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1. L’INDUSTRIA DEL CALCIO IN ITALIA E IN
EUROPA
1.1 Introduzione
Il calcio è lo sport più seguito e praticato nel mondo. Secondo le più recenti
stime si contano nel mondo circa 1 miliardo e 800 milioni di appassionati a questo
sport, il che ne fa uno dei settori industriali più importanti. Il calcio, inteso come lo
sport che conosciamo oggi, nacque nelle università private dell’Inghilterra vittoriana
della metà del XIX secolo e si diffuse presto in tutta Europa e nel mondo. Nel 1855
nacque la prima società calcistica al mondo, lo Sheffield Club, e nel 1863 venne
redatto per la prima volta il suo regolamento (del tutto simile a quello attuale). Questo
sport si caratterizzò subito per il grande coinvolgimento sociale, come è testimoniato
dalla nascita repentina di diverse associazioni sportive in Europa e in Sud America.
Nel 1904 venne istituita la Fèdèration Internationale de Football Association (FIFA),
la quale raccoglie le diverse federazioni nazionali nel mondo; nel 1929 essa
organizzò il primo mondiale di calcio. In Italia la diffusione di questo sport trovò
immediato riscontro. Vennero infatti costituiti: nel 1892 il primo club calcistico italiano,
il Genoa Cricket and Athletic Club, e nel 1898 la Federazione Italiana del Football poi
trasformata in Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC).
Il calcio ha seguito un percorso relativamente celere passando da sport di
nicchia a sport globale. L’evoluzione da sport a business fu quindi contestuale a
quella da dilettantismo a professionismo. Negli anni, il crescente interesse verso
questo sport spinse le società calcistiche a competere tra di loro e offrire incentivi
sempre maggiori per attrarre i giocatori più talentuosi. Inizialmente la fonte di reddito
utilizzata per remunerare i calciatori derivò dalla vendita dei biglietti,
successivamente gli introiti aumentarono in volume e numero di fonti, determinando
così un aumento del volume d’affari legato al mondo del calcio. Nel maggio 1946
nacque il primo concorso pronostici sulle partite di campionato denominato
Totocalcio, mentre negli anni Cinquanta vennero trasmesse le prime partite di calcio
in televisione. Negli stessi anni avvennero i primi acquisti rilevanti. Il trend di crescita
del giro d’affari non subì un rallentamento nel corso degli anni, viceversa ebbe una
fortissima accelerazione dagli anni Ottanta, grazie ad una serie di fattori quali
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l’avvento di grandi magnati, capaci di investire ingenti somme di denaro, e soprattutto
l’aumento stellare dei proventi derivanti dalla cessione dei diritti TV in seguito
all’avvento della Pay-per-View.
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1.2 Evoluzione del Quadro Normativo
Prima di potere svolgere analisi economico-finanziarie approfondite è
necessario ripercorrere le tappe principali che hanno portato alla costruzione del
quadro normativo odierno nel settore del calcio, in Italia e in Europa. Quest’ultimo
difatti appare complesso nella sua struttura in quanto, da una parte, è sottoposto alla
sovranità di organismi nazionali ed internazionali e, dall’altra parte, esiste una
sovrapposizione tra le disposizioni speciali di settore e quelle derivanti dal diritto
generale (sia nazionale che sovranazionale/comunitario). Si nota inoltre come da
qualche anno si assiste ad una progressiva quanto comprensibile incidenza della
legislazione generale rispetto a quella speciale, dovuta ai crescenti interessi che
ruotano attorno al mondo del calcio, passato in modo relativamente veloce da sport
amatoriale a vero e proprio business.
1.2.1 Dalla Riforma del 1966 alla Legge n.91/1981
Prima della riforma federale del 1966, le società calcistiche adottavano
generalmente la forma giuridica di associazione non riconosciuta. Questo tipo di
status, pur garantendo una notevole flessibilità alla gestione societaria, non risultava
appropriato se messo a confronto con gli interessi sempre crescenti attorno al mondo
del calcio, infatti non forniva né un’adeguata informativa sulla gestione societaria né
un’adeguata trasparenza contabile. I club erano obbligati a redigere semplicemente
un rendiconto finanziario che riportasse le entrate e le uscite di cassa relative al
periodo amministrativo considerato. Ad esempio non si procedeva alla registrazione
di alcun patrimonio societario, i giocatori non avevano alcun valore contabile e, cosa
più importante, i valori pubblicati non rispettavano il principio della competenza
economica. Tutte queste ragioni hanno fatto sì che la Federazione Italiana Giuoco
Calcio (FIGC) si adoperasse per cercare soluzioni più funzionali alle nuove esigenze.
La riforma federale del 1966 stabilì che l’esercizio in forma collettiva delle
attività sportive a livello professionistico potesse essere esercitato esclusivamente
attraverso la forma di società per azioni e a responsabilità limitata. In questo modo i
bilanci redatti avrebbero dovuto rispettare le norme del codice civile sulle società di
capitali. Dato che questo provvedimento non aveva forza di legge, la FIGC stabilì
uno “statuto tipo” al quale avrebbero dovuto sottostare le società di calcio
professionistiche. Inoltre, per enfatizzare la centralità dello sport rispetto al business,
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veniva inserita dalla FIGC una clausola statutaria nella quale si prevedeva l’obbligo
per le società di reinvestire nell’attività sportiva gli utili eventualmente generati,
rendendo quindi impossibile la distribuzione degli utili tra i soci (anche in caso di
scioglimento della società).
