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Capitolo I
PHAEDRUS AUGUSTI LIBERTUS: UN FAVOLISTA-SOCIOLOGO.
Quello della favola è stato ritenuto fin dall’antichità un genere minore,
dimesso e, per questo, spesso sottovalutato, anche se molti autori
importanti quali Esiodo nel mondo greco e Orazio in quello romano,
ne hanno fatto largo uso, soprattutto per mostrare la propria abilità
compositiva. Questo è il genere letterario più antico e, anzi, come
sottolinea il Faggella
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, “nasce con l’uomo quando vive in
dimestichezza con le altre specie ma prospera in ogni tempo”. Esso fa
parte del retroterra culturale di tutte le popolazioni, tanto che esempi
favolistici si trovano anche nei principali testi religiosi: ritroviamo
apologhi nel principale testo induista e perfino nella Bibbia, dove è
narrata la storia del Re Rovo.
Luogo d’origine della favola è l’Asia
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e da questa origine orientale
derivano alcuni degli elementi pregnanti, primo tra tutti la
consuetudine di utilizzare gli animali come specchio di vizi, virtù,
stimoli e aspirazioni degli uomini. Da qui passa poi in Occidente,
dove troviamo primi esempi di apologhi inseriti in opere più vaste e di
1
Fedro, Le Favole a cura di M. FAGGELLA, Feltrinelli, Milano 1974, pag.12
2
FAGELLA( Fedro, Le Favole cit. pag. 7) sottolinea come la prima raccolta di fiabe a noi nota sia
un’antologia di racconti, la Pañcatantra, in cui le favole sono inserite in una narrazione a cornice:
ogni storia è raccontata da un personaggio e introduce a sua volta altri narratori che presentano
nuove favole
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genere diverso. Il primo vero favolista, quello che può essere definito
inventor generis, si affermerà in Grecia: stiamo parlando di Esopo
che per primo utilizzerà questi semplici racconti non solo a scopo
ricreativo, ma anche come insegnamento morale per giovani e adulti,
innalzando questo prodotto della saggezza popolare a vero e proprio
genere letterario. Dall’occidente greco, la favola arriva a Roma dove
tuttavia, in una fase iniziale, non ha ancora la stessa dignità letteraria
che ha già assunto in Grecia. Tra i primi esempi ricordiamo
sicuramente “l’apologo dello stomaco e delle membra” che, secondo
quanto si racconta, fu esposto da Menenio Agrippa alla plebe romana
arroccatasi sul colle Palatino durante la rivolta del 486 a.C. La
diffusione su larga scala del genere favolistico nell’Urbe si deve
tuttavia, in età imperiale, ad un personaggio che è stato spesso
sottovalutato e ritenuto un autore minore, Fedro: fu proprio lui infatti,
come già Esopo nel mondo greco, ad occuparsi della creazione di una
vera e propria raccolta di fabulae, riproponendo in parte la
trasposizione latina di quelle del suo predecessore e, in parte,
ricercando nuovi spunti nella vita della Metropoli.
Ma chi è in realtà Phaedrus liberti Augusti? Della sua biografia sono
noti solo pochissimi eventi, ricavabili non solo da ciò che Fedro dice
effettivamente di se stesso, ma anche dalle numerose allusioni
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nascoste nel corpus fedriano e che sono state oggetto di riflessione da
parte di molti studiosi.
Già lo stesso nome ha generato, nel corso del tempo, una serie di
incomprensioni generate dalla presenza di un’ iscrizione latina recante
il nome di C. Iulius C.F. Phaeder, che ha portato alcuni studiosi tra
cui l’Havet
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a preferire questo nominativo in –er alla forma in –us
proposta invece dal grammatico Aurelio Opillio (II-I a.C.) e che
diventerà in seguito la forma tradizionale per i nomi greci in –ros
4
.
Per ciò che concerne la biografia, punto di partenza per una breve
analisi della vita di Fedro è il prologo del III libro dove leggiamo (vv.
17-20):
ego, quem Pierio mater enixa est iugo,
in quo Tonanti sancta Mnemosyne Iovi,
fecunda novies, artium peperit chorum
quamvis in ipsa paene natus sim schola….
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L. HAVET, Phaedri Augusti liberti fabulae Aesopiae, recensuit usus editione Rosonboniani ad
Ulixe Robert comparata, Hachette, Paris 1895.
