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INTRODUZIONE
«Annibale era il nuovo che arrivava»
1
, dice di lui Barbara
Valmorin, un precursore sotto ogni aspetto, anzitutto quello
drammaturgico.
In un periodo in cui la sperimentazione teatrale rifiuta la
centralità del testo drammatico e della narratività, con risultati
spesso pedanti e persino soporiferi, Ruccello ritorna a un teatro
di parola, incentrato sulla figura dell’autore – attore – regista di
tradizione scarpettiana, anticipando il teatro di narrazione degli
anni Novanta e Duemila.
Sempre al di sopra delle mode, il drammaturgo stabiese si
oppone alla corrente neoavanguardistica che vuole sbarazzarsi
in un sol colpo della tradizione, ripartendo invece da
quest’ultima, dal kammerspiel borghese e ottocentesco, ben
conscio che soltanto tenendo sempre presente ciò che è già stato
fatto e detto nel passato, sia possibile evitare davvero l’ingenuità.
Dalla sua sperimentazione stilistica scaturisce una lingua
teatrale dal sapore antico, che, dietro l’impressione di
naturalezza e veridicità, nasconde un’accurata ricerca filologica e
un minuzioso labor limae.
Ma, al di à dell’aspetto puramente formale, nelle sue opere
Ruccello analizza a fondo le degenerazioni della società piccolo-
borghese, sempre più meschina e individualista: «Tipico rapporto
della borghesia con la propria classe di appartenenza è quello di
odiarla»,
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afferma in una sua famosa intervista
sorprendentemente attuale.
1
B. VALMORIN, in Annibale Ruccello – Omaggio dalla Pro Loco Catellammare di Stabia,
https://www.youtube.com/watch?v=wsNUO44pI8Q, min. 0’ 25’’
2
A. RUCCELLO, Intervista in Assoli,
https://www.youtube.com/watch?v=mCE6oj2XSb8&t=950s, min. 10’ 00’’
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Rivedere oggi il teatro di Ruccello dà la sensazione orwelliana di
trovarsi di fronte a una sorta di profezia, una precoce denuncia
del vuoto umano e culturale legato alla diffusione della cultura
di massa e alla conseguente scomparsa delle tradizioni.
I suoi protagonisti vivono al telefono o incollati alla televisione,
o ancora non si alzano mai dal letto, ma potrebbero
tranquillamente essere personaggi dei giorni nostri e trascorrere
il proprio tempo davanti al computer.
Ad accomunarli una disperata solitudine, figure “deportate”
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che non trovano più il loro posto nella società massificata: e così
il protagonista de Le cinque rose di Jennifer da femminiello,
fenomeno gestito un tempo in termini fortemente ritualizzati,
diventa transessuale, mero oggetto di scambio e mercificazione,
o ancora l’Adriana di Notturno di donna con ospiti, è letteralmente
divorata dall’impossibilità di eguagliare i modelli televisivi così
lontani dalla sua quotidianità, o infine la baronessa Clotilde è
stata privata del suo status sociale, della sua lingua, persino
della sua identità dalla conquista sabauda.
Attraverso queste figure emarginate, Ruccello disegna un
ritratto attualissimo della società dell’immagine,
dell’individualismo e della diffidenza reciproca, con distacco,
crudeltà e incanto al tempo stesso.
Ferdinando è unanimemente considerato il suo capolavoro, la
sua opera più matura, perché unisce la sensibilità moderna
nella descrizione dei personaggi e dell’intreccio a una forma
teatrale classicheggiante, ottenendo così un effetto straniante,
finanche sovversivo.
In molti hanno provato a mettere in scena quest’opera dopo la
morte dell’autore, ma soltanto Isa Danieli, a mio avviso, è
riuscita a mantenere quel perfetto equilibrio trai vari piani di
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E. FIORE, Annibale Ruccello. Teatro, Milano, Ubulibri, 2005, p. 10
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lettura, senza scadere nell’interpretazione letterale del testo o
senza permettere che le innumerevoli citazioni colte prendessero
il sopravvento.
