5
specializzazione in settori ritenuti strategici per lo sviluppo. Tuttavia le differenze all’interno
di questa area economica hanno riguardato il ruolo dello stato, della finanza interna ed estera
e del settore societario nel favorire gli investimenti produttivi che hanno consentito di
espandere la base industriale. E nella nostra analisi vedremo come Taiwan ha sviluppato
principalmente imprese statali di supporto al settore delle piccole e medie imprese, con la
creazione di imprese leader nel settore informatico e delle materie plastiche, e ha anche
privilegiato una morbida apertura alle imprese multinazionali, al contrario del governo
coreano che ha supportato la diffusione dei conglomerati industriali sostenuti dalle banche
statali. Hong Kong e Singapore devono molto della loro fortuna alla loro posizione geografica
che hanno sfruttato diventando centri commerciali e finanziari di importanza mondiale .Ma
bisogna dire che Hong Kong molta della sua fortuna Ł dovuta alla sua classe imprenditoriale
di provenienza cinese che ha sviluppato l’industria tessile, invece a il governo di Singapore ha
aperto le porte alle multinazionali straniere in modo piø ampio rispetto a Taiwan. Indonesia,
Tailandia, Malesia si differenziano dal precedente gruppo perchØ sono delle nazioni ricche di
materie prime e quindi hanno iniziato la loro esperienza di crescita favorendo le esportazioni
di queste risorse. La loro di espansione Ł accelerata nella seconda met degli anni ’80 grazie al
processo di spostamento di attivit produttive da parte del Giappone, Corea , Taiwan.
Gli anni ’90 sono stati anni di cambiamento e di maggiore apertura agli scambi con l’estero.
La liberalizzazione del movimento dei capitali ha permesso un maggiore afflusso valutario di
cui hanno beneficiato in primo luogo le economie asiatiche suddette, che hanno finanziato
progetti d’investimento che il risparmio locale non avrebbe potuto sostenere. Alla met degli
anni ’90 questo processo di crescita sostenuta mostra un rallentamento che poi risulta evidente
dopo lo scoppio della crisi finanziaria. Quindi la crisi risulta l’indicatore che la parte reale
dell’economia ha un momento di arresto. Quindi entra in crisi un modello che aveva
alimentato lo sviluppo dell’area e che non trova adesso nuove modalit di crescita. Forse, e
questa potrebbe essere una possibile causa della crisi, queste nazioni non sono state capaci di
aumentare i loro investimenti nei confronti di variabili strategiche come il know how
tecnologico che avrebbe permesso di aumentare la produttivit ed essere competitivi a livello
mondiale. In poche parole, essi dipendevano pesantemente dal capitale e dalla tecnologia
estera, e in particolare giapponese. Tra il 1992 e 1995, le multinazionali giapponesi
finanziarono piø di 35$ di dollari di investimenti diretti in Asia. Le banche giapponesi hanno
6
giocato un ruolo importante di fornitura di capitale alla regione. I crediti alla Tailandia e a alla
Corea si duplicarono nel periodo 1993-1996.
Naturalmente, la presenza del Giappone era dominante, ma non l’esclusiva fonte
finanziaria e tecnologica per l’Asia. Infatti produttori europei ed americani del settore
elettronico avevano concesso licenze ad imprese taiwanesi e coreane che riguardavano
tecnologie sofisticate, mentre multinazionali del Nord America , Europa avevano costituito
numerose imprese nella regione.
Questo massiccio afflusso di capitale e tecnologia ha alterato in modo drammatico la
struttura degli incentivi in Asia, cos gli imprenditori locali potevano fare profitti senza
effettuare loro stessi gli investimenti in capitale umano e nelle innovazioni tecnologiche. In
altre parole, non usarono questi strumenti sia reali che finanziari per incrementare le attivit
produttive.
Quindi insieme al fenomeno del trasferimento di tecnologie si affianca il processo di
liberalizzazione finanziaria che ha portato alla luce l’inadeguatezza del settore bancario nel
gestire i flussi di capitale proveniente dall’estero, difficolt dovute alla cattiva allocazione di
questi flussi di denaro. l’analisi proseguir mostrando una rassegna nazione per nazione della
bilancia dei pagamenti e della contabilit nazionale per evidenziare la presenza eccessiva
della finanza estera e l’allontanamento dalle priorit di sviluppo iniziali che vedevano nelle
esportazioni e nell’investimento le chiavi per lo sviluppo sostenibile.
Dopo la descrizione degli eventi che hanno caratterizzato il periodo di crescita delle
nazioni considerate , Ł mia intenzione proporre una lettura della crisi finanziaria che evidenzia
come distorsioni strutturali e l’inadeguatezza della condotta di politica economica abbiano
portato queste economie agli shock macroeconomici e finanziari che si sono manifestati nel
periodo 1995-97. Le distorsioni strutturali fanno riferimento alla struttura di incentivi concessi
alle imprese, alle banche e agli istituti finanziari e che hanno diminuito l’efficienza dei sistemi
economici in esame.