4
cfr. Fedro: favole a cura di A. DE LORENZI, La nuova Italia,Firenze 1955; coll. “Biblioteca di
cultura”, 56. pag. 10 e ss.
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Questi pochi versi contengono, seppur brevemente, accenni circa la
sua nascita, avvenuta nel 15 a.C. in Tracia
5
, e più precisamente nella
zona del monte Pierio, lungo il confine della Macedonia: si dice infatti
connazionale di Lino e di Orfeo (vv. 57-59) anche se , come ha fatto
giustamente notare Enzo Mandruzzato, questa potrebbe essere
semplicemente una fictio poetica usata dal favolista per nobilitarsi agli
occhi del lettore e giustificare la sua pretesa di emergere nel
panorama letterario romano
6
. Nello stesso prologo, importante
l’accenno, al v. 20 , di una nascita in schola, probabilmente volendo
fare riferimento con questo termine non ad una vera e propria scuola
di declamazione, bensì all’ambiente culturalmente elevato in cui
Fedro è vissuto, probabilmente una sorta di cenacolo interno ai tanti
collegia presenti a Roma nell’età Imperiale, molti dei quali interni
all’organizzazione stessa del governo
7
.
Di altro si sa ben poco: sappiamo che fu portato a Roma come
prigioniero da Pisone quando era ancora fanciullo e che qui,
nonostante la sua condizione servile, ebbe modo di migliorare la
5
Per la sua origine trace si è pensato che potesse essere stato portato a Roma come prigioniero
in seguito alla repressione di Pisone (13-11 a.C.) come sottolinea anche E. MANDRUZZATO (Fedro,
Favole ed. BUR; Milano 2008 p.19). Sulla data e il luogo di nascita sono state avanzate, nel corso
del tempo, una serie di ipotesi , alcune senza un reale fondamento. Tra queste, la proposta
dell’Herrmmann (L. HERRMANN Phedre et ses Fables, Brill Leiden 1950) che volle addirittura
innalzare la cronologia all’ 8 d.C. , spostando quindi la data della morte al periodo domizianeo. Il
De Lorenzi (cfr. Fedro a cura di A. DE LORENZI, cit. pag. 19) invece riflette sul luogo di origine,
identificando il termine Pierio come la regione della Pieria a confine con la Tessaglia e, più
precisamente, con la città trace di Pydna, occupata nel 356 a.C. da Filippo II di Macedonia.
6
Cfr. E. MANDRUZZATO Fedro, Favole, ed. BUR Milano 2008 p. 18
7
Cfr. E. MANDRUZZATO, Fedro, Favole, cit. p. 30
7
propria istruzione con la lettura degli autori classici; proprio per la sua
erudizione venne poi a contatto con la famiglia imperiale diventando
precettore dei figli dell’Imperatore, ed è probabile che proprio per
questo suo ruolo avesse cominciato a tradurre i testi esopici, anche se
non ancora in vista di una pubblicazione. Alla morte dei principini,
Fedro ottenne la libertà, prendendo da lui il praenomen di Gaius in
onore alla famiglia di Augusto, anche se l’Herrmann
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sostenne, sulla
base della favola del cane e del lupo (nel III Libro), che egli non ebbe
mai la completa affrancatura, essendo piuttosto un semilibertus: nella
favola, infatti, si narra di un lupo affamato e stanco che, avendo
incontrato un cane ben pasciuto, gli chiede come potesse procurarsi
tanto cibo. Il cane comincia allora l’elogio della sua vita presso un
padrone e ha quasi convinto il lupo a seguirlo quando questo nota i
segni della catena. Venuto quindi a sapere che il cane viene spesso
legato durante il giorno ribatte che è preferibile avere poco ma essere
liberi piuttosto che godere di una libertà apparente. L’Herrmann ha
voluto leggere nelle parole del lupo una tensione alla libertà,
evidentemente negata a Fedro, che non la ottenne mai completamente.
