2
attenta e curiosa, le sottolineature di colore diverso (fatte su “carta da
minuta”
2
, la meno costosa) alle parole dell’autore americano ed i commenti
sempre creativi, che lo contraddistinguevano. Oppure Pavese le leggeva le
lettere di un Vittorini infuriato perché la censura gli imponeva di sostituire
‘cosce’ con ‘seni’ nella sua traduzione di un testo di Caldwell.
Risale a questi precisi momenti l’innamoramento della Pivano nei
confronti di autori così lontani dalla realtà e dalla letteratura italiana di quel
periodo, ma così coinvolgenti per il loro innovativo modo di scrivere. Ciò
che rendeva saldo il rapporto tra la Pivano e Pavese era uno scambio
reciproco di idee e opinioni che andava ben aldilà di una semplice stima; fu
questo eccezionale insegnante a spronare la Pivano, a costringerla a studiare
ogni giorno per anni, trasmettendole quell’integrità professionale da lui
stesso applicata. Lo scrittore prestava alla sua giovane alunna i libri che
avrebbero segnato un’esistenza, come ad esempio l’Antologia di Spoon
River (Spoon River Anthology) di Edgar Lee Master, pubblicato in America
nel 1915 e non ancora pubblicato in Italia; e lei lo cominciò a tradurre di
nascosto, non credendo di poterne fare un mestiere. Quando Pavese un
giorno trovò il manoscritto con la traduzione della Pivano, fatta per amore
di quel testo e per diletto, la aiutò a pubblicarlo presso Einaudi nel 1943 e lo
recensì per prima sulla rivista di Francesco Flora ‘La Critica’. La Pivano lo
ringraziò apponendo una dedica sulla copertina: “Caro Pavese, io sono così
contenta e so bene che lo devo a lei”
3
. In quegli anni le tra-
2
Id. I miei quadrifogli, Piacenza, Frassinelli, 2000, p. 107
3
Ibid.
3
duzioni degli autori americani non venivano fatte per ottenere onori
accademici, anzi, spesso si rischiava la prigione o il confino. In un
momento di crisi della nostra prosa e del nostro linguaggio, il contenuto
obbligatorio e il linguaggio tradizionalmente aulico schiacciavano qualsiasi
“voce nuova” e l’apparire di questa letteratura si presentò come lo scontro
fra “due civiltà”, fra due “età successive”
4
. “In questi frangenti, la cultura
italiana – ricorda Pavese verso la fine del 1945 – visse dell’illusione,
perennemente rinnovata, che fosse possibile scavarsi una nicchia e
accucciarvisi attendendo ai fatti propri”
5
. Fallita dunque l’illusione della
‘nicchia’ venne intrapreso l’arduo sentiero del contatto con la cultura
straniera, di cui un capitolo certamente rilevante è quello delle traduzioni.
Inoltre, quasi sempre chi divulgava gli autori americani cadeva nel pubblico
sfavore per averli tradotti perché considerati ‘volgari, privi di un linguaggio
‘alto’. Erano anni in cui l’Europa era considerata “colta” e l’America
‘barbara’. Ha scritto Pavese:
il decennio dal ’30 al ’40 che passerà nella storia della nostra cultura
come quello delle traduzioni, non l’abbiamo fatto per ozio né Vittorini né
Cecchi né altri. Esso è stato un momento fatale, e proprio nel suo
apparente esotismo e ribellismo è pulsata l’unica vena vitale della nostra
recente cultura poetica. L’Italia era estraniata, imbarbarita, calcificata –
bisognava scuoterla, decongestionarla e riesporla a tutti i venti primaverili
dell’Europa e del mondo. Niente di strano se quest’opera di conquista di
testi non poteva esser fatta da burocrati o braccianti letterari, ma ci vollero
giovanili entusiasmi e compromissioni. Noi scoprimmo l’Italia – questo il
4
G. PINTOR, Il sangue d’Europa, a c. di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1977, p. 150
5
C. PAVESE, Il fascismo e la cultura, in La letteratura americana e altri saggi, Torino, Einaudi,
1990, p. 79
4
punto – cercando gli uomini e le parole in America, in Russia, in Francia,
nella Spagna.
