Introduzione
IV
dipende dall’influsso dell’organizzazione fisica, non è determinata neppure dal clima o dalla po-
sizione geografica. Essa è determinata esclusivamente da fattori “morali”, quali l’educazione
(che comprende l’azione condizionante di leggi, istituzioni, forma di governo, costumi, ecc.) e il
caso. Scartando completamente il valore della naturalità nella determinazione della peculiarità
individuale in favore delle acquisizioni, Helvétius riconosce il suo debito nei confronti di Locke
e individua in Rousseau il suo principale obiettivo polemico. Se l’organizzazione fisica non dà
ragione della superiorità di spirito di un uomo su un altro, essa è tuttavia sufficiente, per Helvé-
tius come già per La Mettrie, a spiegare la differenza (e superiorità) dell’uomo nei confronti del-
le altre specie animali.
In materia etica, Helvétius condivide le posizioni edonistiche ed eudemonistiche di Condillac
e La Mettrie: nonostante le molteplici diversità individuali, tutti gli uomini ricercano ugualmente
il piacere e fuggono il dolore. La felicità (privata) è definita sia da Condillac che da La Mettrie in
termini di piacere sensibile, ma mentre Condillac ammette il contributo della riflessione e
dell’attività intellettuale (pur sempre di origine sensibile) sulla determinazione della felicità, La
Mettrie lo esclude riconoscendo come immediato il rapporto tra la fonte sensibile del piacere e la
sua percezione, in virtù di un’intrinseca identità tra la sensibilità e l’organizzazione fisica. Hel-
vétius recupera la riduzione condillachiana della felicità (e dei piaceri) al piacere sensibile, ma
afferma, contro La Mettrie, la necessità della scienza e dei lumi per la felicità individuale. Helvé-
tius riconosce l’esistenza di un piacere propriamente “intellettuale”, che al di là della sua origine
“sensibile” (come ha insegnato Condillac), conserva una specificità o una relativa autonomia,
non coincidendo con un piacere “fisiologico”, come invece aveva preteso La Mettrie. È sempre
in ragione di una diversa concezione dell’organisation e della sua influenza sugli stati dello spi-
rito che è possibile spiegare, infine, la diversa risposta di Helvétius e La Mettrie alla questione
sulle cause della differenza di felicità tra gli uomini. Secondo La Mettrie, il diverso grado di feli-
cità degli uomini è imputabile unicamente alla loro specificità costitutiva: uomini diversi prova-
no felicità diverse perché diversa è l’organizzazione individuale che ne determina la natura e il
grado specifico. Per Helvétius, al contrario, causa della differenza di felicità tra gli uomini non
può certo essere un’organizzazione fisica che, identica in ogni individuo (ben organizzato), è i-
ninfluente sul suo spirito: sono invece disposizioni acquisite (determinate da fattori “morali”)
che, agendo sul pensiero, possono influire diversamente sulla percezione del piacere (solo vir-
tualmente identica).
Sempre di natura sensibile è, per Helvétius, il principio d’azione degli uomini (ovvero il com-
plesso dei loro bisogni). I bisogni sono determinati da una mancanza, di cui si avverte pena, che
si tende a colmare; il soddisfacimento del bisogno procura piacere e quindi felicità. Helvétius di-
stingue i bisogni in primari (fisici) e secondari (acquisiti): il soddisfacimento degli uni produce
un piacere “dei sensi”, il soddisfacimento degli altri produce un piacere “di previsione” e consi-
ste nell’acquisto dei mezzi per soddisfare i primi. È la presenza dei bisogni (e non la loro assen-
za, come pretendeva la morale stoica) ad essere, per Helvétius, condizione di felicità. La possibi-
lità di una felicità diversa tra gli uomini consiste nel diverso impiego del tempo destinato
all’acquisizione dei bisogni secondari. Causa di infelicità è non solo la presenza di bisogni in-
soddisfatti, determinata dall’indigenza, ma anche l’assenza di bisogni da soddisfare, determinata
dalla ricchezza. Questa infatti relega l’uomo all’inattività e quindi alla noia. Il “ricco ozioso” è
infelice in quanto gli sono negati quei piaceri di previsione che l’attività volta al soddisfacimento
dei bisogni produce. Il lavoro, come attività o mezzo volto a colmare ciò che manca, è necessita-
to direttamente dal bisogno. Il lavoro è sostanzialmente piacevole ed è fonte di felicità nella mi-
sura in cui o soddisfa direttamente un bisogno fisico o, procurando i mezzi per soddisfare questo,
produce un piacere “di previsione”; inoltre, tenendo impegnato l’uomo, lo sottrae dal pericolo di
annoiarsi. Condizione socio-economica della felicità privata è uno “stato d’agio” che, da una
Introduzione
V
parte, salvi dalle pene dell’indigenza, dall’altra, necessiti a quel lavoro che sottrae dal pericolo
della noia della ricchezza. Il grado di operosità dell’uomo (e quindi la possibilità della felicità
legata al lavoro) è determinato dalla diversa sollecitazione che lo spirito subisce da parte delle
passioni, a loro volta variabili in funzione dei fattori “morali” che su di esse agiscono. Helvétius
rivendica così l’utilità, pubblica e privata, delle passioni: esse non sono da reprimere come ma-
lattie dell’anima, ma piuttosto da promuovere come fonti dei talenti e dei progressi dello spirito
umano.