Dalla lettura di Canis ad agnum alcuni studiosi, tra cui De Lorenzi
9
,
hanno tratto notizie circa l’infanzia del favolista: le parole dell’agnello
8
L. HERRMANN, Phèdre et ses Fables. Cit.
9
CFR. Fedro, favole, cit. pag. 56
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abbandonato dalla madre naturale e accolto da un altro animale che lo
ha nutrito come se fosse figlio suo fanno pensare, per l’accoratezza
con cui sono pronunciate, a un’esperienza di vita vissuta; dal
momento che l’agnello dice di essere stato esposto perché maschio, il
De Lorenzi ha pensato che con queste parole Fedro avesse voluto dare
un indizio al lettore circa l’identità di sua madre: non poteva essere di
condizione servile, dal momento che le schiave e i loro figli erano
considerati proprietà esclusiva del pater familias che era l’unico a
poter decidere le sorti dei bambini. La madre di Fedro doveva quindi
necessariamente essere una donna libera e l’unica categoria di donne
libere che traeva più vantaggio dal crescere figlie femmine piuttosto
che una prole maschile era quella delle cortigiane, in quanto le
bambine potevano essere avviate a questo stesso lavoro. Sempre il De
Lorenzi, questa volta forse troppo macchinosamente, ha poi sostenuto
che la madre non abbandonò Fedro a se stesso, ma che il bambino
venne affidato a un uomo colto (tentando cosi di spiegare anche il
termine schola del prologo al III libro, intendendolo quindi come una
vera e propria scuola filosofica o di declamazioni) che lo avrebbe
accolto e avviato agli studi dopo averlo affidato ad una schiava,
incarnata nell’apologo dalla capra. Sotto Tiberio comincia la stesura
vera e propria della sua raccolta di favole con la pubblicazione dei
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primi due libri. In questa fase Fedro si accosta alla materia quasi
timoroso, tanto che nel prologo al primo libro dice chiaramente di
desumere la materia da Esopo, l’ auctor (v.1) degli apologhi che lui si
è limitato a volgere in verso giambico. La stretta dipendenza dal
modello esopico si fa sentire ancora nel prologo al II libro, in cui
viene chiarito ancora una volta come l’elemento favolistico sia
trattato con lo stile e il gusto degli antichi, anche se è già presente un
primo tentativo di sdoganarsi dal suo prototipo nell’affermazione ai
vv. 9-13, nei quali mostra la possibilità di introdurre “intarsi” secondo
il proprio gusto, poiché la favola deve essere apprezzata per il suo
messaggio e non per il nome dell’autore (v. 7).
L’evento che segnò maggiormente la vita di Fedro fu lo scontro con
il protetto di Tiberio Seiano, sopraggiunto nel momento di maggior
fortuna dell’autore e che gettò un ombra sulla sua esistenza: Fedro fu
accusato di aver istigato, con le sue favole, all’odio verso i potenti e
verso lo Stato anche se, come lui stesso sottolinea nel solito prologo al
III Libro, neque enim notare singulos mens est mihi, / verum ipsam
vitam et mores hominum ostendere.(vv. 49-50). In effetti,
quest’accusa cadde ben presto, forse per la morte dello stesso Seiano,
giustiziato nel 31, e Fedro poté continuare la sua opera fino al regno di
Nerone. Scrisse infatti altri due libri di favole, distaccandosi sempre
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più dal modello esopico e introducendo, accanto ai brevi apologhi con
animali, anche racconti più ampi che avevano uomini come
protagonisti. Si assiste, in quest’ultima fase, ad una crescita
intellettuale di Fedro: c’è una maggior consapevolezza della propria
arte, che lo porta a personalizzare l’opera di Esopo rivendicando la
novità introdotte nel suo libello, tanto da spingerlo a dire, nel prologo
al IV ed ultimo Libro che le sue favole sono Aesopias, non Aesopi (v.
11). Esopo non è più il magister, bensì uno scopritore fugace e Fedro
non si limita più solo ad emularlo ma inserisce nuovi argomenti su di
un tessuto stilistico antico. Ciò mostra anche la volontà di superare i
propri limiti e ricercare consensi tra i lettori e gli intellettuali,
lasciando trasparire anche un forte spirito polemico nei confronti della
società, osservata con lo sguardo critico e la sofferenza tipica della
filosofia stoica.
In realtà il desiderio di fama eterna di Fedro non ebbe subito un vero
riscontro poiché, morto nel 50 d.C. circa, già subito dopo la
scomparsa il suo nome e l’opera vennero dimenticate, cosicché per
molto tempo gli stessi letterati latini sostennero che Roma non ebbe
mai una figura che si accostasse a quella di Esopo per la materia
trattata. Questo oblio durò per secoli finché, nel 1562, fu rinvenuto un
manoscritto fedriano di X sec nell’abbazia di Saint-Benoìt-sur-Loire e