Infine Ł mia intenzione presentare come queste economie sono uscite fuori dalla crisi,
interpretando quali sono state le dinamiche , principalmente finanziarie e di rapporti con gli
agenti esteri, che hanno caratterizzato questa crisi finanziaria.
7
Capitolo 1
1.1 Il modello di sviluppo dell’est asiatico
Il modello di sviluppo asiatico si Ł basato nel corso di questi decenni, in modo particolare
su due elementi: il ruolo delle esportazioni e quello dello stato. Per quanto concerne il primo -
strategia orientata alle esportazioni ( export-led strategy ) ha permesso la specializzazione
secondo il principio dei costi comparati e questo ha generato l’aumento del reddito, degli
investimenti, dei risparmi e della produttivit .
A parte le varie accezioni nazionali del modello, la rapida industrializzazione poggia
sempre su una strategia di crescita dipendente dall’esportazione- nel senso per piø di una
discriminazione positiva per l’esportazione che del "playing fields" teorizzato dai liberisti e da
alcune istituzioni internazionali - e inoltre bisogna considerare la stretta collaborazione tra
banchieri e industriali. Tale collaborazione Ł fortemente condizionata da uno stato che appare
particolarmente provvido di sussidi e incentivi fiscali per guidare gli investimenti privati
verso settori e in direzioni che essi da soli non avrebbero preso in considerazione. Alla
profittabilit di questi investimenti hanno contribuito anche imprese pubbliche, mentre quelle
private sono state spesso considerate come imprese nazionali alle quali la collaborazione tra
governo, banca e industria permette di espandersi grazie ad alti livelli di indebitamento.
Implicito in questo sistema di "capitalismo di comando e controllo" Ł quello che Ł stato
chiamato il "development state", cioŁ uno stato centralizzato che oltre a guidare
amministrativamente il settore privato, si assume la maggiore responsabilit per la
promozione della crescita economica ( Stiglitz, 1996 ). A parte quindi garantire le condizioni
necessarie all’espansione del commercio e degli investimenti, questo stato ha canalizzato le
risorse verso i settori o le industrie prescelte (Amsden, 1989 e Wade, 1990), creando un
sistema che assicura un continuo e reciproco sostegno tra banche, istituti d’intermediazione,
compagnie assicurative, produttori di manufatti e imprese commerciali gravitanti nella sfera
d’influenza di grosse famiglie industriali. E’ grazie a questo che si spiega la fenomenale ascesa
delle economie di Taiwan, della Corea del Sud e di altri paesi asiatici che hanno utilizzato un
modello molto simile; in tutti questi casi per lo stato Ł stato sempre complementare ai
mercati senza mai cercare di sostituirsi ad essi (Stiglitz, 1996). Quello che distingue
l’esperienza di sviluppo del sud est asiatico non Ł il predominio delle forze di mercato e della
liberalizzazione interna, ma relazioni efficaci e altamente interattive tra il settore pubblico e
8
quello privato, relazioni caratterizzate da obiettivi condivisi e impegni saldamente osservati
nell’ambito della strategia di gruppo del governo. Le priorit settoriali e la politica industriale
costituiscono quindi gli ingredienti essenziali della crescita di questa regione. Ultimamente
Rodrik ha sostenuto che l’intervento dello stato sarebbe servito essenzialmente a sbloccare una
situazione caratterizzata dal cosiddetto "fallimento della coordinazione". Data
l’interdipendenza tra produzione e decisione ad investire, in presenza di economie di scala il
necessario trasferimento di risorse dal settore tradizionale a quello moderno Ł conveniente
solo se abbastanza consistente per cui il trasferimento non avviene se manca la coordinazione
tra i vari investitori potenziali. Il take-off asiatico, almeno per quanto concerne la Corea del
Sud e Taiwan, sarebbe stato quindi determinato non dalle esportazioni, ma dalla domanda di
investimenti, domanda rafforzata dall’intervento del governo che avrebbe reso possibile un
significativo aumento dei rendimenti privati di capitale ( Rodrik, 1995).In questo caso si ha
quindi una inversione della direzione del rapporto causale che lega crescita economica ed
esportazioni, nel senso che queste ultime hanno certamente assecondato la crescita, ma non
l’hanno determinata. La vera causa della crescita va quindi cercata nelle ragioni che hanno
reso piø remunerativi gli investimenti che, facendo aumentare le importazioni, hanno reso
necessaria la crescita delle esportazioni. La spiegazione per l’aumentata remunerativit degli
investimenti si trova nelle politiche governative, che si sono spinte ben oltre gli incentivi alle
esportazioni e che si sono potute realizzare grazie ad alcune condizioni speciali -
principalmente manodopera ben istruita e buona distribuzione del reddito - prevalenti in
questi paesi ( Rodrik, 1995).
Convinto che stabili rapporti tra gli agenti economici rafforzino l’efficacia degli incentivi,
lo stato Ł ricorso a tutti i mezzi per incoraggiare la cooperazione e lo scambio di informazioni.