Principio dinamico dell’agire umano è l’interesse. Esso è l’unico dispensatore di stima alle a-
zioni e alle idee degli uomini. L’obiettivo della politica, comune a quello della morale con cui si
identifica, è condizionare l’interesse umano ai fini della felicità pubblica. Questa consiste nella
“felicità del maggior numero di persone” ed è realizzabile solo sulla base e a partire dalle singole
felicità private. Condizione di felicità pubblica è l’accordo tra interesse privato e interesse pub-
blico garantito dalla virtù. Unire l’interesse privato a quello pubblico non significa sacrificare il
primo al secondo, ma piuttosto essere mossi da passioni talmente conformi all’interesse generale
da essere “necessitati” alla virtù. La virtuosità di un’azione è indipendente dalle intenzioni che la
muovono, sempre interessate essendo le virtù determinazioni dell’amor di sé; la virtuosità di
un’azione dipende unicamente dagli effetti socialmente vantaggiosi che produce. In questo sen-
so, “vere” virtù sono unicamente quelle sociali. Helvétius polemizza sia con la concezione rous-
seauiana di una “bontà originaria”, sia con la concezione hobbesiana di una “malvagità natura-
le”, in favore dell’idea di una “neutralità” originaria, morale oltreché intellettuale, dell’uomo.
Helvétius sostiene l’acquisibilità delle distinzioni morali contro la naturalità delle stesse rivendi-
cate dalla teoria del ‘senso morale’ di Shaftesbury. Helvétius usa la stessa formula di Hutcheson
(“la massima felicità per il maggior numero”), ma la applica in un contesto differente, perché ri-
fiuta i presupposti shaftesburiani che stanno alla base del suo pensiero. In questo senso, Helvé-
tius sembra influenzato dal carattere edonistico e utilitaristico della morale humiana, che correg-
geva l’etica hutchesoniana eliminandone i residui teologizzanti.
Il compito di una buona legislazione ed educazione è necessitare i cittadini alla virtù attraver-
so la diffusione di determinate abitudini, assicurando quell’unione di interesse particolare e inte-
resse generale che è fonte di felicità pubblica. A tal proposito, bisogna assecondare e promuove-
re le passioni favorevoli al bene pubblico e reprimere quelle contrarie; nel fare questo, non si de-
ve obbligare a una determinata azione, ma fare in modo che l’individuo interiorizzi il comando e
agisca “spontaneamente” nella direzione che gli viene indicata: non c’è costrizione, ma soltanto
sollecitazione. Lo strumento legislativo-pedagogico su cui fare leva è la speranza di adeguate ri-
compense (sempre materiali, come ricchezze e onori) o il timore di gravose pene come conse-
guenza della propria condotta. La sicurezza del piacere sensibile come prezzo della virtù ha inol-
tre lo scopo di eccitare l’emulazione da parte degli altri cittadini, scatenando così una corsa ge-
nerale alla virtù. La diffusione dei lumi è infine garanzia del perfezionamento dell’educazione e
della legislazione.
Mauro Bassetto, Felicità e società nel pensiero di C.-A. Helvétius, Università degli Studi di Torino, A.A. 1996/1997
1
1. La sensibilità fisica come principio primo
La linea epistemologica della filosofia di Helvétius (1715-1771) è di ispirazione lockiana e
non presenta variazioni rilevanti rispetto all’impostazione sensistica che aveva dato, in Francia,
l’opera di Condillac
1
: Helvétius, con la riduzione del conoscere a sentire, porta alle estreme con-
seguenze la gnoseologia condillachiana, che già si ispirava alla via fenomenistica tracciata da
Locke. Il tentativo intrapreso da Condillac nel Traié des sensations (1754) di dimostrare come
ogni realtà psichica debba intendersi alla stregua di una trasformazione, di una metamorfosi della
sensazione, è ripreso e continuato da Helvétius nella sua opera più nota, il De l’esprit (1758), e
nello scritto postumo intitolato De l’homme (1774)
2
.
L’intero sistema etico, politico e antropologico che Helvétius edifica, riposa sulla base teorica
offerta dalle tesi sensistiche e materialistiche che intorno alla metà del Settecento venivano di-
battute dagli enciclopedisti. Se il filosofo francese non portò contributi sostanzialmente nuovi al
problema della conoscenza, appropriandosi dell’impostazione gnoseologica di matrice lockiano-
condillachiana, diversamente fu per le problematiche di tipo morale. Da Condillac, in particolar
modo, acquisì la struttura epistemologica empiristico-sensistica come spiegazione di tutti i pro-
cessi della vita psichica: la riduzione condillachiana dello psichico al sensibile, delle facoltà e at-
tività umane al presupposto fondamentale della sensazione, della vita pratica e teoretica al prin-
cipio sensibile, sembra per Helvétius un fatto acquisito. Tuttavia nel De l’esprit non si presenta
la stessa istanza di derivazione funzionale del pensiero, caratteristica del Traité des sensations.
Di quest’opera Helvétius eredita semplicemente l’esito e l’impostazione sensistica, che egli svi-
luppa in chiave materialistica, senza preoccuparsi dell’analisi genetica delle operazioni dello spi-
rito, ma piuttosto presupponendola come già assimilata. Dal suo antecedente culturale eredita di-
rettamente il risultato e il significato filosofico, storicamente considerevole, del Traité des sensa-
tions: la mancanza di salti metafisici tra il sensibile e l’intelligibile o, detto in altri termini, la ri-
conduzione di tutte le operazioni dello spirito alla mera sensibilità.
