumentando la disponibilità dei lavoro per gli
high skill nei nuovi settori di attività e dando la possibilità ai low skill di
abbandonare lo stato di disoccupazione e di entrare nel mondo del
lavoro”
4
. Altro aspetto da considerare è l’impatto evidente che la
dinamica della produttività, grazie soprattutto all’impatto delle nuove
tecnologie, ha prodotto una trasformazione dell’organizzazione del
lavoro. Del resto è già ampiamente indicativa la mobilità dei lavoratori
che gradualmente si sono spostati da un settore produttivo ad un altro. Il
risultato è stato un considerevole calo del numero degli occupati nel
4
La disoccupazione italiana tra rigidità e cambiamenti globali” all’interno di “La disoccupazione italiana”, De Nardis -
Galli
settore agricolo prima e nel settore manifatturiero poi ed il conseguente
incremento del numero degli occupati nel settore dei servizi.
In modo particolare l’attenzione è posta sul declino dei tassi di crescita
della produttività che coincidono proprio con la fine dell’era d’oro del
dopoguerra. Da alcune analisi comparate emerge che il calo maggiore lo
hanno subito proprio gli Usa. Questo risultato acquista ulteriore
significato se si aggiunge che l’economia USA era caratterizzata da tassi
di crescita già largamente inferiori a quelli dei paesi europei.
Tuttavia le variazioni delle dinamiche della produttività vengono studiate
sia facendo riferimento alla teoria del catching up e sia a quelle che
osservano lo spostamento di risorse produttive, in particolare del lavoro,
tra i vari settori. Il cambiamento che si è prodotto e che ha riguardato la
costante transizione dei lavoratori da un settore di attività all’altro è stato
uniforme in tutti i paesi industrializzati. Dunque il generale freno dei
tassi di crescita della produttività è un fenomeno subordinato
direttamente al calo della quota di occupati nel settore industriale.
Questo cambiamento ha interessato tutta l’area industrializzata. E’
opportuno dedurre che dopo la fase di massima espansione industriale sia
incominciata la fase di terziarizzazione dell’economia. Lo sviluppo
occupazionale del settore terziario è funzionale, dunque, al declino
riscontrato nel settore industriale (graf.3 – 4)
Questa espansione ha però ridotto notevolmente il tasso aggregato di
produttività; chiare sono state le ripercussioni sull’occupazione registrate
in ciascun paese industrializzato. Il quadro è tutt’altro che omogeneo,
mentre in GB, USA e Giappone si riscontrano alti livelli di occupazione
nel settore terziario accompagnati da una graduale ripresa del settore
industriale; nei paesi europei invece, la flessione generalizzata
dell’occupazione è data da un incremento nel settore dei servizi e dal
contemporaneo declino del settore industriale. Infine lo sviluppo del
commercio internazionale su ampia scala e la riduzione progressiva dei
costi di trasporto favoriscono lo sviluppo della concorrenza
internazionale dei posti di lavoro.
GRAFICI 3,4. Trend dei livelli di occupazione nel settore secondario e nel settore terziario nei
principali paesi industrializzati