Anche i cartelli hanno rappresentato "l’esplicito tentativo di affrontare in forma cooperativa (
e collusiva ) i problemi causati dalla recessione quando l’industria ad alta intensit di capitale
presenta un eccesso di capacit produttiva. In tempo di recessione i carte lli, limitando la
concorrenza e quindi permettendo il recupero dei costi del capitale, hanno evitato all’industria
una caduta dei prezzi che avrebbe danneggiato tutte le imprese" (Stiglitz, 1996).
Lo stesso principio di cooperazione, che applicato al mercato del lavoro si Ł rivelato "
particolarmente importante per facilitare lo scambio tecnologico", ha modellato i mercati di
capitale e, naturalmente, le relazioni delle imprese con il governo, come anche dimostrato dal
relativamente limitato numero di fallimenti permesso nei paesi dell’Asia orientale. In questo
9
caso l’intervento del governo Ł stato dettato dall’interesse ad evitare la disgregazione
economica che l’azione fallimentare necessariamente comporta( Stiglitz, 1996).
Con la partecipazione dello stato Ł anche possibile attuare una strategia industriale
nazionale che ha permesso un salto tecnologico e di scala. Al centro della politica industriale
attuata con forza e decisione nella regione si trova infatti, sulla scia dell’esempio giapponese e
spesso andando anche oltre, la politica strutturale che mira ad adattare e a sviluppare la
tecnologia necessaria ad alcuni settori industriali- quali l’acciaio, i prodotti chimici, i
macchinari ed altri prodotti dell’industria pesante- considerati essenziali per la rapida crescita
della produttivit e del reddito pro capite. In questo modo il modello ha cercato di coniugare i
vantaggi della cooperazione con quelli della concorrenza e ha indubbiamente generato lo
sviluppo economico della regione, ma non Ł per riuscito ad evitare corruzione, collusione e
clientelismo.
Il modello Ł entrato in crisi alla fine della guerra fredda con la crescente globalizzazione
che ha portato ad un aumento delle scelte per i consumatori mentre la super specializzazione e
la super espansione in alcuni settori come acciaio, auto, elettronica e prodotti chimici soggetti
a fluttuazioni cicliche, causavano instabilit e creavano un eccesso della capacit produttiva.
Costruite sul trinomio" indebitarsi, espandersi e conquistare" e dominate dalla spinta ad
esportare, alle economie asiatiche sono affluiti fondi esteri in gran quantit . Durante gli anni
novanta, questi fondi hanno rappresentato prestiti di banche estere a banche e imprese locali.
Una volta trasformati in moneta nazionale questi fondi sono serviti ad alimentare il boom
della domanda, nella quale vanno per inclusi anche i cattivi investimenti.
La crescita economica della regione resta inoltre " un miracolo di accumulazione piø che di
aumento della produttivit fattoriale totale", per cui una volta accettato che la crescita Ł stata
data essenzialmente dall’accumulazione di capitale, sia fisico che umano, e il progresso
tecnico Ł stato nullo allora non c’Ł piø alcun miracolo da spiegare (Krugman, 1994)(Rodrik,
1995).
Il seguito della trattazioni descriver l’esistenza di un modello di sviluppo asiatico come
un’esperienza di crescita che ha interessato i paesi che abbiamo preso in esame, focalizzando
gli aspetti comuni e anche le differenti modalit che hanno caratterizzato gli sviluppi
nazionali. Infine si esaminer le esperienze di crescita di Taiwan, Corea del Sud, Hong Kong,
Singapore, Tailandia, Indonesia, Malesia.
10
1.2 Caratteristiche dello sviluppo asiatico
Cos come il paradosso di Leontief e il commercio intra-industriale hanno rappresentato
una sfida alla teoria dei vantaggi comparati, lo sviluppo asiatico costituisce invece una sfida
per tutti quegli autori neomarxisti e terzomondisti che hanno sempre posto in luce come una
condizione di sottosviluppo sia difficilmente superabile senza una rottura radicale del modo di
produzione capitalistico. Ispirandosi prevalentemente alle esperienze dell’Africa e
dell’America Latina, molti autori
1
avevano, infatti, sostenuto che lo sviluppo nei paesi della
periferia era fortemente condizionato, quando non proprio inceppato, dalla logica capitalistica
del sistema mondiale di produzione.
Ma negli anni 70 comincia a formarsi una corrente revisionista che sostiene la possibilit ’
di uno sviluppo di tipo dipendente [Cardoso e Faletto 1979] che non Ł il mero frutto di uno
sviluppo ineguale [Emmanuel 1972] fra Primo e Terzo mondo ma che rappresenta una
seconda ondata d industrializzazione gestita (o gestibile) da un nuovo grado d autonomia del
Terzo mondo nei confronti del Primo. Centrale, per questa nuova autonomia, sembrava essere
l’azione dei diversi Stati nazionali e il tipo di alleanze che essi riuscivano a instaurare, in
alcuni momenti storici, con il capitale nazionale e internazionale (Evans 1979)
2
. Eppure,
anche se l’attenzione di tali autori era soprattutto orientata al sottosviluppo latino-americano e
africano, fu il fenomeno della tarda industrializzazione asiatica, per la sua mole e la sua
dinamica, a forzare il maggior ripensamento sulla relazione fra sviluppo globale del
capitalismo e sviluppo nel Terzo mondo
3
. Lo sviluppo economico e industriale dell’Asia
orientale, iniziato alla fine degli anni ’50, Ł stato infatti uno dei fenomeni piø macroscopici
dell’era moderna. Durante gli anni ’60, Hong Kong, Singapore, la Corea del Sud e Taiwan,
seguendo l’esempio del Giappone, diventarono la seconda generazione di esportatori di
manufatti labour intensive, facendo schizzare a record storici la crescita dell’export che si
riteneva materialmente possibile.