Se, da una parte, la riduzione sensistica helveziana corrisponde all’esigenza illuministica di
sistematicità, dall’altra parte, tuttavia, può costituire un limite, un irrigidimento. Ernst Cassirer,
ad esempio, riconosce la ragione della debolezza e scarsa originalità del De l’esprit proprio nel
“livellamento cui va incontro la coscienza quando si nega la sua ricchezza di vita e la si conside-
1
L’influenza di Condillac sul sensismo helveziano è reale anche se Helvétius non la dichiara esplicitamente (non
cita mai Condillac) e afferma il suo debito solo nei confronti di Locke (cfr.: J.-F. DE SAINT-LAMBERT, Essai sur la
vie et les ouvrages d’Helvétius, in C.-A. HELVÉTIUS, Œuvres complètes, établies par Y. Belaval, Hildesheim, Georg
Olms Verlag, 1967-69, vol. I, pp. 7-8). Il sensismo radicale sostenuto da Helvétius, infatti, non trova ancora espres-
sione in Locke, mentre riceve la sua formulazione tipica nel Traité des sensations del Condillac. Per questo si è pro-
pensi a ritenere che il sensismo helveziano sia in fondo una mera ripresa, in funzione etico-politica, della dottrina di
Condillac. Un riferimento esplicito a Condillac, poi, avrebbe indotto i lettori dell’epoca a considerare la diversa
concezione dell’anima e della libertà da parte dei due autori, e quindi a sottolineare un aspetto della dottrina di Hel-
vétius che in sede di ritrattazione egli avrebbe avuto ogni interesse a lasciare in ombra. (cfr.: G.A. ROGGERONE,
Controilluminismo. Saggio su La Mettrie ed Helvétius, Milella, Lecce, 1975, vol. II, p. 142).
2
Per il De l’esprit si veda: C.-A. HELVÉTIUS, De l’esprit, in Œuvres complètes, op. cit., voll. I-III; trad. it. parziale
in Dello spirito, a cura di A. Postigliola, Editori Riuniti, Roma, 1970. Per il De l’homme, si veda: C.-A. HELVÉTIUS,
De l’homme, in Œuvres complètes, op. cit., voll. IV-VI.
Parte I: La costituzione dell’uomo
2
ra soltanto come una maschera, un travestimento”
3
. Questo “livellamento sensualistico” consiste,
sul piano pratico, nella negazione di ogni autonomia della volontà, sul piano teoretico,
nell’annullamento di ogni spontaneità del pensiero. Le attività psichiche, infatti, essendo tutte
forme diverse di sensibilità, sono ridotte al medesimo piano di valore e di validità:
Tutto confluisce nella massa unica e indifferenziata del sentire. Quelle che noi chiamiamo giudizio e co-
noscenza, fantasia e memoria, intelletto e ragione, non sono affatto forze specifiche, proprie e originali
dell’anima. Anche qui [nel mondo teorico] è avvenuto il suddetto travestimento. Si crede di essersi elevati al
di sopra della sensazione… mentre invece non la si è che leggermente modificata; le si è buttato addosso un
altro mantello
4
.
1.1. La riduzione sensistica dello spirito
Se tutte le operazioni dello spirito si riconducono alla sensibilità fisica, allora è opportuno in
primo luogo chiarire il significato del termine spirito (esprit), per esaminare in un secondo mo-
mento come le sue facoltà si connettano alla sensibilità. Helvétius considera lo spirito sotto due
differenti accezioni: o come l’effetto o il prodotto della facoltà di pensare, cioè come la connes-
sione dei pensieri di un uomo (l’assemblage des pensées), o come la facoltà di pensare stessa (le
penser)
5
. Comunque venga considerato, lo spirito è sempre vincolato alla sensibilità: come facol-
tà produttrice di pensieri è infatti sensibilità e memoria (la memoria è anch’essa sensibilità), poi-
ché sono gli organi di senso le cause produttrici delle idee; e come effetto del pensiero è un as-
semblaggio di idee, che hanno appunto una derivazione sensibile, non una ragion d’essere intel-
ligibile autonoma.
Nel corso delle sue opere, Helvétius usa il più delle volte il termine spirito in un senso generi-
co, per indicare tutto ciò che contribuisce a definire la peculiarità individuale da un punto di vi-
sta sia intellettuale che morale, ma non fisiologico o somatico; in questo senso, rientrano nel ge-
nere “spirito” la quantità di conoscenze, la qualità dell’intelligenza (nelle sue forme di riflessio-
ne, discernimento, giudizio), il carattere. Come è stato osservato
6
, Helvétius preferisce il termine
spirito al termine ragione perché si adatta meglio a un contesto empirico. Fondamentalmente si
tratta della stessa cosa (la facoltà di ragionare, di pensare e di comparare i rapporti tra oggetti),
ma il termine spirito si svincola dalle implicazioni aprioristiche, metafisiche che il termine ra-
gione comporta, per legarsi invece a quelle empiriche e psicologiche. L’empiricità dello spirito
consiste nel suo essere necessariamente vincolato a una dimensione “oggettuale”: esso concerne
sia i rapporti degli oggetti tra loro (conoscenza per idee), sia i rapporti degli oggetti con noi (co-
noscenza per impressioni sensibili). In tal modo il concetto di spirito perde gli attributi di neces-
sità e universalità propri del concetto tradizionale di ragione. Questa duplicità permette ad Hel-
vétius di considerare lo spirito ora come un modo di pensare comune a tutti gli individui, ora se-
condo una variegata tipologia di modalità intellettive (esprit pénetrante, esprit de lumière, esprit
3
E. CASSIRER, La filosofia dell’illuminismo, La Nuova Italia, Firenze, 1936, p. 48. Questa fu, per Cassirer, anche la
causa della reazione sorta in Francia contro l’opera (cfr.: Ivi, nt. 1, p. 436). Per la critica di Cassirer alla riduzione
sensistica di Helvétius, cfr.: Ivi, pp. 47-49.
4
Ivi, p. 49.
5
“Lo spirito può essere considerato o come la facoltà produttrice dei nostri pensieri, e lo spirito, in questo senso,
non è che sensibilità e memoria; o lo spirito può essere guardato come un effetto di queste stesse facoltà, e in questo
secondo significato, lo spirito non è che un assemblaggio di pensieri, e può suddividersi in ogni uomo in tante parti
quante idee ha quest’uomo. Ecco i due aspetti sotto i quali si presenta lo spirito considerato in sé stesso.” (De
l’esprit, disc. I, cap. IV, p. 285). Cfr. anche: Ivi, cap. I, p. 190; De l’homme, sez. V, cap. I, p. 131.