È anche merito della strabiliante presenza scenica, fisica e
vocale dell’attrice napoletana, che Ferdinando è finalmente
diventato un classico, entrando meritatamente a far parte del
circuito teatrale ufficiale e istituzionale.
La mia ricerca si basa sulla rappresentazione al Piccolo Teatro
Studio Melato di Milano durante la tournèe del 2006, l’ultima in
cui Isa Danieli interpreta la scorbutica baronessa.
Purtroppo e immeritatamente esistono ancora pochi studi su
questo importantissimo autore novecentesco, ma ho avuto la
fortuna di potermi aiutare con una ricchissima sitografia,
contenente un gran numero di recensioni, quasi sempre
entusiastiche, e interessanti testimonianze video.
Il primo capitolo si apre con una breve contestualizzazione
storica e linguistica, ben lontana dal voler essere esaustiva,
poiché sarebbe impossibile riassumere in poche pagine
l’incredibile varietà delle esperienze teatrali a cavallo tra gli anni
Settanta e Ottanta.
Affronterò in seguito gli aspetti più strettamente testuali
dell’opera: a cominciare dall’intreccio e dalle caratteristiche dei
personaggi, tentando di rilevare il sottile gioco di rimandi e
citazioni colte che soggiace al testo, per proseguire poi con la
lingua e lo stile.
Nel secondo capitolo mi occuperò invece dell’analisi dello
spettacolo vero e proprio, dedicando la prima parte
all’interessantissima storia scenica di Ferdinando, la seconda
invece alla messa in scena curata da Isa Danieli nel 2006.
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I. IL TESTO TEATRALE
I.1. Lo sfondo degli anni Settanta e Ottanta e la scena napoletana
Annibale Ruccello nasce a Castellammare di Stabia, alle porte di
Napoli, il 7 febbraio del 1956.
Sono anni turbolenti, quelli della formazione del giovane Annibale,
segnati da profondi mutamenti sociali, culturali e politici.
L’Italia, reduce dal boom economico postbellico che ha portato
modernità e reso più stabile e globale l’industrializzazione già da tempo
avviata, per la prima volta nella sua storia non è più un paese
prevalentemente agricolo.
La contestazione giovanile che travolge l’intero Occidente dai primi
anni Sessanta, è qui legata soprattutto al movimento operaio e
marxista piuttosto che studentesco e lo scontro si radicalizza presto,
degenerando nel clima teso degli Anni di Piombo.
Al dinamismo economico e sociale si accompagna un intenso dibattito
culturale; gli intellettuali s’impegnano nella querelle ideologica e
politica, partecipano alla contestazione anche attraverso la
sperimentazione di nuovi modelli artistici.
A proposito di quegli anni Asor Rosa osserva: «Che in Italia andasse
cambiando la società, il costume, l’ambiente, l’uomo, i letterati
cominciarono ad avvedersene agli inizi degli anni Sessanta; ci si
organizzava in gruppo per buttare all’aria tutto, linguaggio, istituzioni,
costumanze, parentele.»
4
Intellettuali e artisti percorrono la stessa strada degli studenti
cercando – in tutti gli anni Sessanta e Settanta – di superare la
tradizione, spazzandola via e liberandosi dalla gabbia delle
convenzioni.
4
A.ASOR ROSA; Avanguardia, in Enciclopedia, Torino, Einaudi, 1977, vol. II, p. 202
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Nel frattempo l’Italia si trova in una situazione di peculiare
frammentazione linguistica: a un secolo dalla sua unificazione,
persiste quasi ovunque la diglossia dialetto – italiano con la peculiarità
ulteriore delle regioni del Sud, sottolineata dalla questione
meridionale, ben lontana da una soluzione; gli artisti si trovano così a
lavorare con particolare attenzione sulla riforma del linguaggio.
Molti intellettuali denunciano l‘assenza di una lingua d’uso comune
che possa dar vita ad una cultura autenticamente nazionale.