A questi Newly Industrialized Country (Nic), si aggiunsero i "Newly Emerging
Country"(Nec), negli anni ’80, , e cioŁ i stati piø meridionali della Malesia, dell’Indonesia e
della Tailandia. Entrando nel Club dei piø rapidi esportatori mondiali, essi indussero a ritenere
che vi fosse una ricaduta regionale molto ampia dei progressi che i diversi paesi andavano
1
Citiamo solo, fra i piø autorevoli, Baran [1957], Amin [1974] ed Emmanuel [1972].
2
In particolare, secondo Wallerstein (1979] si presentava la possibilit , per certe «periferie», di rompere i vincoli
di sudditanza con il «centro» e diventare delle «semiperiferie» che rifornivano il Centro di una parte del surplus
ma che a loro volta estraevano surplus dalla rimanente periferia.
11
realizzando singolarmente. Infatti una rapida crescita cos rapida Ł sicuramente senza
precedenti. Si pensi che dal 1960 al 1990 le sette economie in questione sono cresciute piø del
doppio del resto dell Est asiatico, quattro volte piø dell America Latina e venticinque volte
piø dell Africa Sub Sahariana. In tale periodo il reddito pro capite si Ł quadruplicato nei
paesi Nic ed Ł soltanto raddoppiato nei rimanenti paesi emergenti. L area asiatica composta
dai NIC e i NEC Ł quella che ha registrato, a partire dagli anni 60, i tassi di crescita piø
sostenuti grazie ad una quota continuamente crescente degli scambi internazionali. Se ad essi
aggiungiamo la Cina, ultima arrivata, fra il 1980 e il 1995 la quota del commercio mondiale
dei paesi appartenenti all area del Pacifico Ł passata dal 14.6% al 25.4% grazie soprattutto al
contributo del Giappone e dei NIC, i quali hanno superato il Giappone stesso a partire dal
1992. (International Financial Statistics e Direction of Trade Statistics, integrati dal World
Economic Outlook, maggio 1997)
Tale processo, che non sembrava assistito da nessuno accordo di alleanza commerciale
4
,
sembrava procedere senza sosta, fino a quasi tutti gli anni 90, coinvolgendo sempre piø
anche la Cina l Indocina e perfino l India. Inoltre grazie all Accordo del Plaza del settembre
1985 si ottiene un riallineamento generale dei tassi di cambio dei paesi industrializzati: la
caduta del dollaro e l apprezzamento dello yen ( di oltre il 50% fra il 1985 e il 1988) si
associano ad un generale apprezzamento di quasi tutte le altre valute europee. A partire dal
1987-88 segue un minore apprezzamento delle valute di Taiwan e Corea (rispetto al dollaro) e
questo incoraggia, nei NIC, la diversificazione delle loro esportazioni verso il Giappone e
l Europa, per ridurre la loro dipendenza dal mercato statunitense. In breve, per i paesi asiatici
la quota di commercio intraregionale comincia a superare le diverse quote di commercio
interregionale: il riassetto delle valute sembra aver provocato, infatti, una notevole
accelerazione del processo di integrazione produttiva e di interdipendenza che tali paesi
avevano gi avviato negli anni precedenti.
5
3
Applebaum e Henderson(1992)
4
L unico accordo in corso Ł infatti l Afta ( Asean Free Trade Area), entrato in vigore nel 1994, comprendente
l Indonesia, Filippine, Tailandia, Brunei, Singapore, Vietnam, Laos e Birmania. Esso prevede lunghi tempi di
attuazione per la riduzione delle barriere tariffarie e non tariffarie su quasi tutti beni commerciati nell area, che
peraltro sono molto pochi, ed escludono numerosi prodotti agricoli. Vi Ł stata poi la formazione dell APEC
(Asia Pacific Economic Cooperation) che da semplice organismo di consultazione in sede GATT, dopo gli
accordi di Seattle del 1993, sembrava voler procedere anche ad un certo grado di integrazione commerciale della
regione. Ma si tratta di un organismo molto ampio che comprende quasi tutti i paesi che si affacciano sulle
diverse sponde del Pacifico, e quindi anche l Australia e la Nuova Zelanda, e i paesi Nord e Sudamericani.