6
Cfr.: Y. BELAVAL, “Présentation d’Helvétius”, in C.-A. HELVÉTIUS, Œuvres complètes, op. cit., vol. I, p. XXXVII.
1. La sensibilità fisica come principio primo
3
de conduite, ecc.) dipendente dalla particolarità delle esperienze personali. Più in generale,
quando Helvétius utilizza il termine ragione, intende riferirsi allo spirito nel suo aspetto teoreti-
co, cioè come facoltà conoscitiva di tipo intellettuale (o razionale, appunto).
Per quanto riguarda la funzione o l’attività specifica dello spirito, molto chiara è l’analisi
compiuta nel De l’homme:
Che cos’è lo spirito in sé stesso? L’attitudine a vedere le somiglianze e le differenze, le convenienze e le
sconvenienze che hanno tra loro i diversi oggetti. Ma qual è nell’uomo il principio produttivo del suo spiri-
to? La sua sensibilità fisica, la sua memoria, e soprattutto l’interesse che ha di combinare le sue sensazioni
tra loro. Lo spirito non è dunque in sé che il risultato delle sue sensazioni comparate; e il buono spirito con-
siste nella giustezza della loro comparazione
7
.
Lo spirito è qui concepito come l’attitudine a cogliere le somiglianze e le differenze (e cioè le
relazioni) che gli oggetti hanno tra di loro e con noi che li osserviamo. Tutte le operazioni dello
spirito si riducono così all’osservazione (observation)
8
empirica di relazioni tra oggetti.
Quest’attività consiste nella comparazione (comparaison)
9
tra gli stati differenti attraverso i qua-
li lo spirito passa. Questi suoi modi d’essere non sono altro che le varie sensazioni (o impressio-
ni) attuali che esso prova nel rapporto con gli oggetti esterni, o le idee, cioè il ricordo delle im-
pressioni passate degli oggetti e dei loro reciproci rapporti. La comparazione viene quindi intesa
come l’osservazione alternata e attenta dell’impressione differente che fanno sul soggetto gli og-
getti esterni. Attenzione e memoria sono le componenti essenziali del processo conoscitivo, la
prima rispetto alla sensazione presente, la seconda rispetto alla sensazione trascorsa. Significati-
va è la sintesi esposta nel De l’homme:
che cos’è comparare? È osservare alternativamente e con attenzione l’impressione differente che fanno su di
me questi due oggetti presenti o assenti. Fatta questa osservazione, giudico, cioè rapporto esattamente
l’impressione che ho ricevuto. […] L’operazione di comparare […] non è altro che rendersi attento alle im-
pressioni differenti che eccitano in noi gli oggetti o attualmente sotto i nostri occhi o presenti alla nostra
memoria
10
.
Esiste una proporzionalità diretta tra l’estensione dello spirito e la quantità di conoscenze ac-
quisite sui rapporti tra gli oggetti, ovvero di comparazioni osservate: quanto più estese sono le
nostre conoscenze tanto più grande è lo spirito
11
.
Helvétius individua la sensibilità fisica come la comune fonte di tutte le operazioni dello spi-
rito. L’uomo stesso, nella sua interezza, si riduce a sensibilità: “la sensibilità fisica è l’uomo stes-
so, e il principio di tutto ciò che egli è. […] Tutto ciò che non è sottomesso loro [ai sensi] è inac-
cessibile al suo spirito”
12
. La sensibilità è poi definita come “la facoltà di ricevere le impressioni
differenti che fanno su di noi gli oggetti esterni”
13
, cioè la facoltà di “sentire sensazioni”. Le sen-
sazioni, a loro volta, restano da concepirsi lockianamente come prodotti di oggetti esterni allo
7
De l’homme, sez. II, cap. XV, pp. 47-48.
8
Cfr.: De l’esprit, disc. IV, cap. XIV, pp. 105-106. Cfr. anche: De l’homme, sez. X, cap. I, nt. a, p. 72.
L’importanza dell’osservazione dei fatti è attestata, oltre che per la scienza, anche in ambito morale e politico, a di-
mostrare la moderna mentalità scientifica di Helvétius: “i princìpi della morale e della politica, come tutti i princìpi
delle altre scienze, devono stabilirsi su un gran numero di fatti e di osservazioni.” (Ivi, sez. II, cap. VIII, p. 232).
Cfr. anche: Ivi, nt. 17, p. 151.
9
Cfr.: De l’esprit, disc. I, cap. I, pp. 210; De l’homme, sez. I, cap. VIII, nt. a, p. 56; sez. II, cap. III, p. 178; cap. XII,
nt. a, p. 25.
10
Ivi, cap. IV, pp. 181-182+186.
11
Cfr.: De l’esprit, disc. I, cap. I, pp. 207
12
De l’homme, Concl. gén., p. 155.
13
De l’esprit, disc. I, cap. I, p. 190.
Parte I: La costituzione dell’uomo
4
spirito: Helvétius intende, in tal modo, presupporre una realtà esterna già data alla quale imputa-
re la causa delle impressioni sensibili che i nostri organi di senso producono. Non si pone qui, in
altri termini, il problema della giustificazione della realtà esterna, che era invece implicito nei
presupposti gnoseologici della teoria conoscitiva di Condillac. Per Helvétius la realtà esterna è
presupposta come già esistente di per se stessa: della sua esistenza si ha conoscenza immediata
(evidente) attraverso la testimonianza dei sensi.
