6
Purtroppo, per diversi anni, una gestione economica delle società di
calcio italiane, è stata ostacolata decisamente dalla cultura dominante, che
aveva un’idea di sport come passione pura, non contaminato dagli interessi
economici che pure gli sono sempre girati intorno. Una filosofia
decisamente decoubertiana, che non prendeva però in considerazione la
realtà dei fatti e che è sfociata in una legge ai limiti del paradossale, che
definiva le società sportive professionistiche delle società di capitali senza
fine di lucro. Tutto ciò a portato all’instaurarsi di un tipo di gestione
estremamente passionale, al di là di ogni logica di efficienza, che ha
generato, in alcuni casi, pericolose distorsioni, che hanno dapprima
interessato il settore in sé, per espandersi poi alla società civile, che nel
calcio, in vario modo, ha suoi interessi.
Il paradosso delle società per azioni senza fine di lucro, quali sono
state le società di calcio professionistiche italiane dal 1981 fino al 1996,
sembra quindi la causa principale delle inefficienze gestionali che si
osservano nel settore calcio. Ma se si osserva la situazione anche nel
passato, si capisce che forse tali inefficienze sono insite nella cultura
dirigenziale sportiva italiana. Già nel 1952, infatti, il presidente del CONI di
allora, Onesti, si esprimeva in questo modo nei confronti dei dirigenti delle
società di calcio: “tra questi dirigenti vi sono spesso operatori economici che
si ingegnano, con assiduità ed intelligenza, per creare nuove possibilità di
lavoro alle aziende cui presiedono. E’ ammissibile che, nel medesimo
tempo, essi importino lavoratori dall’estero a condizioni folli? E come si
conciliano le spese da nababbi con le disastrose condizioni dei bilanci delle
società?”
7
Oggi tutto ciò sembrerebbe definitivamente passato, ma il
condizionale è d’obbligo, perché, nonostante le società siano finalmente
libere di distribuire gli utili e di diversificare le proprie attività, nonostante
siano ormai diverse quelle che hanno deciso di quotarsi in Borsa, ancora si
assiste, annualmente se non settimanalmente, ad esempi di gestione
estremamente passionale, più consoni alla vecchia figura di “presidenti-
tifosi” che ai nuovi “presidenti- imprenditori”.
In questo lavoro si cercherà di capire il delicato momento che stano
vivendo dal punto di vista gestionale le società di calcio italiane. Si partirà,
quindi, con un’analisi del settore, per identificarlo nelle sue dimensioni
fondamentali e per descriverne le attività di base e le potenzialità per un
futuro prossimo caratterizzato, probabilmente, da notevoli cambiamenti.
Nella seconda parte si entrerà nel vivo delle problematiche di
gestione di una società tipo. Il caso analizzato è quello della Salernitana
Sport, società che da poco si è affacciata sul “grande palcoscenico” del
calcio di alto livello, identificato nelle serie A e B. L’analisi di una società
del genere può essere utile per comprendere e descrivere il percorso che i
pochi grandi club stanno già percorrendo ed i medio-piccoli si stanno
accingendo ad intraprendere, per giungere finalmente ad una gestione
secondo i principi dell’economicità. Si analizzeranno, quindi, i fattori critici
su cui costruire una tale gestione e le possibili linee di uno sviluppo futuro,
prendendo spesso come esempio i casi all’avanguardia delle società sportive
inglesi e statunitensi.
8
Infine, nella terza parte, si darà una visione prettamente quantitativa
di tutto il discorso fatto in precedenza, attraverso l’analisi dei bilanci della
stessa Salernitana Sport. In questo modo si cercherà di trarre delle
conclusioni, possibilmente valide, su ciò che significa oggi gestire una
società di calcio professionistica in Italia, soffermandosi altresì sui punti in
cui occorrerebbe intervenire per adeguare tali società al resto del sistema
economico produttivo italiano.
