INTRODUZIONE
Il presente lavoro ha l’obiettivo di dimostrare come l’attuale situazione del
mercato del lavoro in Italia sia dovuta all’inadeguatezza delle tutele presenti
all’interno del nostro sistema di protezione sociale ed alla maggiore flessibilità
ricercata attraverso la deregolamentazione del mercato del lavoro, ma non
accompagnata da adeguate politiche attive e passive in grado di tutelare e riabilitare
con efficienza i lavoratori disoccupati.
Osservando l’andamento degli ultimi anni del tasso di disoccupazione dei
principali paesi europei, possiamo notare come Danimarca, Gran Bretagna, Irlanda e
Svezia presentino in media un tasso di disoccupazione al di sotto dell’8%, mentre per
Germania, Italia, Olanda e Spagna risulta in media uguale o superiore all’8%.
Tabella 1
Tasso di disoccupazione
2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010*
Danimarca
6,4 5,5 4,5 4,8 5,1 6,4 8
Germania
10,6 11,6 11,4 10,3 11,4 12 13
Gran
4,7 4,7 4,9 5,6 6,8 7,8 12
Bretagna
Francia
10 10 9,9 9,1 9,6 10,8 11,5
Irlanda
4,5 4,1 4 3,3 4,6 5,8 8,5
Italia
8,1 7,7 6,8 6,7 6,8 7,8 8,5
Olanda
6,5 6,7 6,3 6,9 7,6 8,8 10,3
Spagna
11 10,1 9,4 10,2 13,1 19,7 20,5
Svezia
5,5 6 5,4 5,8 6,7 8,1 8
Fonte: Istat
* i dati del 2010 riguardano le previsioni
Questi tassi elevati di disoccupazione sono spesso attribuiti alla globalizzazione
che, con l’apertura internazionale del mercato del lavoro, espone la popolazione e
soprattutto i lavoratori ad una maggiore concorrenza proveniente principalmente dai
paesi in via di sviluppo, considerati dalle grandi aziende come allettanti zone di
insediamento di nuovi impianti dove produrre a costi minori, godendo anche, in
alcuni paesi, di incentivi statali e di forza lavoro a buon mercato attraverso
l’immigrazione. Molti economisti sostengono però che il differente andamento della
disoccupazione sia da imputare agli eccessivi livelli di sicurezza sociale che i paesi
maggiormente industrializzati avrebbero garantito ai loro cittadini (non a caso i paesi
con un più alto livello di disoccupazione sono gli stessi che presentano un indice
EPL maggiore rispetto agli altri, come si vedrà nel terzo capitolo); da qui la necessità
di ridurre gli interventi del Welfare State e soprattutto di rendere maggiormente
flessibile il mercato del lavoro cosi da permettere alle attività produttive di poter
modificare il loro organico in relazione alla domanda da servire. Il problema però è
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che perseguire una maggiore flessibilità attraverso una deregolamentazione del
mercato del lavoro, che permette alle imprese maggiore facilità di assunzione e
licenziamento cosi da poter modificare il loro organico produttivo in base alle
esigenze di mercato, senza un adeguato insieme di tutele e di politiche attive in grado
rispettivamente di sostenere i disoccupati in situazione di difficoltà economica e di
ricollocarli all’interno del mercato del lavoro, può risultare inefficiente ed anzi
peggiorare le condizioni generali in cui si trova il mercato del lavoro. Questo è
proprio quello che è successo in Italia, dove le varie riforme che sono state adottate
per aumentare la flessibilità del mercato del lavoro e risollevare l’occupazione e la
produttività, hanno finito per sfociare nel fenomeno della precarietà; con tale termine
si vuole indicare quella situazione che vede migliaia di lavoratori intrappolati in una
serie di contratti di breve durata, senza garanzie occupazionali per il futuro, costretti
a lunghi periodi di discontinuità occupazionale e/o disoccupazione, durante i quali
non sono neanche previste forme di ricollocamento o di riqualificazione
professionale. Se a tale contesto aggiungiamo anche la difficoltà dei lavoratori più
bisognosi ad accedere alle tutele previste, in quanto la normativa in vigore prevede
dei requisiti di accesso impossibili da soddisfare per tali lavoratori, otteniamo il
quadro completo in cui vige attualmente il mercato del lavoro in Italia. Dalle
questioni emerse occorre quindi pensare ad un insieme di riforme da attuare per
risollevare il mercato del lavoro, guardando soprattutto a quei paesi dove vi è
un’adeguata combinazione di politiche attive e passive che permettono un efficiente
funzionamento del sistema.