È la sensibilità stessa il criterio dell’evidenza (évidence): evidente è “un fatto dell’esistenza
del quale posso assicurarmi attraverso la testimonianza dei miei sensi, mai ingannevoli”
14
, come
per esempio, “la somma di due più due è uguale a quattro”, o “il tutto è più grande della parte”.
Al contrario il probabile (probable) è un fatto fondato su congetture, sulle testimonianze contin-
genti degli uomini. Ciò che caratterizza l’evidenza e la distingue dalla probabilità è l’estensione
universale della sua validità: evidente è un fatto di cui tutti gli uomini possono constatare egual-
mente e ad ogni istante l’esistenza. Si può notare come Helvétius fondi il criterio di scientificità
non su norme astratte o su princìpi primi intelligibili (come ad esempio il cogito cartesiano), ma
su una radice prettamente empirica, i sensi. Egli ripudia così l’intera tradizione razionalistica di
derivazione cartesiana che estendeva il dubbio sulla conoscenza derivata dai sensi, ritenendo
questi inattendibili per l’essersi rivelati a volte ingannatori. Helvétius, al contrario, sulla linea
della gnoseologia empiristica, riabilita i sensi alla funzione epistemologica fondamentale (il fon-
damento della conoscenza e dell’evidenza). Essi sono costitutivamente non ingannatori e garan-
zia di veridicità delle asserzioni su di essi fondate: il giudizio relativo all’esistenza di un fatto
fondato su un’esperienza sensibile è evidente per il fatto stesso di essere attestato dai sensi su cui
si basa.
Il presupposto implicito che garantisce questa evidenza è l’identità tra la testimonianza del
“senso” e il “giudizio” formulato su di esso, aspetti intimamente connessi tra loro, complementa-
ri dell’unica e identica conoscenza sensibile. Helvétius compie un passo ulteriore, sulla strada
del sensismo, rispetto all’analoga questione dell’evidenza dei sensi affrontata da Locke. Questi
distingueva il giudizio dalla sensazione, negando al primo la qualità di non-ingannabilità, che
attribuiva esclusivamente alla seconda: solo i sensi propriamente non ingannano, o sono fonti di
conoscenza sicura, evidente; la possibilità dell’errore e quindi l’ingannabilità sono, invece, pre-
rogativa specifica del giudizio (che può assentire a ciò che non è vero), cioè risiedono sull’atto di
asserzione o negazione che l’intelletto autonomamente compie rispetto a ciò che i sensi attesta-
no. È chiaro che, nel momento in cui Helvétius stabilisce la riduzione del giudizio alla sensazio-
ne, e quindi l’identità tra l’uno e l’altra, la prospettiva (lockiana) dell’ingannabilità del giudizio
risulta esclusa. L’assunto, se vogliamo, originario o indimostrato è la non-ingannabilità, non del
giudizio, ma dei sensi. Ammettere, d’altra parte, che la non-ingannabilità dei sensi sia dimostrata
dalla testimonianza dei sensi stessi sarebbe vizioso, perché significherebbe assumere come pre-
messa ciò che si vorrebbe in realtà dimostrare. L’originarietà o imprescindibilità dell’esperienza
sensibile, tuttavia, non è una debolezza specificamente helveziana, ma un limite comune a tutta
la cultura empiristica del tempo, di cui la filosofia di Helvétius è fortemente impregnata.
Helvétius non vuole certo negare l’esistenza dell’errore, ma semplicemente svincolare la sua
dipendenza dal giudizio sui sensi. L’errore non è un falso giudizio sulla sensazione che i sensi
mi fanno percepire (un errore di questo tipo è impossibile poiché il giudizio sulla sensazione è
sempre vero, come si è visto); esso è piuttosto un’errata valutazione di una relazione, cioè un fal-
so giudizio sul rapporto che io razionalmente intravedo o stabilisco comparando due o più sen-
sazioni. Io non erro quando giudico che un oggetto che vedo è verde, ma erro quando giudico
che la distanza tra questo oggetto e un altro è maggiore di quella reale. La possibilità dell’errore
14
De l’homme, sez. II, nt. 40, p. 181. Cfr. anche: Ivi, sez. IX, cap. XV, nt. a, pp. 209-210.
1. La sensibilità fisica come principio primo
5
è dunque legata all’uso della ragione (o spirito, o pensiero), non a quello dei sensi. La ragione
può infatti “disturbare” la giusta comparazione tra sensazioni, alterando la percezione dei rappor-
ti tra le cose. L’uso distorto della ragione dipende, a sua volta, dall’influenza di fattori accidenta-
li ed esterni alla natura umana.
1.2. Il rapporto tra sensibilità fisica e memoria: lo spirito e l’anima
Mentre la sensibilità fisica ha la funzione di ricevere le varie impressioni che gli oggetti e-
sterni producono, la memoria (mémoire) ha la funzione di “conservare l’impressione che questi
oggetti hanno fatto su di noi”; essa non è altro, quindi, che una “sensazione continuata, ma inde-
bolita”
15
. Dal momento che ricordare equivale a sentire, cioè a riportare presente, seppur de-
bolmente, una sensazione passata, si dovrà convenire che il principio della memoria sia lo stesso
di quello che sente, e quindi che la memoria non sia disgiunta dalla sensibilità fisica, ma ne sia
un organo connaturato
16
. Già Condillac, intendendo la memoria come una “sensazione
trasformata”
17
, l’aveva privata di una dimensione intellettiva autonoma e ridotta a una semplice
determinazione sensibile.
Helvétius considera queste due facoltà, sensibilità fisica e memoria, come poteri passivi (puis-
sances passives), al fine di limitare la loro natura alla mera capacità recettiva: i loro strumenti
conoscitivi sono rappresentati dagli organi dei sensi esterni. La memoria stessa è considerata una
sorta di “serbatoio gnoseologico” dove vengono via via accumulate informazioni sensibili
18
; è
inevitabile, da quanto assunto, la neutralizzazione di qualsiasi ipotesi di attività conoscitiva (nel
senso di spontaneità) in senso proprio.