9
1° Parte
Analisi del settore “calcio professionistico” in
Italia
10
I. ASPETTI NORMATIVI ED ISTITUZIONALI
1. Nascita ed evoluzione del fenomeno calcistico
1
Il gioco del calcio, con le sue prime regole ed organizzazione, nasce
nel 1863 e precisamente il 26 ottobre, quando a Londra, nella Freemason’s
Tavern, fu fondata la Football Association, i cui contenuti furono poco dopo
esportati in Italia grazie ai commercianti inglesi ed ai cittadini britannici
impiegati nelle imprese del nord Italia. Anche se si hanno notizie di primi
tentativi di organizzare delle squadre già nel 1886 a Torino, Livorno,
Palermo e nel Veneto, si fa generalmente coincidere la nascita del calcio
italiano con quella del primo club ufficiale a Genova nel 1893: il Genoa
Cricket and Athletic Club, che solo nel 1896 inserirà ufficialmente anche
l’attività calcistica nella dizione sociale e fino al 1897avrà tra le proprie fila
solo atleti inglesi.
Nel 1909 nasce la Federazione Italiana Giuoco Calcio e si ha il
primo regolamento organico del calcio italiano. Nel 1929 si disputa
finalmente il primo campionato italiano di calcio a girone unico, con la
suddivisione in serie tuttora in vigore (anche se con diverse modifiche).
Il primo tentativo di porre delle regole al calcio, che non fossero solo
quelle inerenti al gioco ed all’organizzazione dei campionati, si ebbe nel
1926 con le così chiamate “Carte di Viareggio”, con la distinzione dei
1
I dati storici elencati in questo paragrafo sono tratti dal libro di VALITUTTI “Storia del calcio
italiano (dalle origini a Francia ’98)”, TEN, 1998.
11
calciatori tra dilettanti e “non dilettanti”, l’obbligo del versamento da parte
dei club di una percentuale (3-5%) degli incassi alla FGCI, la nomina dei
presidenti della Federazione e del CONI da parte del Capo del Governo. La
distinzione tra dilettanti e “non dilettanti” evidenzia una ferma condanna da
parte delle istituzioni verso il calcio professionistico, che però si scontrava
con la realtà dei fatti, che vedeva già il lievitare dei flussi finanziari dovuti
agli incassi ed al crescente interesse che il fenomeno suscitava presso i
protagonisti dell’economia italiana.
I calciatori iniziarono ad essere considerati quindi come coloro che
potevano rendere molti soldi ai club con le loro prestazioni, ed iniziarono
quindi ad avere un prezzo; fu loro riconosciuto dalla FIFA anche il diritto di
ottenere un rimborso per il mancato guadagno causato dall’attività
agonistica: si stava sempre più affermando il concetto di professionalità,
anche se si continuava a negare il professionismo.
Il calcio era intanto già diventato un grande fenomeno di costume,
così che ogni città pretendeva il suo stadio e la sua squadra. Il primo
risultato che ne venne fu il lievitare degli interessi economici cui faceva
riscontro l’assenza di una precisa regolamentazione e ciò portò all’intrapresa
d’avventure improbabili di imprenditori che portarono al dissesto le proprie
società, in alcuni casi anche gloriose.
Un primo tentativo di regolamentazione di questo settore in grande
fermento, attraverso un intervento legislativo, si ebbe solo nel 1946 con la
legge n.469, relativa all’“autofinanziamento ed autonomia dello sport”, che
12
però non andava a regolare gli aspetti della gestione ed i rapporti tra le
singole associazioni sportive e gli atleti.
Un primo passo in questo senso si ebbe solo nel 1978, quando un
provvedimento del Pretore di Milano, dichiarando illegittimo il calcio-
mercato come sistema di assunzione, costrinse il Governo a varare un
provvedimento d’urgenza per disciplinare appunto i rapporti di lavoro tra
società sportive ed atleti, sottraendo questi ultimi alla disciplina del
collocamento (D.L. 14 luglio 1978, convertito nella l. 30/78).
2. La disciplina attuale delle società professionistiche
La vera rivoluzione nel mondo dello sport si è avuta con la legge 23
marzo 1981 n. 91 intitolata “Norme in materia di rapporti tra società e
sportivi professionisti”, che finalmente da una precisa definizione di atleta
professionista, facendo rientrare la sua prestazione a titolo oneroso nei
contratti di lavoro subordinato (e non lavoratore autonomo come voleva la
dottrina dominante). L’atleta professionista è in verità definito in senso
negativo: è tale l’atleta che fornisce prestazioni retribuite a meno che si tratti
di singola manifestazione sportiva, ed è vincolato a partecipare con
frequenza alla seduta di allenamento od impegnato per non meno di due ore
settimanali, o cinque giorni il mese oppure 30 giorni l’anno (art.3).