Anche l’italiano diffuso dai nuovi mass media è percepito come piatto
e standardizzato, inadatto all’espressione letteraria e artistica,
«italianesco» o «italiota», come lo definisce Dario Fo
5
, in cui tutte le
parole sono «d’ ‘o stesso culore: grigio scuro»
6
.
In questi anni caratterizzati dall’impegno e dalla partecipazione, il
teatro è uno dei luoghi privilegiati della sperimentazione artistica,
perché, come insegna Grotowski, è la compresenza la sua forza
rispetto ai mass media.
Si tenta di recuperarne l’antico valore rituale e liminale in aperta
polemica con la tradizione borghese ottocentesca, peraltro ancora di
gran moda, e soprattutto di liberarlo dall’egemonia del testo letterario,
dell’autore e del regista sulla rappresentazione: non si tratta più di
mettere in scena quanto più fedelmente possibile un’opera che
preesiste e sopravvive allo spettacolo, ma di plasmare i materiali
attraverso le prove e il rapporto con il pubblico, in un lavoro collettivo
in costante trasformazione.
È curioso come i primi a esprimere questa istanza, siano proprio
letterati: scrittori, narratori e poeti riunitisi nel Gruppo 63 con lo scopo
di innovare la tradizione letteraria anche attraverso il contatto con la
pratica teatrale.
5
D.FO, Fabulazzo, Kaos edizioni, Milano 1992, p. 331
6
E. DE FILIPPO, E’ pparole, in Le poesie di Eduardo, Torino, Einaudi, 1975, p. 11
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Da quell’anno in poi si parlerà di Nuovo Teatro o meglio di
neoavanguardia, termine che ha il vantaggio di porre l’accento sulla
continuità con le avanguardie storiche di inizio Novecento, piuttosto
che sulla rottura tanto celebrata da questi autori. In Italia il peso di
una pratica teatrale secolare si fa sentire più che altrove, impossibile
liberarsene con un colpo di spugna.
Ogni drammaturgo neoavanguardista deve fare i conti con questa
tensione tra tradizione e novità, continuità e rottura.
Se da un lato persino autori come Carmelo Bene, innovatore radicale
del teatro e del linguaggio, s’inseriscono nella tradizione del Grande
Attore italiano dell’Ottocento, seppur nell’ottica di un capovolgimento
parodistico, dall’altro lato anche gli artisti che appaiono più
convenzionali, si servono del bagaglio della tradizione come trampolino
verso l’innovazione, «la tradizione mette le ali»
7
, dirà Eduardo De
Filippo.
Ed è proprio De Filippo, con il suo napoletano “edulcorato” per essere
comprensibile in tutta la penisola, ad affrontare precocemente quello
che sarà uno degli snodi fondamentali della ricerca teatrale italiana nel
secondo Novecento: il rapporto tra italiano e dialetto.
Nell’Italia della metà del Novecento, infatti, non si può parlare di
un’autentica tradizione teatrale nazionale, quanto piuttosto di tante
tradizioni locali. Come sostiene Pasolini, in quegli anni «il teatro
dialettale […] è l’unico teatro possibile in Italia»
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, perché il dialetto è
ancora l’idioma della quotidianità familiare, delle emozioni e delle
sfumature, l’unico a permettere un reale avvicinamento agli spettatori,
contrapposto all’italiano standardizzato dei mass media o a quello
burocratico delle istituzioni, l’antilingua di Calvino, la lingua del potere
secondo Fo.
7
E. DE FILIPPPO, La tradizione teatrale italiana, Conferenza inaugurale per lo Studio
Internazionale dello Spettacolo, Montalcino, 1943, in I. QUARANTOTTI, Eduardo, polemiche,
pensieri, pagine inedite, Milano, Bompiani, 1985, p. 182
8
P.P. Pasolini, L’italiano ‘orale’ e gli attori, in Dialoghi con Pasolini, Roma, Editori Riuniti,
1992, p. 178