Fondamentale è per Helvétius, come già per Condillac, l’importanza gnoseologica (e il con-
tributo) della memoria nel processo conoscitivo. Condillac aveva considerato la memoria come il
principio di distinzione tra impressioni differenti (discernimento)
19
e quindi come condizione di
immagazzinamento di dati. Helvétius assume come proprio il punto di vista condillachiano, af-
fermando che “non ci sono affatto giudizio, idee, né spirito, senza memoria”
20
, ed elevando
quindi la memoria a condizione necessaria di tutte le operazioni dello spirito. Per giudicare tra
due sensazioni attuali, infatti, è necessaria la memoria, che permette di osservare alternativamen-
te (cioè di comparare) la diversa impressione che producono due oggetti sui nostri organi di sen-
so; essa infatti consente di conservare le impressioni sensibili, al di là della loro affezione attua-
le, in una sorta di dispensa da cui attingere il materiale delle proprie operazioni conoscitive. Del-
le impressioni passate, nonostante l’assenza, la memoria produce attualmente sensazioni pres-
sappoco simili, cosicché risulta indifferente la presenza o l’assenza reale degli oggetti
21
. È ovvio
tuttavia che la memoria, come ricordo di sensazioni, sia più viva quanto più è ripetuta l’azione
degli oggetti su di noi; la sua estensione, infatti, è direttamente proporzionale alla frequenza con
15
De l’esprit, disc. I, cap. I, pp. 190-191. Helvétius intende la memoria come la seconda facoltà dello spirito e la
definisce propriamente come “il ricordo esatto degli oggetti che si sono presentati a noi” (Ivi, disc. IV, cap. II, pp.
124).
16
Cfr.: Ivi, disc. I, cap. I, pp. 203-205.
17
E.B. DE CONDILLAC, Traité des sensations, in Œuvres complètes de Condillac, Baudoin Frères Éditeurs, Paris,
1827, Précis de la Première Partie, pp. 13-14; trad. it. in CONDILLAC, Trattato delle sensazioni, a cura di P. Salvuc-
ci, Laterza, Bari, 1970, pp. 18-19; cfr. anche: Ivi, Première Partie, cap. II, § 6, pp. 47-48; trad. it. cit., p. 41.
18
“La memoria è il magazzino dove si depositano le sensazioni, i fatti e le idee, di cui le diverse combinazioni for-
mano ciò che si chiama spirito.” (De l’esprit, disc. III, cap. III, p. 183).
19
Cfr.: CONDILLAC, Traité des sensations, Première Partie, cap. IX, § 3, p. 100; trad. it. cit., p. 76.
20
De l’homme, sez. II, cap. II, p. 169.
21
Cfr.: Ivi, cap. IV, p. 182.
Parte I: La costituzione dell’uomo
6
cui una stessa sensazione si rinnova alla nostra attenzione, oltrre che all’ordine di disposizione
delle idee e all’attenzine prestata
22
.
La memoria si distingue dall’immaginazione (imagination): la prima è “un chiaro ricordo de-
gli oggetti che si sono presentati a noi”, la seconda “ una combinazione, un nuovo assemblaggio
di immagini”
23
. Anche per Condillac, memoria e immaginazione si distinguevano semplicemente
per un differente grado d’intensità della sensazione che riproducono. Si parla precisamente di
memoria “quando richiama le cose in quanto passato”, e di immaginazione “quando le raffigura
con tanta vivezza da parere presenti”
24
. In senso stretto, l’immaginazione è concepita da Helvé-
tius come una rappresentazione delle idee attraverso immagini
25
. La sua utilità consiste fonda-
mentalmente nella chiarificazione espositiva e nella maggiore efficacia comunicativa delle idee,
attraverso il rivestimento degli astratti concetti filosofici e degli astrusi princìpi delle scienze con
immagini sensibili (in funzione di metafora) più facilmente accessibili alla comprensione uma-
na
26
. In ogni caso l’immaginazione non inventa idee (la produzione di idee è compito specifico
dello spirito), ma solo immagini, cioè combinazioni di idee già formate: è piuttosto una facoltà
combinatoria (di un materiale già dato), che non una facoltà produttrice ex novo. Questa precisa-
zione salvaguarda dal considerare l’immaginazione come una facoltà intellettiva autonoma ri-
spetto alla sensibilità fisica.
La distinzione gnoseologica sensibilità-memoria (o facoltà di sentire – facoltà di ricordare) si
traduce nella distinzione metafisica anima-spirito
27
. Mentre la sensibilità sovrintende all’anima,
la memoria sovrintende allo spirito. Lo spirito, propriamente, è un assemblaggio di idee, sicché
privato delle idee verrebbe meno la sua stessa ragion d’essere: lo spirito non sarebbe nulla senza
idee o, non esisterebbe spirito privo del suo contenuto costitutivo. Allo spirito è congiunta la fa-
coltà di ricordare, cioè la memoria, che gli consente di formulare idee e comparazioni tra gli og-
getti (ossia giudizi). Al contrario, l’anima (âme) pare essere svincolata dalla contaminazione di
idee o pensieri, ininfluenti o indifferenti alla sua esistenza e alla sua funzione. Mentre “non esiste
affatto spirito senza idee”, non è così per l’anima, in quanto “né il pensiero né lo spirito sono ne-
cessari alla sua esistenza. Fintanto che l’uomo è sensibile, ha un’anima. È dunque la facoltà di
sentire che ne forma l’essenza”
28
.
Dal momento che “il pensiero non è dunque assolutamente necessario all’esistenza
dell’anima”
29
, non è quindi metafisicamente contraddittoria l’ipotesi di un’anima senza pensiero.
