IV
viaggiando per l’Italia per giungere poi alla loro destinazione finale: “ Il
Museo dell’attore di Genova”. Siccome in fondo alla mia tesi riporterò tutte
le mie interviste non mi dilungherò qui a precisarne l’importante apporto,
proseguirò invece nel raccontare le mie ricerche successive: quando mi è
sembrato di conoscere, almeno in parte, la biografia e le idee di Alessandro
Fersen, mi sono recata per un mese a Genova per visionare tutto il
materiale su quest’artista e selezionare ciò che a me personalmente
interessava di più per il mio lavoro. Terminate le mie lunghe ricerche a
Genova, le quali mi hanno permesso di approfondire le mie conoscenze
riguardo al teatro di Alessandro Fersen e alla sua personalità, sono ritornata
a Milano e ho iniziato a visionare e leggere alcuni libri, riviste e saggi sul
teatro ebraico al Centro di Documentazione Ebraica, situato appunto nella
mia città. Queste ricerche approfondite mi sono servite da base per
comprendere meglio i lavori di Fersen e quindi per riuscire a selezionare
dei dati generali sul teatro ebraico dalle origini ai nostri giorni, dati che
saranno esposti nel primo capitolo della suddetta tesi. Per approfondire le
mie ricerche sul teatro e sul mondo ebraico ho anche contattato e stretto
legami con Mara Cantoni, la quale si occupa di teatro e ha compiuto studi
approfonditi sul teatro yiddish e ebraico; Mara mi ha aiutato inoltre a
trovare la maggiorparte delle musiche klezmer, tradizionali ebraiche,
contemporanee e chassidiche che mi sarebbero poi servite per la mia
proposta di regia sul testo di Fersen: “ Lea Lebowitz”. Riguardo agli
articoli di giornali e riviste che riporterò spesso nella mia tesi, li ho
visionati e fotocopiati in parte al “ Museo dell’Attore di Genova”, in parte
alla redazione della rivista teatrale: “ Sipario” e in parte all’archivio del
Teatro Regio di Torino. La proposta di regia che potrà essere visionata
nelle pagine successive, trae le sue basi in parte dalle mie ricerche sul
mondo e sulle tradizioni del popolo ebraico e in parte dagli anni di
frequentazione di corsi di teatro, dalla visione di spettacoli di prosa e dalla
V
partecipazione in qualità di attrice in parte di essi. La mia formazione
teatrale unita agli studi universitari mi hanno dato il coraggio di
avvicinarmi al testo di Fersen e di azzardare una mia proposta riguardo ad
un probabile allestimento che almeno in questa fase resta naturalmente a
livello teorico.
La progettazione della mia tesi, la quale spero che contribuirà a far
conoscere ad un maggior numero di persone la suggestiva visione di teatro
di Alessandro Fersen e la sua persona, mi ha permesso di viaggiare, di
conoscere molte persone interessanti e di approfondire le mie origini, le
mie radici ebraiche.
Ringrazio dunque Emanuele Luzzati, Franca Valeri, Lydia Stix, Santuzza
Calì, Carlo Reali, Claudia Lawrence, Ariele Fersen, Paola Bertolone,
Gianni de Gregorio, Guido Stagnaro, Mara Cantoni e Rocio Stratico che ha
realizzato i bozzetti per la mia proposta di regia sul testo di Fersen: “ Lea
Lebowitz”. Ringrazio inoltre la direttrice del “Museo dell’Attore”: la
dottoressa Teresa Viziano e l’archivista GianDomenico Ricaldone che mi è
stato di grande aiuto, la direzione del Centro di Documentazione Ebraica e
del Teatro Regio di Torino, i direttori della rivista “ Sipario”: Mario Mattia
Giorgietti insieme allo storico di teatro Ambrogio Pavanelli che collabora lì
in qualità di ricercatore, Pietro Crivellaro: direttore dell’archivio dello
Stabile di Torino e la Casa di Riposo ebraica di Milano. Infine i miei
ringraziamenti vanno al mio relatore Gianfranco De Bosio che mi ha
sollecitato e incoraggiato a proseguire le mie ricerche, alla sua assistente
Elena Cantarelli, al mio correlatore: Alberto Bentoglio, alla mia famiglia e
a tutte le persone che mi hanno sempre aiutato e che hanno seguito con
interesse e partecipazione i miei studi.
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Come nasce la tesi?
Mi sembra interessante prima di affrontare qualsiasi argomento,
interrogarmi sulle motivazioni che mi portano a ricercare in una certa
direzione e chiedermi quali siano gli obbiettivi delle mie ricerche.
Credo che ogni professionista e ogni amante del palcoscenico scelga un
tipo di teatro; per quanto mi riguarda mi sono interrogata in questi ultimi
anni su quale potesse essere il mio e su quali fossero gli aspetti che mi
spingevano ad esplorare questo mondo.