La presente tesi verrà articolata in 3 capitoli: nel primo elencheremo le tutele
previste a sostegno dei lavoratori, ovvero l’insieme degli ammortizzatori sociali, le
rispettive caratteristiche ed i principali problemi sollevati in materia; nel secondo
capitolo dimostreremo l’inefficienza della maggiore flessibilità ottenuta attraverso la
deregolamentazione del mercato del lavoro, esporremo alcuni dati che provano la
presenza della precarietà all’interno del sistema ed il fatto che questa riguardi
principalmente i lavoratori colpiti dalla deregolamentazione; elencheremo,
nell’ambito del medesimo capitolo, alcune proposte di riforma avanzate da diversi
economisti; nel terzo ed ultimo capitolo faremo un confronto del modello italiano
con quello danese, considerato dalla Commissione Europea come il modello da
seguire per tutti i paesi dell’Unione, elencando le differenze e dettando i passaggi che
secondo noi dovrebbero avvenire per poter rendere il nostro modello simile a quello
danese.
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CAP 1 WELFARE STATE E LAVORO IN ITALIA
1.1 GLI AMMORTIZZATORI SOCIALI
Gli ammortizzatori sociali rappresentano una componente importante delle
politiche del lavoro; questi si compongono di un insieme di strumenti avente il fine
di proteggere i lavoratori da rischi e disagi che possono correre per via della
disoccupazione.
Gli strumenti previsti per sostenere il reddito dei lavoratori disoccupati sono di
diverse entità e caratteristiche ed intervengono a seconda che il lavoratore si trovi in
una delle seguenti situazioni:
con il rapporto di lavoro sospeso;
disoccupato causa licenziamento;
con il rapporto di lavoro concluso, dove il lavoratore era
precedentemente stato assunto con un contratto a termine (ad esempio:
stagionale, interinale..).
Nel primo caso il lavoratore non è un disoccupato a tutti gli effetti: esso infatti è in
1
attesa di riprendere il suo posto di lavoro - non di rado tale sospensione è solamente
parziale (alcune ore al giorno o alcuni giorni). In questi casi il lavoratore attraversa
un periodo delicato per la mancanza del reddito da lavoro, ma non necessariamente si
trova davanti all’esigenza di ricercare una nuova occupazione. Gli ammortizzatori
sociali in questi casi intervengono a protezione sia dei lavoratori, per evitare il loro
licenziamento nei casi in cui la prospettiva di ripresa dell’azienda sia fondata, sia
dell’azienda, in modo che questa assicuri una maggiore continuità agli investimenti
in capitale umano, evitando l’eccessivo turn-over della forza lavoro nocivo per
l’accumulo delle competenze specifiche della stessa.
Il secondo caso d’intervento è il classico caso dove il lavoratore viene licenziato a
seguito di difficoltà economiche dell’impresa.
Il caso dei lavoratori temporanei invece diviene sempre più rilevante man mano
che il numero di lavoratori impiegati con contratti a termine aumenta; tra questi
particolare rilievo assumono quelli che sono sottoposti a contratti a termine ripetuti,
ovvero a frequenze di impiego discontinue dove si alternano situazioni di
occupazione con situazioni di disoccupazione (per approfondimenti vedi
Regolazione, welfare e politiche attive del lavoro, di Ugo Trivellato).
Andiamo ora ad esaminare più nel dettaglio, sempre in riferimento a queste tre
fattispecie, gli strumenti d’intervento che compongono gli ammortizzatori sociali.
1
La sospensione del rapporto di lavoro è una pratica alla quale ricorrono imprese che si trovano
davanti a crisi di mercato o di programmi di ristrutturazione;
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1.1.1 I lavoratori sospesi
Gli strumenti a disposizione per i lavoratori sospesi sono:
La Cassa integrazione guadagni ordinaria (Cigo);
La Cassa integrazione guadagni straordinaria (Cigs).
La Cigo e' un intervento a sostegno delle imprese in difficoltà che garantisce al
lavoratore, temporaneamente sospeso dal lavoro, un reddito sostitutivo della
retribuzione. Instituita presso l’INPS, interveniva inizialmente nella misura dei due
terzi della retribuzione intera che sarebbe spettata al lavoratore per le ore di lavoro
non prestate comprese fra le 24 e le 40 ore settimanali. Con il decreto legislativo n.
869/1947 veniva stabilito che il ricorso alla Cigo era consentito solamente per eventi
non imputabili all’imprenditore o agli operai e purché venisse accertata la
riammissione dei lavoratori nel breve periodo; intorno agli anni ’60 poi venne resa
più elastica la possibilità di utilizzo della Cigo, estendendola anche a casi di grave
difficoltà dell’impresa e non solo di impossibilità.