5
Il commercio interno all Asia del Pacifico sale, fra il 1985 e il 1995, dal 36.5% al 49.8% del commercio
mondiale della regione, mentre il commercio con l Europa aumenta di poco ( dal 10.8% al 14.3% del commercio
totale dell area) e quello con il resto del mondo diminuisce in proporzione. In particolare la sola quota delle
12
I rapporti commerciali dell area cominciano quindi ad assumere, negli anni 80, una
struttura sempre piø triangolare. Prima si sviluppa un legame indiretto fra Giappone e Stati
Uniti che passa attraverso i NIC asiatici, i quali presentano un forte disavanzo commerciale
con il Giappone ( per la loro dipendenza da tecnologia, prodotti intermedi e capitali
giapponesi) e un forte avanzo commerciale con gli Stati Uniti, loro principale mercato di
sbocco. Una triangolazione piø ampia e piø complessa riguarda anche, negli anni piø recenti,
gli altri NEC, per i quali il tradizionale avanzo commerciale con il Giappone e con i NIC
dovuto alla vendita di materie prime, si Ł andato gradualmente trasformando, a partire dal
1992, in un disavanzo commerciale con tali paesi. Questo sembra essere dipeso dalle maggiori
importazioni di beni intermedi e di tecnologie che anche questi paesi sono disposti a fare,
dopo l avvento degli investimenti provenienti dal Giappone e dai NIC, , per l ulteriore
sfruttamento delle risorse naturali e per l avvio di nuove produzioni manifatturiere. I mercati
esterni all area sono quindi diventati soltanto l ultimo anello di una catena che si andava
articolando, in Asia, in rapporti di interdipendenza sempre piø stretta e in una diversificazione
sempre piø ampia dei paesi coinvolti nel processo trainato dalle esportazioni.
Con gli anni 80 si manifesta anche un altro fenomeno, quello del commercio
intraindustriale: sia come commercio in prodotti differenziati, frutto di una sempre maggiore
integrazione dei modelli di consumo, a sua volta derivata da sempre minori differenze nel
reddito e nei gusti della popolazione; sia come commercio frutto di una strategia di
integrazione verticale del ciclo produttivo da parte delle imprese multinazionali. In tale ultima
accezione il commercio intraindustriale (fra parti e componenti di uno stesso ciclo produttivo)
diventa anche commercio intra-aziendale, e pu quindi avvenire in misura relativamente
indipendente dall andamento dei mercati esterni (si pensi, tipicamente, ai casi dell industria
elettronica e automobilistica).
Anche gli investimenti intra-asiatici
6
sono fortemente cresciuti, a partire dalla met degli
anni 80, prima sotto forma di crediti bancari e aiuti giapponesi alle economie limitrofe (che
in pratica hanno rappresentato una forma di finanziamento alle prime esportazioni giapponesi
esportazioni verso gli Stati Uniti si riduce, nel periodo, dal 34.1% al 22.5% del totale delle esportazioni. Negli
anni piø recenti il commercio interno nell area Ł stato ulteriormente stimolato dal boom dell economia cinese,
confermando il sospetto che l area fosse diventata un motore indipendente di crescita.
6
Va detto che gli IDE giapponesi restano ancora fortemente orientati verso il resto del mondo, poichØ l importo
cumulato a partire dagli anni 50 Ł ancora localizzato, per il 45.2% del totale, negli Stati Uniti e in Canada,
seguite dall UE, con il 19.1%, dall Asia, con il 16.8% e dall America Latina ( con l 11.9%). Ma per gli
investimenti in attivit manifatturiere l Asia torna in testa ( con il 40% del tota le) contro il 30% in Europa e il
20% negli Stati Uniti.
13
nell area), poi sotto forma di IDE provenienti dal Giappone e infine anche dai NIC verso i
NEC e la Cina.
7
In un primo momento la rilocalizzazione delle produzione in Asia sembrava
originare dalla presenza di elevate barriere tariffarie nei NIC: cos fino a met degli anni 80,
il Giappone decentra soprattutto la produzione e l assemblaggio di beni di consumo (tessile,
settore elettrico) per servire gli emergenti mercati NIC e investe nei NEC per il rifornimento
di materie prime. Con il 1985, la perdita di competitivit delle esportazioni giapponesi, dovuta
all apprezzamento dello yen, induce ad aumentare gli investimenti nei NIC in settori che sono
orientati verso le esportazioni negli Stati Uniti e l Europa, per la presenza di salari
relativamente piø bassi. Il successivo aumento dei costi, in tali paesi (dovuti non solo
all aumento dei salari ma anche alla congestione di molte infrastrutture ), induce il Giappone
e i NIC a spostare tale strategia a valle, nei NEC e ora in Cina e in Indocina (Vie tnam).
Infine in alcune industrie, soprattutto nel settore automobilistico e in quello elettronico,
cominciano ad manifestarsi negli anni 80, le prime rete regionali di produzione che poi
avranno un boom negli anni 90. La Toyota, la Mitsubishi, la Mazda e la Nissan assemblano
ora nei NIC e nei NEC parti prodotte da affiliate di altri paesi ancora.
In sintesi tutti i punti che precedono sembrano confermare le tesi sostenute dal modello
delle oche selvatiche (flying geese), arricchendo quella visione con nuovi e interessanti
elementi.