6
Rimane tuttavia da chiarire il riferimento pavesiano alla ricerca delle
‘parole’, nel lavoro delle traduzioni e al fine di scoprire l’Italia. Tale ricerca
costituisce indubbiamente l’obiettivo primario di Pavese e di Vittorini, che
alla letteratura americana guardavano “non tanto oggettivamente quanto
soggettivamente, cercandovi la risposta alle proprie domande di scrittori e
di uomini. Cosicché la loro interpretazione del Novecento americano è vera
soprattutto nei termini della loro poetica”
7
. “Nelle nostre parole dedicate
all’America – s’avvede subito Pintor nel recensire l’antologia Americana
(1941) di Vittorini – molto sarà ingenuo e inesatto, molto si riferirà ad
argomenti forse estranei al fenomeno storico USA e alle sue forme attuali”
8
.
D’altra parte, nel clima di mobilitazione, non soltanto delle coscienze,
imposto dal momento (“Soltanto la guerra ha risolto la situazione,
travolgendo certi ostacoli, sgombrando il terreno da molti comodi ripari e
mettendomi brutalmente a contatto con un mondo inconciliabile”, confessa
Pintor ne L’ultima lettera
9
), non rimaneva che l’ipotesi di un’America
mitica non ha bisogno di Colombo, “perché è scoperta dentro di noi (come)
la terra a cui si tende con la stessa speranza e la stessa fiducia dei primi
emigranti e di chiunque sia deciso a difendere a prezzo di fatiche e di errori
la dignità della condizione umana”. E qui mito assume il significato preciso
di deformazione ideologica della realtà, nel cui ambito i confini tra
6
Id. L’influsso degli eventi, 1946, in N. Carducci, Gli intellettuali e l’ideologia americana
nell’Italia letteraria degli anni Trenta, Manduria, Lacaita Editore, 1973, p. 13
7
A. LOMBARDO, La critica italiana sulla letteratura americana, in “Studi americani”, n. 5, 1959,
p. 40
8
G. PINTOR, Il sangue d’Europa, cit. p. 159
9
Ibid.
5
letteratura e vita, tra personali esigenze di poetica ed oggettiva dimensione
storica della società americana, si confondono e mistificano.
Tutte le traduzioni fatte in questo periodo non portarono vantaggi
tangibili, sicuramente non denaro. Fu tra il 1930 e il 1940 che il vero,
autentico interesse per la narrativa americana esplose attraverso le scoperte
e le traduzioni di Pavese e Vittorini. Traducevano gratis, pur di veder il
libro uscire: Pavese tradusse per mille lire Moby Dick, che restò sempre uno
dei suoi libri preferiti; per la stessa cifra la Pivano tradusse (qualche anno
dopo) l’Antologia di Spoon River. Gli editori lasciavano tradurre un libro
americano soltanto se in cambio veniva tradotto un libro inglese classico.
La Pivano tradusse un libro di Jane Austen e uno di Charles Dickens per i
quali tutto serviva, tranne il linguaggio colloquiale e quotidiano
dell’italiano contemporaneo. Vittorini si adattava a tradurre libri
insopportabili in cambio della promessa da parte dell’editore di far uscire
qualche Saroyan. Tradurre quei libri era molto polemico, era un po’
pericoloso, era affascinante; quei libri insegnavano un nuovo modo di
vivere, un nuovo modo di esprimersi. La forza dell’America è proprio nel
suo non avere ‘scuole’. In America si legge, ma non ci si lega ai libri che si
sono letti; la cultura non è un peso morto di tradizioni. Le tradizioni sono
conosciute; ma siccome sono tradizioni altrui, cioè soltanto acquisite, se ne
trattiene quanto se ne scopre vitale e il resto non lo si sente pesare addosso.