Le imprese interessate sono quelle che operano all’interno del settore industriale; i
lavoratori interessati sono i lavoratori subordinati che rientrano nella categoria di
operai, impiegati, quadri, con contratti di lavoro a tempo determinato, a termine, a
formazione e lavoro o a tempo parziale; mentre sono esclusi gli apprendisti, i
lavoratori a domicilio ed i dirigenti. Le imprese aventi diritto alla Cigo devono
versare un contributo ordinario ed uno addizionale che varia in base alla dimensione
2
dell’impresa. La Cigo può essere richiesta per l’avvento di sospensioni o riduzioni
dell’attività dovuti ad eventi non imputabili all’imprenditore o per situazioni
temporanee di mercato quali oscillazioni della domanda; la durata dell’intervento
può essere disposto fino ad un massimo di tre mesi consecutivi e per casi eccezionali
sono previste proroghe sempre di durata di tre mesi, fino ad un massimo di 12 mesi
consecutivi oppure di 12 mesi complessivi in un arco temporale di 2 anni (per
approfondimenti vedi L’evoluzione degli ammortizzatori sociali, regione Toscana
indagine 1999).
Nella figura 1 sono elencate le regole di funzionamento e le modifiche apportate
alla Cigo, dal 1998 al 2008.
2
il contributo addizionale è del 4% dell’integrazione salariale per le imprese aventi fino a 50
dipendenti, e dell’8% per quelle con un numero superiore.
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Fig. 1
La Cigs è stata istituita con la legge 1115/1968, con l’obiettivo di agevolare i
lavoratori coinvolti da processi di crisi o di ristrutturazione e riorganizzazione
aziendale; questa ha subito notevoli modifiche già da qualche anno dopo la sua
costituzione: ad esempio con la legge 675/1977 è stata introdotta, tra le cause
ammissibili per ricorrere all’utilizzo della Cigs, la crisi aziendale; con la legge
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223/2004 si è cercato di coordinare questa con le Liste di mobilità - ciò per
rimediare al fatto che la Cigs aveva finito per divenire un metodo con il quale si
assistevano lavoratori formalmente sospesi ma di fatto disoccupati, in quanto senza
una reale prospettiva di riammissione.
Per quanto riguarda il campo di applicazione la Cigs si applica alle imprese che
nel semestre antecedente la data della richiesta abbiano occupato mediamente più di
15 dipendenti; il settore di applicazione era inizialmente quello industriale,
successivamente è stato allargato comprendendo anche le imprese commerciali (con
oltre 200 dipendenti), le agenzie di viaggio e turismo, gli operatori turistici (con più
di 50 dipendenti), le imprese cooperative e i loro consorzi, le imprese artigiane (con
più di 15 dipendenti), le imprese appaltatrici di servizi di pulizia, le imprese
industriali appaltatrici di lavori di istallazione di rete telefoniche, le imprese di
vigilanza, le imprese editrici o stampatrici di giornali, le società cooperative agricole,
le società di credito e di assicurazione, le imprese operanti nel campo della
spedizione. I lavoratori interessati sono gli operai, gli impiegati, gli intermedi ed i
quadri con almeno 90 giorni di servizio dalla data di richiesta, esclusi quindi
apprendisti, lavoratori a domicilio e quelli con contratto di formazione e lavoro.
L’accesso alla Cigs è previsto in caso di: ristrutturazione, riorganizzazione o
conversione aziendale, crisi aziendale, procedure concorsuali; presupposto
dell’intervento è la predisposizione di un programma volto al rilancio dell’attività ed
alla salvaguardia dell’occupazione. Come per la Cigo il lavoratore ha diritto ad un
trattamento economico a carico dell’INPS proporzionato alla retribuzione; il
massimale previsto per la Cigs è uguale a quello della Cigo, anche per la Cigs è
previsto che il datore di lavoro anticipi l’importo dovuto ai beneficiari,venendo
successivamente rimborsato dall’INPS, è previsto però che se vi sono comprovate
difficoltà finanziarie da parte del datore di lavoro (come nel caso delle procedure
concorsuali), questo può disporre che il pagamento venga effettuato direttamente
dall’INPS (situazione non possibile nella Cigo). Per quel che riguarda l’aspetto
contributivo, lo Stato si occupa del contributo ordinario mentre spetta alle imprese il
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versamento del contributo addizionale.
La legge prevede inoltre una durata massimale del beneficio della Cigs pari a 36
mesi nell’arco di 5 anni; inoltre diversamente da quanto previsto per la Cigo sono
previste durate specifiche in relazione alla causa che ha portato l’utilizzo della Cigs,
ovvero:
24 mesi consecutivi in caso di ristrutturazione o conversione
aziendale, con proroghe stabilite dal Ministero del Lavoro a
seconda delle dimensione dell’impresa e dell’articolazione sul
territorio;
12 mesi in caso di crisi aziendale, con proroghe fino a 6 mesi;
12 mesi dal provvedimento di ammissione alla procedura, in
caso di procedure concorsuali, con proroga di altri 6 mesi
laddove vi siano fondate possibilità di ripresa attività, (per
approfondimenti vedi L’evoluzione degli ammortizzatori
sociali, regione Toscana indagine 1999).
La figura 2 ci mostra l’evoluzione della disciplina della Cigs dal 1997 al 2008.
3
pari al 3% dell’integrazione salariale qualora il numero di dipendenti sia fino a 50, oppure al
4,5% laddove sia oltre.
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Fig. 2
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