1.3 Un modello dinamico dei vantaggi comparati.
L’esperienza di sviluppo asiatica degli ultimi decenni Ł stata definita all’interno di un
modello dinamico dei vantaggi comparati anche detto " modello delle oche selvatiche" (flying
geese) . Secondo tale interpretazione Ł possibile spiegare la variazione della competitivit di
un intero settore industriale in base ai cambiamenti dinamici della dotazione relativa dei
fattori produttivi che hanno luogo prima nel corso dello sviluppo di un paese e poi anche nel
corso dello sviluppo di altri paesi limitrofi, imitatori del paese guida. Questo modello
(Akamatzu 1962) era inizialmente volto a spiegare l’evoluzione nel tempo della struttura
industriale di un paese sulla base di un ciclo di vita che riguardava un’intera industria ( e
7
Se osserviamo la dinamica degli investimenti, Ł vero che il boom sperimentato dal Giappone nella seconda
met degli anni 80 rallenta negli anni 90 , ma se consideriamo anche il successivo reinvestimento dei profitti (e
notiamo che i disinvestimenti dalle altre regioni hanno riguardato soprattutto i settori non manifatturieri)
sembrerebbe che la capacit produttiva giapponese in Asia sia continuata a nche negli anni 90 e perfino dopo il
1995, con uno yen di nuovo debole.
14
quindi piø prodotti). Ma in seguito il modello si estende per interpretare il ciclo di vita di piø
industrie in piø paesi.
In sintesi, il ciclo di vita di un’industria assumerebbe la forma di una V rovesciata e
passerebbe attraverso cinque stadi che corrispondono grosso modo a una diversa fase di
sviluppo di un paese.
Nel primo stadio introduttivo, tipico di un’economia arretrata, il mercato Ł ancora dominato
dalle importazioni; in tale stadio l’economia Ł generalmente specializzata nell’esportazione di
beni primari e, avendo una base industriale ancora debole, importa non solo beni capitali ma
anche manufatti dell’industria leggera.
Il secondo stadio, tipico di un NIC giovane, si caratterizza per una specializzazione che
inizia a spostarsi nella produzione di manufatti ad alta intensit di lavoro e a basso valore
aggiunto, inizialmente protetti da elevate barriere tariffarie per impedire il sopravvento della
concorrenza estera presumibilmente piø forte e agguerrita.
Se la politica funziona, e quindi nascono industrie competitive, si passa ad un terzo stadio
di esportazioni da NIC maturo, durante il quale si Ł interessati alla liberalizzazione dei mercati
in cui si Ł venuti competitivi, ma contemporaneamente si sostituiscono con produzioni interne
anche le precedenti importazioni di macchinari, al riparo di nuove barrire tariffarie; a questo
punto tra le esportazioni cominciano a comparire anche manufatti ad alto valore aggiunto e
tecnologicamente avanzati, mentre crollano le esportazioni di beni primari.
Raggiunto il picco, a questa fase seguirebbe uno stadio con produzione ed esportazioni in
declino, che si cerca di contenere attraverso ulteriori sforzi di riqualificazione produttiva e con
l’esportazione di capitali in paesi che sono ancora al primo o all’inizio del secondo stadio, e
che quindi hanno bisogno di capitali e conoscenze di cui non dispongono ancora.
Seguirebbe infine un ultimo stadio in cui si ritorna a importare, in parte dalle stesse filiali
estere varate nella fase precedente, i beni di cui si era precedentemente produttori e a spostarsi
in avanti sulla frontiera tecnologica.
Concentrandoci sui manufatti, al mutare del vantaggio comparato si passerebbe cos da una
specializzazione in industrie ad alta intensit di lavoro ( tessile, abbigliamento, giocattoli) ad
una specializzazione in industrie ad alta intensit di capitale (ch imica, siderurgia, cantieristica
auto) e infine a una specializzazione in industrie ad alta intensit tecnologica (elettronica,
telecomunicazioni, biotecnologie) in una sequenza che si estende a un circuito sempre piø
15
ampio di paesi, inizialmente meno sviluppati, ma poi sempre piø integrati fra loro (Yamazawa
1991).
La successione della specializzazione nelle diverse industrie pu essere rappresentata come
una formazione di V rovesciate che esprimono lo spostamento nel tempo di una particolare
industria da un paese all’altro; e poichØ queste V rovesciate si incrociano e si estendono a
ventaglio, esse richiamano la configurazione assunta dal volo delle oche selvatiche e
l’efficienza di un assetto di volo diretto dall’oca di testa ma docilmente seguito dall’intero
stormo che in tal modo pu godere delle "economie esterne" di tipo dinamico generate dal
gruppo.
In alcune successive versioni del modello (Kojima 1978; Ozawa 1979) si introduce
espressamente il ruolo delle imprese multinazionali e la possibilit che tali imprese possano
investire direttamente all’estero fin dall’inizio, e cioŁ anche prima di aver esplorato il mercato
estero attraverso un primo ciclo di esportazioni.
Con tale modello si Ł tentato di analizzare, in particolare, la diffusione
dell’industrializzazione che ha nelle nazioni che stiamo prendendo in esame, per ondate
successive, a partire prima dal successo del modello giapponese degli anni ’50-’60 e poi da
quello conseguito, a partire dagli anni ’70, dalle altre economie di nuova industrializzazione
costituite da Corea, Taiwan, Hong Kong, Singapore, per comprendere negli ultimi anni ’80
anche la Tailandia, la Malesia, l’Indonesia, cui si stanno ora aggiungendo anche la Cina e
l’Indocina.