Addosso l’America ha la ‘sua’ tradizione, che è tradizione di vita vissuta:
l’epopea pioniera, la Guerra Civile, la standardizzazione, l’immane sogno
democratico. La tradizione europea, setacciata dai classici americani, è
servita soltanto a porre le basi di un’autoctonia che le fa da linfa vitale, non
da camicia di forza. Ciò spiega come mai lo scrittore americano è prima di
tutto un uomo davanti a un problema, con amalgamate tutte le esperienze
6
degli altri uomini; lo scrittore europeo, al contrario, davanti a un problema
deve, prima di affrontarlo, prosternarsi ai vari dèi della sua tradizione. Le
traduzioni di Pavese e di Vittorini trascinavano col loro entusiasmo il
giovane lettore che era spinto a scoprire con loro un mondo insospettato e
un linguaggio autentico e carico di realtà.
Verso il 1930, quando il fascismo cominciava a essere ‘la speranza del
mondo’, accadde ad alcuni giovani italiani di scoprire nei suoi (di Pavese)
libri l’America, un’America pensosa e barbarica, felice e rissosa, dissoluta,
feconda, greve di tutto il passato del mondo e insieme giovane, innocente.
Per qualche anno questi giovani lessero e tradussero e scrissero con una
gioia di scoperta e di rivolta che indignò la cultura ufficiale, ma il successo
fu tanto che costrinse il regime a tollerare, per salvare la faccia. Si
scherza? Eravamo il Paese della risorta romanità dove perfino i geometri
studiavano il latino, il Paese dei guerrieri e dei santi, il Paese del Genio per
grazia di Dio, e questi nuovi scalzacani, questi mercanti coloniali, questi
villani miliardari osavano darci una lezione di gusto facendosi leggere,
discutere, ammirare? Il regime tollerò a denti stretti, e stava intanto sulla
breccia, sempre pronto a profittare di un passo falso, di una pagina più
cruda, d’una bestemmia più diretta, per pigliarci sul fatto e menare la
botta. Menò qualche botta, ma senza concludere. Il sapore di scandalo e di
facile eresia che avvolgeva i nuovi libri e i loro argomenti, il furore di
rivolta e di sincerità che anche i più sventati sentivano pulsare in quelle
pagine tradotte, riuscirono irresistibili a un pubblico non ancora del tutto
intontito dal conformismo e dall’Accademia
10
.
10
F. PIVANO, Album americano, Piacenza, Frassinelli, 1997, p. 327
7
Per molta gente l’incontro con Caldwell, Steinbeck, Saroyan e persino col
vecchio Lewis, aprì il primo spiraglio di libertà, il primo sospetto che non
tutto nella cultura del mondo finisse coi fasci.
La ricchezza espressiva di quel popolo nasceva non tanto dalla vistosa
ricerca di assunti sociali scandalosi e in fondo facili, ma da un’aspirazione
severa e già antica di un secolo a costringere, senza residui, la vita
quotidiana nella parola. Di qui lo sforzo continuo per adeguare il linguaggio
alla nuova realtà del mondo, per creare in sostanza un nuovo linguaggio. E
di questo stile non fu difficile scoprire pionieri iniziatori nel poeta Walt
Whitman e nel narratore Mark Twain, in pieno Ottocento.