Altro caposaldo della norma, che poi ha cambiato nettamente (o
almeno ha dato il via ad un possibile cambiamento radicale) la gestione
delle società di calcio, è l’imposizione, sancita all’art. 10, della
trasformazione delle stesse in S.p.A. o in S.r.l., nel caso in cui si avvalgano
13
di atleti professionisti. Se la norma si fosse fermata qui il cambiamento
sarebbe stato profondo e definitivo, dando finalmente alla gestione delle
società in questione una veste di imprenditorialità ed un’attenzione
maggiore ai problemi economici, che allora si facevano notevolmente
sentire grazie al lievitare degli incassi da una parte ed alla crescita
esponenziale degli ingaggi dei calciatori dall’altra.
Tutto questo però non è avvenuto, in quanto lo stesso art. 10, al
secondo comma, recitava: “L’atto costitutivo deve prevedere che gli utili
siano interamente reinvestiti nella società per il perseguimento esclusivo
dell’attività sportiva”; inoltre l’art. 13 aggiungeva che, per gravi irregolarità
della gestione, le Federazioni sportive nazionali potessero chiedere al
tribunale la messa in liquidazione della società, ma, redatto il bilancio finale
a norma dell’art. 2453 c.c., l’eventuale residuo attivo spettasse interamente
al CONI. Conseguentemente il solo modo concesso ai soci per rientrare in
possesso del denaro investito erano le riduzioni di capitale per esuberanza
(ex art. 2445 c.c.) senza alcuna possibilità di lucrare sull’attività.
La società sportiva si trovava così nella posizione quanto meno
strana di società di capitali, che per l’art. 2247 c.c. deve avere lo scopo di
dividere gli utili derivanti dall’esercizio in comune dell’attività economica,
soggetta però ad una disciplina che ne vietava lo scopo di lucro (società
lucrativa senza scopo di lucro!).
Questa ambiguità fece addirittura sorgere in molti il dubbio che
queste società potessero avere effettivamente natura imprenditoriale, cosa
importante per l’eventuale assoggettabilità ala disciplina dell’imprenditore
14
commerciale e conseguentemente al fallimento
2
. La questione si risolse
nella considerazione fatta da alcuni giuristi che la natura imprenditoriale si
ricollega ad una capacità effettiva di procurare un utile, non rilevando la
distribuzione reale dello stesso; le società di calcio, in questo senso,
organizzando pubblici spettacoli a pagamento, sono da considerare come
svolgenti attività economica imprenditoriale e quindi soggette al fallimento
3
.
L’ambiguità della legge 91/81 è stata superata di recente con il D.L.
20 settembre 1996 n. 485 (convertito, con modificazioni, nella legge
586/96) che, sostituendo il secondo comma dell’articolo 10 della precedente
legge, ha eliminato l’obbligo del reinvestimento integrale degli utili
4
. I primi
due comma del nuovo art. 10 si presentano così: “possono stipulare contratti
con atleti professionisti solo società costituite nella forma di S.p.A. o S.r.l.
[…] l’atto costitutivo deve prevedere che la società possa svolgere
esclusivamente attività sportive ed attività ad esse connesse o strumentali.”
E qui sta la definitiva consacrazione dello sport come business: le società
sono finalmente libere di avere uno scopo lucrativo e, pur dovendo avere
come attività principale sempre quella sportiva, possono svolgere anche
attività collaterali, aprendo così enormi spazi in cui le strategie dei più
grandi club (ma anche dei club minori, come vedremo) possono muoversi,
dalla diversificazione delle attività alla quotazione in Borsa.
2
Sull’argomento si veda l’articolo di MENNEA, L’esercizio di attività d’impresa ed il fallimento
nelle associazioni non riconosciute (associazioni sportive), Impresa c.i. n.11/94.
3
FERRARA-CORSI Gli imprenditori e le società, Milano, Giuffrè ed., 1999.