La divisione regionale del lavoro avrebbe luogo, in questo senso, attraverso una struttura
di tipo gerarchico diretta prima dall’oca guida ( il Giappone), e poi da Nic e dai Nec, con
ricaduta sugli ultimi paesi emergenti. In questo processo i paesi della fila precedente non solo
beneficiano del fatto che possono esportare beni che sono nuovi per i paesi della fila
successiva, ma anche dal fatto che poi sono anche in grado di trasferire tecnologie e beni
capitali per la produzione diretta nelle economie a valle.
Quando il paese guida ( o i paesi guida) perdono la competitivit in qualche particolare
industria, la produzione interna viene gradualmente sostituita dai paesi inseguitori, che nel
frattempo sono riusciti a sviluppare un’industria competitiva, ma una parte di tali importazioni
proviene dalle stesse filiali delle imprese multinazionali dei paesi di testa, che in tal modo
costituiscono un importante veicolo di trasferimento delle informazioni e della managerialit
da un paese all’altro.
16
Il modello delle flying geese offre un’analisi integrata del commercio e degli investimenti
esteri che si riveler utile, come vedremo, per analizzare lo sviluppo asiatico.
1.4 Uno sviluppo trainato dall esterno
Intendiamo ora sostenere che l’esempio dei Nic e dei Nec confermi in maniera lampante
l’enorme potere di accelerazione dello sviluppo industriale che mirate politiche pubbliche
sono in grado di generare, non appena si manifestino alcune condizioni di contesto interno ed
esterno. Contrariamente a quanto, comunemente pensato, tali condizioni sembrano
perfettamente compatibili con una riedizione in senso dinamico della teoria dei vantaggi
comparati, secondo il modello di sviluppo di tipo gerarchico e integrato dell’intera regione
asiatica che abbiamo descritto nel paragrafo precedente. Ma vediamo quali sono state queste
condizioni di contesto favorevoli.
La prima condizione favorevole riguardava, innanzitutto, la contemporanea presenza di
uno stato di pacificazione interna e di belligeranza esterna, reale o potenziale; tale situazione
si applica molto bene alla situazione asiatica degli anni 50-60 soprattutto con riferimento al
Giappone, alla Corea del Sud e a Taiwan, dove la forte conflittualit sociale dei primi anni ’50
viene presto riassorbita all’interno di una logica di guerra (Corea) o di accesa rivalit con la
madrepatria originaria costituita dalla grande Cina (Taiwan).Tale situazione si applica anche
in parte alla Tailandia, negli ultimi decenni, se pensiamo alle minacce (effettive o latenti)
esercitate su di essa dalla Cambogia e dal Vietnam. Si applica molto meno al caso di Hong
Kong che invece prosperava sotto l egida britannica in funzione di entrepot commerciale e
come porta finanziaria e produttiva da e verso la Cina e solo in parte al caso di Singapore,
dove un rigido controllo pubblico sull’economia interna anche sulle sfere piø private
8
, si
associa a una particolare benevolenza all’accesso delle grandi imprese multinazionali
straniere
9
. Piø difficile applicare tale quadro alla situazione macroeconomica dei rimanenti
paesi, dove i contrasti sociali interni sono stati solo in parte sopiti, e per periodi nemmeno
molto lunghi
,
soltanto grazie ad una particolare rigidit politica dei governi locali (ad esempio
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Ci riferiamo alla forte ingerenza dello Stato in alcuni settori abbastanza tradizionali quali la casa, i trasporti,
l’igiene pubblica ma anche in ambiti che in Occidente sono spesso ascritti alla sfera privata, quali la natalit o la
mobilit personale.
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Ed infatti queste due ultime citt stato vengono abitualmente indicate come rappresentative di una posizione
piø liberista; ma tale considerazione andrebbe interpretata per tener conto del ruolo giocato a Hong dalla Gran
Bretagna e dal ruolo giocato a Singapore prima dagli Stati Uniti e poi dalla stessa Malesia (di cui Singapore ha
fatto materialmente parte fino alla sua espulsione dalla Federazione malese, nel 1965).
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in Indonesia attraverso la pacificazione obbligata imposta dal governo Suharto nel 1967),
oppure attraverso un’attenta politica di equilibrio inter- etnico e un assetto piø democratico
dello Stato (come in Malesia, dopo le rivolte del 1969).