L’arte del palcoscenico a mio parere diventa irripetibile nel momento in cui
si riproduce quel rito antico e magico della comunicazione e
“contaminazione”; nel teatro greco l’evento teatrale riusciva a spezzare la
quotidianità e a creare un altro tempo, ma non per questo meno concreto. Il
pubblico veniva completamente avvolto dal rito del palcoscenico e se
l’incantesimo riusciva si arrivava alla catarsi. Il teatro aveva dunque un
effetto benefico e produttivo sull’uomo, tendeva a migliorarlo ed era
strettamente collegato alla vita quotidiana. Quando io penso al mio modo di
fare teatro penso ad un rito, ad un gioco tra attori e spettatori che agisca su
entrambi, un gioco nel quale, pur rispettando ognuno il proprio ruolo,
entrambi ne escano rinnovati.
Ho dunque ricercato un tipo di teatro e dei professionisti appartenenti a
questo mondo che si sono a mio parere più avvicinati al teatro antico, che
hanno ricercato nell’arte del palcoscenico l’irripetibilità dell’evento. Le mie
ricerche mi hanno portato a scegliere di affrontarne un aspetto soltanto e mi
sono dunque immersa nel gioco scenico del teatro ebraico.
Questo teatro non è antico e le data della sua nascita è controversa; quel che
ci riporta al passato sono i temi biblici e non, affrontati nella sua
drammaturgia, i canti, le danze folcloristiche che riempiono la scena, i riti,
le preghiere ripetute sul palcoscenico e l’identità e la storia di un popolo
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che sono la causa e il fine di questo teatro. Ritengo che il teatro sia stato
uno strumento per la sopravvivenza del popolo ebraico e soprattutto per gli
ebrei orientali: era una possibilità per le masse sparse in tutta Europa di
ricongiungersi attorno ad uno stesso centro di cultura tradizionale. Inoltre
credo che la paura e la disperazione per le continue persecuzioni ( mi
riferisco sempre principalmente all’Europa orientale) potessero trovare uno
sfogo nel teatro arricchendolo con quell’ironia un po’ melanconica che già
circondava altri ambiti della vita quotidiana.
Mi sono avvicinata dunque al teatro ebraico per due motivi principali:
desideravo compiere un viaggio intorno alle mie radici e alle mie origini,
esplorare quel mondo di racconti, di avventure, di emigrazioni e fughe che
mi sono stati narrati fin dall’infanzia da vari membri della mia famiglia. Mi
ha sempre interessato esplorare quel sottile confine che esiste tra mito,
leggenda e realtà e credo che nelle storie appartenenti al mondo ebraico
questo confine sia molto labile eppure molto affascinante perché interessa
la stessa questione dell’identità. Viaggiando attraverso i paesi dell’est:
Praga, Bratislava, Cracovia, Budapest e addentrandomi nei quartieri ebraici
ho ritrovato aspetti simili in città diverse, come se quel nucleo di cultura
tradizionale di cui accennavo prima potesse cancellare i chilometri tra un
paese ed un altro. A Cracovia ho sentito risuonare le canzoni tradizionali
che ascoltavo da bambina e ho visto raffigurate quelle immagini che la mia
fantasia poteva solo in parte ritrarre dai racconti che ascoltavo. Il quartiere
ebraico di Cracovia è molto turistico, di solito la popolarità di un luogo mi
allontana da esso, ma camminando da sola per i viottoli mi domandavo se
fossero solo i tavolini colorati e la luce delle candele ad affollare quel luogo
o se ci fosse dell’altro. Forse il mio animo romantico sta prendendo la
direzione sbagliata, ma io credo che l’uomo sia in pericolo d’identità, veda
il mondo avanzare ad una velocità superiore al tempo occorrente e abbia un
urgente bisogno di ripercorrere le sue radici. Mi accorgo sempre più di
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frequente che sia il male, sia il bene che hanno fatto parte del nostro
passato e della nostra storia vengano cancellati dai luoghi che li hanno
ospitati per lasciar posto ad un presunto progresso e modernità. Il mio
intento non è conservatore, ma credo che per un vero progresso dell’uomo
ci sia bisogno di legarsi alle tradizioni e alla magia di riti antichi. Ecco
perché forse io coglievo nei volti della gente mentre ascoltavano antiche
canzoni, uno sguardo malinconico e nello stesso tempo la curiosità di un
bambino. Le tradizioni non riguardano solo il mondo ebraico e se fossi alla
ricerca di un patrimonio folcloristico potrei anche non staccarmi dal mio
luogo natio oppure potrei esplorare il mondo africano o il teatro nô
i
giapponese, ma ho preferito approfondire un mondo che conosco in parte e
che è più vicino alla mia persona.