È un’esperienza che non potrebbe venire narrata in termini più precisi e
di cui la Pivano è diretta testimone. Non ha mai dimenticato la felicità che
provò a leggere i primi libri americani che Pavese le prestò quand’era
ragazzina: Anderson, Masters, Hemingway, Whitman. Quella felicità la
provarono moltissimi ragazzi della sua generazione; e poco importava
sapere se Masters oltre a Spoon River aveva scritto libri brutti o belli. Quel
libro pareva molto bello; non a lei soltanto, ma a tutti i suoi coetanei. È
naturale che piacesse a Pavese, che lo aveva scoperto e tenuto a battesimo;
e nemmeno a lui importava granché il fatto che Masters non avesse scritto
nient’altro di valore. Dopo tutto Masters non è l’unico caso di un autore che
riesce a scrivere un solo libro capace di entrare nella storia, non fosse che
per aver influenzato un’intera generazione di scrittori, tra cui Sherwood
Anderson, anch’egli molto prolifico, ma autore, in realtà, di pochi libri
veramente belli; ed è impossibile negare, alla lente del microscopio più
infallibile, l’influenza e la cesura che il libro determinò nella storia
letteraria americana.
8
Il comune denominatore consisteva in una produzione letteraria tra il
confessionale e il naturalista, sempre immersa in una realtà quotidiana di
fatti e azioni visti in dimensioni umane che avevano ben poco a che fare
con l’inflazione nazionalistica e guerrafondaia emblematica della nostra
autarchia culturale. I giovani compresero che la vera, autentica scoperta
degli americani consisteva nel nuovo linguaggio fresco e schietto che
avevano introdotto per sempre nella pagina scritta e che segna la definitiva,
insormontabile differenza tra la narrativa americana e quella inglese. Agli
intellettuali di allora dava fastidio, per esempio, che la censura fascista
impedisse di parlare di politicanti corrotti o di suicidi, di povertà o di
postriboli e così via; non perché amassero queste cose, ma perché queste
cose fanno parte della vita reale. In fondo, era più facile trovare un
politicante corrotto che i conquistatori di popoli così amati dalla
propaganda di allora, il quale nonostante tutto riusciva perfino più
simpatico. Quando a Pavese, alla Pivano, a Vittorini e a pochi altri come
loro vennero tra le mani quegli innocenti libri americani, mediocri finché si
vuole – se proprio si vuole che fossero mediocri – dove gli uomini agivano
come creature umane piene di debolezze e di difetti, desideravano piccole
umili cose quotidiane e si esprimevano in un linguaggio sincero e
sommesso, probabilmente si sentirono scossi dall’emozione del ‘proibito’.
La famosa definizione di Pavese, che il mondo letterario americano pareva
alla sua generazione “qualcosa di più che una cultura: una promessa di vita,
un richiamo del destino”, non suscita sorrisi perché rispecchia esattamente
il loro stato d’animo di quegli anni. Lo dimostra il fatto che i primi
Americani di cui si innamorò sotto la spinta di Pavese e Vittorini, non
furono sempre i classici, né antichi né moderni, ma autori a volte di secondo
9
piano, come certo Steinbeck (che però ha finito per prendere un Premio
Nobel) o certo Saroyan.
Tra quelli che ora sono classici moderni amarono per primi Sherwood
Anderson e Masters; proprio perché furono loro i campioni di quella
sincerità espressiva che in quegli anni pareva il sogno più irraggiungibile.
Non era soltanto il loro contenuto che li affascinò. Certo, era un contenuto
molto eccitante, molto interessante; ma un semplice documento etnico non
può assorbire un’intera generazione per anni interi. Forse Anderson e
Masters facevano scoprire a noi Italiani un nuovo modo di essere uomini:
quello di essere uomini desolati e imprigionati dalla civiltà, la civiltà
capitalistica delle industrie che in America era già fatta e in Italia
incominciava appena.
Per quanto riguarda le innumerevoli possibilità di realizzare una
traduzione creativa, la Pivano si trovava indecisa; non aveva dubbi invece,
sulla scelta tra traduzione creativa e traduzione commerciale (che non ha
mai preso in considerazione). Si rese conto che qualcuno traduceva parola
per parola, altri alternavano l’andatura della lingua inglese, altri ancora
alternavano l’andatura della lingua italiana; qualcuno ricostruiva il
linguaggio antico inglese cercando il corrispettivo nel linguaggio antico
italiano, altri cercavano di ricostruire il clima del passato servendosi però di
parole moderne; qualcuno distruggeva il ritmo originario della pagina
inglese per inventare un ritmo completamente nuovo nella pagina italiana, e
così via:
10
il calcolo delle probabilità mi si presentò quasi infinito. A imbarazzarmi
era la tenacia con la quale ogni traduttore difendeva la sua scelta e dunque
le sue posizioni
11
.