Si era anche parlato della possibilit di accumulare ingenti risorse finanziarie senza
apprezzabili effetti sull
aggiustamento delle bilance commerciali. Nel caso specifico, la
possibilit di trattenere parte degli introiti delle esportazioni in valuta estera (principalmente
in dollari americani) per importare beni intermedi ed effettuare investimenti nei settori
desiderati dalle autorit , associata a un rigido controllo del sistema del credito (almeno fino
alle soglie degli anni ’90) ha di fatto sterilizzato quasi tutte le controindicazioni previste dalla
teoria quantitativa della moneta in termini di inflazione importata. Un sistema che cresce
rapidamente, molto di piø di quanto non crescano i salari e i consumi, pu infatti rispondere
senza tanti traumi a un ampia domanda d investimenti soprattutto se la banche pubbliche e
private e le grandi imprese di cui le banche fanno talvolta parte si comportano docilmente nei
confronti delle guidelines governative e non cedono alle eventuali pressioni del pubblico per
finanziare i consumi. In piø alcuni paesi (ad esempio Hong Kong e Singapore) adottano di
norma la pratica dell ancoraggio (pegging) delle loro monete all’andamento del dollaro
americano, evitando cos il pericolo d rivalutazioni capaci di penalizzare le esportazioni. E
quando alcuni paesi hanno consentito, a partire dalla met degli anni 80, una certa
rivalutazione del loro tasso di cambio, essi erano ormai abbastanza forti (in termini neo-
competitivi, e cioŁ sulla qualit e la novit dei prodotti offerti) da non dover piø subire una
forte concorrenza di prezzo. In effetti, da quando lo yen comincia ad apprezzarsi a seguito
dell’accordo del Plaza del settembre 1985, il Giappone trascina con sØ nuovi investimenti
diretti che provengono anche da Hong Kong, Singapore, Corea e Taiwan e che contribuiscono
in maniera significativa al dinamismo della Malesia, dell’Indonesia e della Tailandia. La
regione, quindi si lega e si articola anche economicamente, a partire da una comune missione
di accelerare al massimo il proprio sviluppo industriale. L’apprezzamento delle valute rinforza
anche la spinta alla globalizzazione: gli investimenti si effettuano anche nei mercati di
destinazione finale, sostanzialmente negli Stati Uniti, in Europa e negli ultimi tempi anche in
America Centrale (Messico, Panama) e Meridionale.
Inoltre all interno delle dinamiche di sviluppo c Ł la possibilit di creare delle sinergie fra
la formazione degli stati nazionali e la loro influenza, prima sull’economia interna (a fini di
crescita) e poi anche sull’intera regione; l’esempio piø emblematico e certo costituito dal
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Giappone, che ha saputo dirigere la crescita industriale nelle direzioni prescelte (strategic
targeting)
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grazie all’enorme influenza esercitata dal MITI e dal MOF (Ministero
dell’industria e del commercio estero e Ministero delle finanze) i quali hanno fornito
rispettivamente le linee guida per lo sviluppo dell industria nazionale a fini esportativi e la
formazione di un risparmio cos elevato (c’Ł chi dice forzato, Fingleton 1995) da impedire
l’aggiustamento con l estero. Anche grazie a tali Ministeri esteri, il Giappone costituisce il
riferimento obbligato per l’intera regione asiatica in termini di leadership finanziaria e
tecnologica. Ma seguono a ruota anche i paesi secondi e terzi
imitatori del dirigismo pubblico
giapponese e delle sue strategie industriali e tecnologiche.
Resta il problema di capire quanto abbia influito questo atteggiamento statale nel creare
piena occupazione delle risorse disponibili, visto che tassi vicini alla piena occupazione sono
stati raggiunti molto presto nei paesi di testa e solo di recente (ma con frequenti ricadute) nei
paesi di coda. In effetti, da un punto di vista statico, il persistere di un atteggiamento sempre e
comunque favorevole a esportare in surplus sembrerebbe in contrasto con una situazione di
vicinanza alla piena occupazione, poichØ potrebbero entrare in azione tendenze di tipo
inflazionistico.
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Non Ł cos se si pensa che questo atteggiamento pu anche caratterizzarsi in
una tendenza a impiegare direttamente all’estero i maggiori introiti delle esportazioni in una
logica che pu essere prima di penetrazione commerciale (sui mercati di sbocco) e poi anche
di penetrazione produttiva
Quest ultima pu aver luogo sia nei paesi limitrofi, quando si vuole operare una
integrazione verticale del ciclo produttivo e assecondare la struttura dei vantaggi comparati
presenti nella regione; sia nei paesi appartenenti alle altre regioni mondiali, quando la logica Ł
quella dell’integrazione orizzontale o della competizione di tipo oligopolistico. Se questo Ł
vero, andrebbero allora fatte opportune considerazioni non soltanto con riferimento al livello
di occupazione esistente, ma anche, e soprattutto, al possibile tasso di crescita e di
qualificazione della forza lavoro che si prevede di impiegare nel futuro. Ecco che allora il
persistere di una posizione attiva dello stato troverebbe giustificazione in un ottica di
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Per strategic targeting si intende una politica volta alla promozione di particolari industrie nazionali sulla base
di una valutazione del loro presunto potenziale di crescita e/o della loro permeabilit all’assorbimento del
progresso tecnico.
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A meno che non si manifestano fenomeni in cui l’afflusso di capitali esteri stimola gli investimenti in settori ad
alta intensit di capitale. In tal caso Ł possibile immaginare un quadro, in cui il surplus commerciale produce
proprio l’effetto di finanziare una crescita di tipo cumulativo senza inflazione.