Il secondo motivo mi porta ad approfondire un argomento affrontato nelle
righe iniziali: il teatro ebraico a mio parere offre nella sua modalità scenica
un’arte del palcoscenico completa o meglio punta ad un teatro totale, la
stessa direzione verso la quale si è orientata tutta la ricerca di Alessandro
Fersen, il regista e l’uomo di teatro su cui ho deciso d’incentrare una
cospicua parte della mia tesi. Per teatro totale intendo una forma d’arte che
racchiuda in sé il canto, la danza, la parola, la mimesi, il racconto, il rito e
tutti quegli aspetti che sono necessari per un’azione teatrale efficace che
possa “contaminare” l’animo del suo fruitore; il teatro ebraico che ha
raccolto tutta la musicalità e i riti del suo patrimonio antico credo che possa
essere definito teatro totale e possa soddisfare quell’esigenza di
raccoglimento che era insita nell’antico teatro greco. A mio parere quando
il palcoscenico tende a competere con altri mezzi di comunicazione quali
ad esempio il cinema o la televisione cercando di farli suoi, perde in
i
Teatro Nô: Antico dramma serio giapponese, le cui origini affondano nelle pratiche e nelle cerimonie
sciamaniche, poi trasformatesi in forme teatrali popolari e prevalentemente danzate. Dalle forme di teatro
originarie: dengaku, bungaku e soprattutto sarugaku, per successive depurazioni, Kan'ami Kiyotsugu
(1333-84), capo della compagnia teatrale nella città di Nara e soprattutto suo figlio, Zeami Motokiyo
(1363-1444), trasformano il sarugaku (teatro mimico-musicale) in sarugaku nô, ossia teatro d'arte, e ne
codificano forme e repertorio.
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partenza perché non potrà mai fungere da occhio documentaristico o
registrare oggettivamente aspetti della nostra vita quotidiana, il teatro
secondo me deve giocare con il suo aspetto allusivo e con l’immaginazione
dello spettatore. Quando io penso alla parola teatralità, immagino un’azione
forte che sia parte di un evento unico e che non si dimentichi mai del suo
aspetto ludico e non per questo meno serio.
Se mi pongo l’obbiettivo di affrontare la regia di un testo, ciò che cerco
d’individuare come aspetto fondamentale del mio lavoro è l’azione: tendo
dunque ad immaginarmi come concretamente le parole inserite nel testo
drammaturgico possano trasformarsi in un gesto compiuto nel corpo, nella
mente e nella voce dell’attore; se un testo come quelli che fanno parte del
patrimonio della migliore drammaturgia ebraica, contiene già in sé
momenti mimici, litanie, canzoni, danze, narrazioni e momenti
espressionistici, è evidente che rientra in una forma di teatro totale.
Ho concentrato parte della mia ricerca su una personalità in continua
trasformazione e autoanalisi come quella di Alessandro Fersen perché
credo che si avvicini al mio modo di concepire la parola teatralità e a
tradurla concretamente; esplorando il suo lavoro mi sono accorta come sia
in testi che si rifacevano alla drammaturgia ebraica, sia in altri ad essi
estranei, abbia sempre cercato di tendere ad un teatro totale e a non
dimenticare la magia dell’evento scenico. Fin dal dopo guerra non ha mai
smesso di sperimentare nuovi giochi teatrali che gli permettessero di
giungere a questa completezza, a mio parere ha sempre unito il passato
storico con i suoi interrogativi inquietanti sul futuro dell’uomo, si è sempre
addentrato sul problema dell’identità ponendosi con grande anticipo
questioni che avrebbero allarmato uomini di spettacolo, ma anche di
scienza e di cultura più in generale, in tempi successivi; mi riferisco ad
esempio al tema scienza e potere affrontato nel “Golem“, oppure mi
riferisco alla contrapposizione tra bene e male, tra storia e progresso che
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fuoriesce da uno spettacolo come il “Leviathan”. Ha giocato con le certezze
di comunicazione dell’uomo moderno impostando uno spettacolo come l’
”Edipo re” sull’antica metrica greca.
Illustrando alcuni aspetti del suo lavoro credo di essere riuscita anche a
precisare uno dei motivi che mi hanno portato a scegliere di addentrarmi in
questa tesi: Fersen affronta temi mitici o storici, ma non, a mio parere, per
rimanere ancorato ad un passato antico, ma per mostrare la continua
relazione tra i temi di questo passato e i bisogni e timori dell’uomo
moderno. Perciò nel mio lavoro di recupero delle tradizioni e dei luoghi
antichi c’è anche un desiderio di esplorazione sul mio io rapportato al
mondo e alla società moderna e dunque nella mia ricerca di un teatro che
ripercorra antiche leggende e la storia di un popolo nato molti secoli fa, non
tendo ad ancorarmi al passato per paura di non poter fermare il tempo, ma
cerco di raccogliere oggi i frutti di quegli insegnamenti e mi accorgo che
forse non sono troppo distanti. Credo che il teatro sia un modo, forse non
l’unico, ma quello che preferisco, per far rivivere con l’immaginazione e
l’azione aspetti di mondi e popoli lontani e poter meditare su che cosa
ancora ci leghi a loro, inserendoli all’interno dell’evento ludico che il teatro
riesce a creare con pochi mezzi.