4
E’ stata mantenuta comunque, anche nella nuova stesura dell’art. 10, la previsione della destinazione
obbligatoria del 10% degli utili a scuole giovanili di addestramento e formazione tecnico-sportiva.
15
Inoltre l’art. 13 è stato interamente sostituito, attribuendo anche alle
Federazioni sportive nazionali il potere di denuncia ex art 2409 c.c., ed
eliminando quindi anche l’ulteriore ambiguità che impediva di rientrare in
possesso delle somme investite dopo la liquidazione.
Si deve intanto dare atto che la maggior parte delle innovazioni della
l. 586/96 che, come si vedrà in seguito, avranno anche un’enorme influenza
sui bilanci delle società di calcio (come del resto le ha avute la l. 91/81),
sono state stimolate da una sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità
Europee del 15 dicembre 1995, la famosa “sentenza Bosman”. Con questa
sono stati enunciati due importanti principi, recepiti poi dalle legislazioni
nazionali, relativi all’organizzazione del calcio, ai trasferimenti ed alla
cittadinanza dei calciatori:
1. I limiti imposti al numero dei giocatori provenienti da altri
paesi della Comunità Europea sono contrari all’art.48 del Trattato di Roma,
che assicura la libertà di movimento per i lavoratori all’interno della
Comunità.
2. Accogliendo l’istanza precitata del giocatore Bosman sono
state inoltre dichiarate contrarie al Trattato anche le indennità corrisposte
per trasferire un giocatore al termine del suo contratto presso un club di un
paese europeo; principio che è stato esteso poi anche ai trasferimenti
all’interno dello stesso paese.
In realtà le sentenze della Corte di Giustizia Europea non hanno il
potere di vincolare direttamente le Federazioni nazionali. Queste sono però
state indirettamente condizionate dalla sentenza in esame, poiché, in assenza
16
di una disciplina nazionale conforme ai principi comunitari, qualunque
atleta comunitario avrebbe potuto agire in giudizio contro la Federazione
ogni volta che gli fosse stato vietato l’ingresso in campo
5
.
3. Il governo dello sport in Italia
Lo sport italiano, caso unico nel contesto internazionale, ha sempre
goduto di una notevole indipendenza, sia economica sia amministrativa
6
,
dallo Stato. Non esiste, infatti, nel bilancio statale un capitolo di spesa
specificamente destinato allo sport (mentre è lo sport che finanzia lo Stato
direttamente cedendogli parte degli introiti delle scommesse legate ai vari
eventi) e tale indipendenza è stata anche sancita per legge con la già
menzionata l. 469/46.
Ciò ha favorito la creazione di un’organizzazione del governo dello
sport basata su istituzioni che operano su base gerarchica e che si dipartono
da una struttura centrale e varie articolazioni locali, sia a livello regionale
sia provinciale, formando un’istituzione politica interna allo Stato, ma
indipendente da questo, con proprie leggi che possono anche discostarsi da
quelle generali. Esempio ne è infatti la disciplina sui contratti di lavoro dei
giocatori, sottratta a quella del collocamento.
L’ente supremo dello sport italiano, che opera come un vero e
proprio ministero dello sport, è il Comitato Olimpico Nazionale Italiano
5
ASCANI Sport management, Sperling & Kupfer, 1998.
6
La corretta gestione del CONI e delle Federazioni sportive nazionali è comunque assicurata da
rigorosi controlli amministrativi da parte del Governo e del Parlamento, cui sia il CONI che le
Federazioni devono presentare i bilanci, unitamente alla relazione sull’attività e sull’andamento della
gestione.
17
(CONI), costituito nel 1914 e divenuto nel 1927 una sorta di federazione di
tutte le federazioni sportive italiane. Tale supremazia è stata poi sancita per
legge con la l. 426/42, la quale, con successive modificazioni, ne stabilisce
anche i compiti, consistenti nell’ “organizzazione e potenziamento dello
sport nazionale” (art. 2). Per fare ciò “provvede alla conservazione, al
controllo ed all’incremento del patrimonio sportivo nazionale, coordina e
disciplina l’attività sportiva; ha il potere di sorveglianza e di tutela di tutte
le organizzazioni che si dedicano allo sport e ne ratifica, direttamente o per
mezzo delle Federazioni sportive nazionali, gli statuti ed il regolamento;
appronta gli atleti e i mezzi idonei per le Olimpiadi e per tutte le altre
manifestazioni sportive nazionali o internazionali” (art. 3).