Su un punto non ebbe mai dubbi: quello di evitare la tecnica, in voga tra i
traduttori francesi e seguita da alcuni traduttori italiani, che consisteva
nell’alterare la struttura della frase inglese per ottenere i lunghi periodi cari
ai ritmi francesi. Il primo choc in questa direzione lo ebbe quando lesse la
traduzione francese di Addio alle armi, dove i paragrafi hemingweyani, con
quelle brevi frasi scattanti, asciutte, taglienti, aspre, vennero diluiti in
lunghe frasi sonore, rotonde, da comizio ottocentesco. Quel giorno decise di
dedicare la sua energia professionale alla ricostruzione italiana dei ritmi e
delle intonazioni. Le sue traduzioni furono accusate di rispecchiare troppo
la pagina inglese e il suo modo di tradurre tacciato di superficialità. Venne
chiamata in senso spregiativo ‘americanista’, considerata quindi rivoltosa e
un po’ pericolosa per via della propaganda che sembrava fare traducendo in
questa maniera.
Un altro problema per i traduttori di quegli anni (siamo nel 1943) era
l’ostilità del governo autoritario, nazionalista e militarista verso una
letteratura d’oltreoceano che contrapponeva alla demagogia di un’italianità
retorica e imperialista la demagogia americana di una democrazia classica
di stampo libertario. La Pivano intanto affrontava, oltre al come tradurre
uno ‘slang’ di cui ancora non circolavano dizionari, quello di introdurre
nell’eleganza formale della pagina letteraria italiana, il linguaggio da strada
o almeno la parlata quotidiana che arrivava con romanzi scritti da ex
11
Ibid.
11
spaccalegna come Erskine Caldwell oppure ex lavapiatti come Richard
Wright.
Il problema dello slang in realtà era soltanto un problema contenutistico.
La Pivano si accorse subito che era impossibile trovare uno slang italiano
corrispondente a quello americano; un po’ perché in Italia lo slang si usava
prettamente nel giornalismo sportivo o nei linguaggi cifrati del crimine
organizzato, un po’ perché lo slang italiano era più passeggero di quello
americano che durava almeno una generazione. Fu quindi una saggia idea
quella che indusse la Pivano a scegliere un linguaggio-base di intonazione
meno specifica. Così si concentrò sul linguaggio della vita quotidiana per
ritrovare l’estrema colloquialità apparentemente spontanea delle parole
usate da scrittori che poi queste parole inserivano in strutture letterarie
tutt’altro che spontanee e anzi sempre tese ed equilibrate, fino ad essere
elaborate e ambiziose come nelle esercitazioni del cosiddetto “flusso della
memoria”
12
di Faulkner o nelle tirate bibliche di Melville. Cercò inoltre di
ritrovare il linguaggio quotidiano di quegli autori rileggendo libri italiani
della stessa epoca, per catturare soprattutto il loro ritmo e il loro tessuto
connettivo, in modo che le traduzioni non fossero cosa rigida e schematica.
A tal fine teneva grosse rubriche dove raccoglieva le parole che ricorrevano
nel libro più di una volta, sia con lo stesso significato sia con significati
diversi, seguendo accanto alla parola il numero della pagina dove la parola
veniva ripetuta: l’idea era di raggiungere una prima parvenza di ritmo
introducendo nella pagina italiana le stesse ‘ripetizioni’ usate dall’autore.