È così che Helvétius può “materializzare” l’anima: essa non è una sostanza trascendente spiritua-
le, ma un principio immanente e fisico dell’organismo. Se lo spirito si può intendere poi come un
prodotto dell’educazione in senso lato, essendo determinato dal tipo di idee che questa origina
22
Cfr. il cap. “Dell’estensione della memoria” (De l’esprit, disc. III, cap. III, , pp. 183-205).
23
Ivi, disc. IV, cap. II, pp. 122-123.
24
CONDILLAC, Traité des sensations, Première Partie, cap. II, § 29, p. 60; trad. it. cit., pp. 49-50. L’immaginazione
ha una forza rappresentativa ben superiore a quella della memoria, tanto che viene intesa addirittura come una “me-
moria così viva da far sembrare presente quel ch’è assente” (Ivi, Seconde Partie, cap. XI, § 4, p. 182; trad. it. cit., p.
137). Nel suo senso più esteso, la funzione specifica dell’immaginazione è comunque combinare “qualità di oggetti
per farne aggregati di cui la natura non offre nessun modello” (Ivi, § 6, p. 183; trad. it. cit., p. 137), cioè produrre
composti di sensazioni (immagini, appunto) non esistenti in natura.
25
Cfr.: De l’esprit, disc. IV, cap. II, nt. 1, p. 123.
26
Cfr.: Ivi, cap. II, p. 135; cap. IV, p. 192.
27
Cfr. il cap. “Differenza tra lo spirito e l’anima” (De l’homme, sez. II, cap. II, pp. 161-177).
28
Ivi, p. 171.
29
Ivi, p. 172.
1. La sensibilità fisica come principio primo
7
nell’individuo, l’anima è invece da considerarsi come un prodotto della natura, essendo caratte-
rizzata dalla sensibilità dell’organismo
30
.
Tuttavia l’esistenza delle idee, e quindi del nostro spirito, presuppone la facoltà di sentire co-
me fonte del materiale su cui poter esercitare memoria e pensiero. Si stabilisce così una dipen-
denza necessaria tra anima e spirito. Esse sono sì due facoltà distinte, ma non sono separate: la
memoria sarebbe nulla senza le sensazioni, mentre, al contrario le sensazioni, come si è visto,
potrebbero sussistere anche senza idee. Il rapporto di dipendenza è tuttavia univoco: l’aspetto
formale (pensiero, memoria) non potrebbe sussistere senza quello materiale (sensazioni), ma non
viceversa. “Dal che io concludo che se l’anima non è lo spirito, lo spirito è l’effetto dell’anima o
della facoltà di sentire”
31
. Sostenere che lo spirito è effetto dell’anima significa sostenere in e-
gual modo che la facoltà di sentire è causa (fonte) del pensiero, delle idee, dei giudizi, dei ricor-
di: l’intelligibile è ridotto al sensibile. Helvétius giunge, per un’altra via, allo stesso risultato: tut-
to è ricondotto al principio originario della sensibilità. D’altra parte, la dipendenza dello spirito
dall’anima è non solo una conseguenza, ma nello stesso tempo anche un limite implicito alla fi-
losofia sensistica: il pensiero si vede negato uno statuto epistemologico autonomo, riducendosi a
un apparato accessorio della facoltà di sentire sul livello della quale si appiattisce. Ma questo, in
fondo, era proprio l’obiettivo che l’intero empirismo perseguiva in funzione principalmente anti-
intellettualistica e anti-cartesiana.
Una radicale differenza emerge infatti tra la concezione helveziana dell’anima e quella carte-
siana: come sostiene Helvétius, “sono dunque propriamente le mie sensazioni, e non i miei pen-
sieri, come pretende Cartesio, che mi provano l’esistenza della mia anima”
32
. Il fondamento della
certezza, secondo Cartesio, dell’esistenza dell’anima, e cioè del pensiero o dell’io come sostanza
pensante, era proprio il cogito, ovvero la stessa attività intellettiva umana: è il pensiero, o il fatto
stesso di pensare, che, al di là di ogni dubbio, garantisce l’esistenza dell’io come res cogitans.
Mentre l’attributo fondamentale dell’anima per Cartesio era il pensiero, per Helvétius è invece la
sensibilità. I pensieri (idee e giudizi), per Helvétius, possono al limite attestare l’esistenza della
facoltà che li produce direttamente attraverso la memoria (cioè lo spirito), non certo quella della
facoltà di sentire e quindi dell’anima; ma affermare che il pensiero può solo attestare l’esistenza
dello spirito è tautologico poiché spirito e facoltà di pensare sono, per definizione, la stessa cosa.
In Condillac si riscontrava ancora un impianto dualistico (anima-corpo) di derivazione spiccata-
mente cartesiana, dove permaneva l’esigenza di riconoscere all’anima un’esistenza propria, seb-
bene in una (più) stretta dipendenza dai sensi: l’anima della sua “statua” era concepita come una
res cogitans, inizialmente priva di idee, ma capace di riceverle attraverso la causa occasionale
dei sensi, organi sensibili di un corpo inteso come res extensa. In Helvétius permane il dualismo
tra soggetto e oggetto, ma non più nei termini razionalistici cartesiani, quanto piuttosto in
un’impostazione sensistica, di matrice condillachiana, radicalizzata in senso materialistico: il
30
Helvétius adduce alcune prove empiriche a sostegno della distinzione tra queste due facoltà. Innanzitutto, il fan-
ciullo ha la stessa anima dell’adolescente, in quanto è ugualmente sensibile a piaceri e dolori, ma ha diverse idee,
quindi diverso spirito; il pensiero, e quindi lo spirito, si sviluppa soltanto con gli anni e con l’esperienza ed è diver-
so dal bambino all’uomo adulto. In secondo luogo, l’anima, e con essa quindi la capacità di sentire, non abbandona
l’uomo che con la morte, mentre al contrario lo spirito si può perdere anche da vivi, attraverso la perdita di memoria
ad esempio. L’eguaglianza delle sensazioni, da una parte, e la differenza delle idee in età diverse dell’uomo, o in
momenti diversi della vita, dall’altra parte, inducono a credere che sensibilità e pensiero siano due facoltà distinte,
l’una permanente, l’altra mutevole, e appartengano a due organi distinti (anima e spirito appunto). Infine, dice Hel-
vétius, se l’uomo può vivere senza idee di matematica, fisica, morale, orologeria, se per estensione può vivere senza
idee tout court, allora non è metafisicamente impossibile avere un’anima (una sensibilità in senso lato) senza avere
idee; questo, sostanzialmente, perché le idee sono coessenziali allo spirito e non all’anima.