Il CONI fa inoltre parte di un ente sovranazionale che è il CIO
(Comité International Olympique, fondato a Parigi il 23 giugno 1894 per
opera del barone Pierre de Coubertin)
7
, dal quale ha il mandato di
realizzarne le norme in Italia.
Procedendo per linea gerarchica, dipendenti dal CONI, che abbiamo
visto essere l’organo di governo di tutto lo sport italiano, sono le
Federazioni sportive nazionali, una per ogni sport riconosciuto dal CONI,
che governano e controllano tutte le attività relative allo sport di loro
competenza.
7
Per una più dettagliata descrizione della storia e dei compiti del CONI e del CIO, come anche per
tutte le istituzioni ed i regolamenti legati al settore dello sport dilettantistico, si veda ASCANI op. cit.,
1998
18
Dalle Federazioni dipendono tutte le associazioni sportive italiane,
infatti l’art. 10 della l. 426/42 prevede che “le società e le sezioni sportive
debbono essere riconosciute dal CONI e dipendono disciplinarmente e
tecnicamente dalle Federazioni sportive nazionali competenti”. Le società,
quindi, per le controversie relative allo svolgimento dell’attività sportiva, si
devono rivolgere agli organi di giurisdizione propri delle Federazioni.
Gli organi essenziali al funzionamento di ogni Federazione sono:
l’assemblea, composta dai delegati delle società affiliate, che decide sulla
nomina e sul rinnovo delle cariche federali; il presidente, che ha compiti di
controllo sugli altri organi federali; il consiglio federale, che approva e
delibera sulle iniziative di carattere tecnico ed amministrativo della
Federazione; il Collegio dei revisori contabili, eletto dall’assemblea, che
visiona ed approva i bilanci.
Per ciò che ci interessa più da vicino, la federazione di riferimento è
la Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC) che “riunisce le società, le
associazioni e gli altri organismi ad essa affiliati che perseguono il fine di
praticare il giuoco del calcio” (art. 1 dello Statuto della FIGC). Particolarità
di tale federazione rispetto alle altre è la maggiore rilevanza assunta dalla
funzione di controllo della gestione anche economico-finanziaria sulle
società professionistiche ad essa affiliate.
Per adempiere a questo compito, la Federazione si avvale di un
organo interno, la Commissione di Vigilanza sulle Società di Calcio
19
professionistiche (CO.VI.SO.C.)
8
, che ha anche un potere consultivo verso
le società, per tutto ciò che riguarda la costituzione e le operazioni di
straordinaria amministrazione, oltre ad un potere propositivo nei confronti
della FIGC per la sua attività di indirizzo degli aspetti economico-finanziari
del calcio professionistico. Nel caso in cui la CO.VI.SO.C. riscontri delle
irregolarità le deve segnalare alla Federazione e proporre ad essa eventuali
provvedimenti sanzionatori e cautelari. Il controllo si svolge attraverso
l’esame dei bilanci di esercizio e delle situazioni finanziarie trimestrali da
redigersi secondo dei modelli base. A questo proposito, la contabilità deve
essere tenuta dalle società secondo i criteri predisposti dalla FIGC. In
particolare, il principale obbligo per le società è il raggiungimento del
corretto rapporto tra ricavi ed indebitamento, che se è inferiore a tre
impedisce l’iscrizione della società stessa al Campionato.
La FIGC, oltre a dipendere dal CONI, deve armonizzare la propria
attività ai disposti di due organi sovranazionali, la FIFA (Fédération
International de Football Association) a livello mondiale e l’UEFA (Union
Européenne des Associations de Football) a livello continentale.
All’interno di ogni Federazione troviamo le Leghe, che nel caso
specifico sono: la Lega Nazionale Professionisti, cui sono associate le
squadre di Serie A e B; la Lega Professionisti Serie C; la Lega Nazionale
Dilettanti per i campionati inferiori.
8
BASILE-BRUNELLI-CAZZULO, Le società di calcio professionistiche, Buffetti, 1997.