Era un ritmo embrionale, che poi sviluppava lavorando sugli accenti e la
cadenza generale; fu il suo tentativo di rendere pagine antiche nello ‘stile’
antico di un’altra lingua senza usare parole antiche, ormai cadute in disuso,
12
R. GIACHETTI, Lo scrittore americano, Milano, Garzanti, 1987, p. 79
12
cercando invece di ricrearne il tono, l’atmosfera, il ‘non detto’: base
rudimentale di primissima intelaiatura ritmica nel tentativo di costruire le
varie cadenze.
Il risultato è un adattamento fedele e totale al testo in tutta la sua gamma:
dall’intonazione alla punteggiatura. Quest’ultima è una delle sue ostinazioni
più caparbie con la quale dovette fare i conti un giorno, traducendo
Faulkner e trovandosi sul tavolo un paragrafo di una ventina di pagine
senza un punto, dove pensieri, immagini e azioni erano legati da un
‘crescendo’ di gerundi e participi presenti. La cosa più facile da fare
sarebbe stata spezzare quel paragrafo in tante piccole frasi, ma la Pivano
preferì lavorarci sette mesi per tentare di non interromperne la lunga ondata
di respiro. L’ansietà di voler essere fedele alle pagine dei ‘suoi’ autori la
spinse a mettersi in contatto con loro per chiedere spiegazioni e consigli.
Finita la guerra la Pivano andò a parlare con Alice Toklas da cui ebbe
informazioni e commenti sul saggio che poi scrisse sulla Stein; quando
Richard Wright fu invitato da Jean Paul Sartre a Parigi, lei andò a parlargli
del libro che aveva scritto, tuttora inedito, Lo zio Tom è morto, ma
soprattutto per chiedergli spiegazioni che l’aiutassero nella traduzione dei
suoi racconti.
Poi arrivò Hemingway e la loro amicizia, che servì a facilitarle le
traduzioni, come per esempio, quando gli chiese di spiegarle qualche
espressione ‘slang’ e lui dichiarò fermamente che non aveva mai usato
‘slang’ nei suoi libri e che qualunque parola usata da lui avrebbe potuto
essere usata da Shakespeare e dunque si poteva trovare in qualunque
dizionario
13
. In seguito i consigli di Hemingway apparsi sul “Kansas City
13
F. PIVANO, Amici scrittori, Milano, Mondadori, 1995, p. 94
13
Star”, le furono di grande aiuto per continuare il lavoro di traduttrice fedele
al testo:
usate frasi brevi. Usate paragrafi brevi. Usate un inglese energico. Siate
positivi, mai negativi. Non usate mai slang, che è fuori luogo quando il suo
uso è diventato comune. Per essere piacevole lo slang deve essere fresco;
evitate l’uso di aggettivi, specialmente quelli accrescitivi come splendido,
meraviglioso, straordinario, magnifico, eccetera.
14
Oltre che da queste ‘regole’ dettate da un Hemingway sicuro di sé e
sicuro di ciò che voleva dire, la Pivano apprese anche dalla sua vicinanza e
dalle sue abitudini ‘letterarie’: la costanza nello scrivere ed il tenace lavoro
di finitura che non smetteva mai di applicare alle sue pagine, un vero e
proprio labor limae.
La successiva conoscenza fu quella di Faulkner del quale la Pivano aveva
considerato la prosa “un’interessante sfida stilistica”
15
quando aveva tentato
di tradurla. La visione sarcastica della vita da parte di Faulkner fu
illuminante per capire la chiave di lettura dei suoi romanzi. La Pivano è
sempre stata attaccata più ai rapporti personali che le hanno permesso di
avvicinarsi di prima mano alle tecniche di alcuni scrittori e a volte al mondo
che li ha ispirati, piuttosto che ad una teoretica della traduzione, e ha
sempre cercato di capire quello che i ‘suoi’ autori avevano cercato di dire,
anche aldilà delle loro parole.
14
Ibid.
15
Id. Amici scrittori, cit. p. 168