31
Ivi, p. 176.
32
Ivi, pp. 172-173.
Parte I: La costituzione dell’uomo
8
soggetto non è inteso come “sostanza pensante”, ma come “sostanza senziente”, e l’oggetto non
è l’oggetto “pensato”, ma l’oggetto “sentito”.
1.3. Il rapporto tra sensibilità fisica e idee: la critica delle idee innate e astratte
Nel dar prova che “la sensibilità fisica e la memoria, o, per parlare più esattamente, […] la
sensibilità sola produce tutte le nostre idee”
33
, Helvétius si riferisce esplicitamente all’autorità
della tradizione empiristica, identificata nella sua personalità più rappresentativa, John Locke
34
.
Ma, nell’analisi helveziana dell’origine sensibile delle idee, si avverte facilmente anche
l’influenza di Condillac: le idee, secondo quest’ultimo, provengono dai sensi e dalla riflessione,
che è a sua volta di natura sensibile. Mentre Locke, nell’Essay concerning Human Understan-
ding (1690), considerava la riflessione come una facoltà autonoma rispetto alla sensazione, aven-
te per compito l’elaborazione intellettuale, Condillac al contrario, nel Traité des sensations, la
riduceva a una forma di sensazione. La riflessione non era così, alla maniera di Locke, una causa
delle idee, ma soltanto il mezzo per cui queste derivavano dai sensi. Le idee erano ricordi di sen-
sazioni passate, e come tali erano esse stesse sensazioni che producevano conoscenza
35
.
Helvétius dimostra, inoltre, di non essere affatto estraneo alle problematiche relative alla di-
pendenza delle conoscenze sensibili dal concorso del tatto e della vista, iniziate in Francia dalla
pubblicazione da parte di Diderot nel 1749 della Lettre sur les aveugles, e due anni dopo della
Lettre sur les sourds et les muets, e seguite dagli esperimenti su un cieco-nato di Molineux, non-
ché dai contributi di Condillac sui medesimi temi: “i sensi – dice Helvétius – sono le sorgenti di
tutte le nostre idee. Privati di un senso siamo privati di tutte le idee che vi sono relative. Un cie-
co-nato non ha, per questa ragione, nessuna idea dei colori”
36
. Di conseguenza, se le nostre idee
derivano dai sensi, o meglio, da ciò che i sensi ci permettono di sentire, qualora gli organi sensi-
tivi non consentissero la sensazione, a causa di una malformazione o deficienza costitutiva, allo-
ra non si potrebbero avere le idee corrispondenti
37
.
Individuando nella sensibilità l’unica fonte delle idee, Helvétius nega conseguentemente la
possibilità di residui innatistici nella mente umana
38
. “Tutto è in noi acquisizione”
39
, dice il filo-
sofo francese, sia nella dimensione teoretica (idee, spirito, talenti, pregiudizi, errori), sia in quel-
la pratica (vizi, virtù, passioni, carattere). Non esistendo idee innate, lo spirito, inteso nella fatti-
specie come l’insieme delle idee di un uomo, alla nascita è semplicemente una tabula rasa pron-
ta ad essere incisa, cioè a ricevere attraverso i sensi i contenuti di conoscenza. Se lo sviluppo
dello spirito è di carattere empirico, è giocoforza che lo spirito non sia innato, ma nient’altro che
un’acquisizione. In fondo, questa non è che la radicalizzazione di un concetto già presente in
Condillac: l’io coincideva per questi con la “collezione”
40
delle sensazioni provate e ricordate.
33
De l’esprit, disc. I, cap I, pp. 202-203. Lo stesso titolo di un capitolo del De l’homme indica l’assunto della gene-
razione delle idee da parte della sensibilità come fonte della presunta differenza di spirito tra gli uomini, denotando
la primarietà di questa problematica: “Tutte le nostre idee ci vengono dai sensi: di conseguenza si è guardato lo spi-
rito come un effetto della più o meno grande finezza d’organizzazione” (De l’homme, sez. II, cap. I, p. 153).
34
Cfr.: De l’esprit, disc. III, cap. XXIX, p. 56; disc. IV, cap. I, p. 106.
35
Cfr.: CONDILLAC, Traité des sensations, Précis de la Première Partie, p. 10; trad. it. cit., p. 16; Précis de la Qua-
trième Partie, p. 31; trad. it. cit., p. 32; Seconde Partie, cap. VIII, § 28, p. 168; trad. it. cit., p. 127.
36
De l’esprit, disc. III, cap. I, pp. 163-164.
37
Emblematico è il caso del cieco-nato che, non avendo mai visto, non può possedere alcuna idea di colore.
38
Cfr.: De l’homme, sez. V, capp. I-II, pp. 123-136.
39
Ivi, cap. II, p. 133.
40
CONDILLAC, Traité des sensations, Première Partie, cap. VI, § 3, p. 90; trad. it. cit., p. 69.