La legge n.91/1981 recepì le principali novità introdotte dalla riforma federale
del 1966 (obbligo di forma capitalistica e di reinvestimento degli utili) ed apportò
ulteriori novità; ad esempio fornì la definizione di professionista sportivo
qualificandolo come lavoratore subordinato. Questo ebbe un impatto importante
sull’inquadramento fiscale e giuridico al quale erano sottoposti i giocatori. Il rapporto
di lavoro trovò le sue radici nella stipulazione di un contratto in forma scritta nel quale
doveva essere specificata la durata (comunque non superiore ai cinque anni). Tra le
conseguenze più importanti, si ricorda l’abrogazione del “vincolo sportivo”. Con tale
espressione si indicava il diritto da parte dei club di potersi avvalere in modo
esclusivo delle prestazioni di un’atleta, rendendo impossibile il trasferimento del
giocatore senza il consenso del club di appartenenza. Quindi, in seguito
all’emanazione della legge, per l’atleta professionista divenne possibile, alla
scadenza del contratto, stipularne uno nuovo con un’altra società purché venisse
riconosciuta la cosiddetta “indennità di preparazione e promozione”. Analogamente,
la società che ingaggiava un calciatore che per la prima volta firmava un contratto
professionistico doveva riconoscere un compenso alla società o associazione nella
quale il calciatore aveva svolto la sua attività giovanile (una sorta di premio per la
formazione).
1.2.2 Sentenza Bosman
La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 15 Dicembre 1995
(più semplicemente ricordata come sentenza Bosman dal nome del calciatore Belga
al centro del processo) rappresenta un punto di svolta nel calcio per le diverse
conseguenze che questa porta con sé. La sentenza dichiarava illegittimo l’obbligo di
versare le “indennità di preparazione e promozione” per gli atleti professionisti i cui
contratti fossero giunti a scadenza. I calciatori acquistavano quindi la possibilità di
muoversi da un club all’altro senza che fosse pagato alcun indennizzo.
La rivoluzionaria sentenza (di rango europeo) per essere efficace doveva
essere recepita nei singoli stati membri dell’Unione Europea. In Italia vi furono un
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susseguirsi di decreti legge che cercarono di disciplinare la materia fino al definitivo
D.L. n.485 del 20/09/1996 (poi convertito in legge n. 586 del 18/11/1996), il quale
non si limitò solo a recepire la sentenza ma dettò anche alcune disposizioni di
carattere contabile al fine di “tappare” le falle del sistema. Infatti, la cancellazione
delle “indennità di preparazione e promozione” (iscritte nell’attivo dello stato
patrimoniale tra le immobilizzazioni immateriali e ammortizzate per il tempo di durata
del contratto dei giocatori) avrebbe portato all’iscrizione di ingenti sopravvenienze
passive a conto economico, determinando gravi conseguenze sull’equilibrio
economico-finanziario dei club e in molti casi l’obbligo di ricapitalizzazione o
addirittura lo scioglimento (così come imposto dal codice civile). Per ovviare a questo
problema, le parti politiche decisero di consentire alle società, in via del tutto
eccezionale, la possibilità di iscrivere nell’attivo dello stato patrimoniale un importo
massimo pari al valore delle “indennità di preparazione e promozione” maturate alla
data del 30 giugno 1996 in base ad una certificazione rilasciata dalla federazione, da
ammortizzare in tre anni. Per l’obiettivo perseguito, il decreto legge in questione
prende anche l’appellativo di “decreto spalma-perdite”. Tra le altre misure introdotte
dal D.L. si devono ricordare: l’abolizione dell’obbligo di reinvestire gli utili nell’attività
sportiva (rendendo così le società di calcio delle società for profit), l’ampliamento
delle attività esercitabili dalle società calcistiche, l’obbligo di destinare almeno il 10%
degli utili al settore giovanile e, infine, l’obbligo di riconoscere un indennizzo a favore
della società cedente (denominato “premio di addestramento e formazione tecnica”)
da parte della società che ingaggia un calciatore al suo primo contratto
professionistico.
L’obiettivo di queste misure era quello, da una parte, di proteggere il settore
giovanile dallo tsunami conseguente alla sentenza Bosman e, dall’altra, di favorire
una gestione più oculata e “razionale” dei club. Gli effetti della sentenza Bosman e
del decreto legge purtroppo portarono ad un ulteriore deterioramento degli equilibri
economico-finanziari delle società di calcio, in particolare dei club più piccoli che non
furono in grado far fronte ai nuovi investimenti finanziari richiesti (spesso privi di
alcuna logica gestionale). Con l’eliminazione della “indennità di promozione e
preparazione” si accese una forte concorrenza tra i club per assicurarsi le prestazioni
dei giocatori migliori. Ne derivò un aumento vertiginoso dei prezzi dei cartellini e degli
stipendi dei calciatori (che tuttora non si è arrestato, basti pensare che solo dal 2007
al 2008 vi è stato un aumento superiore al 18% degli stipendi pagati in Europa). Le
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conseguenze derivanti dall’immobilismo da parte della FIFA, della UEFA e delle
diverse federcalcio europee sono ancora adesso visibili. I provvedimenti coraggiosi e
innovativi necessari a riformulare le regole del sistema e a razionalizzare i costi,
come ad esempio il salary cup, furono spesso annunciati ma ripetutamente disattesi.
1.2.3 Gli espedienti Contabili e l’Intervento della UEFA
In Italia, il peggioramento dei risultati economici e gli squilibri finanziari vennero
affrontati spesso attraverso l’uso di escamotage contabili (talvolta dalla dubbia liceità)
più che attraverso una pianificazione strategica di lungo termine, grazie anche alla
connivenza della politica. Fu coniato il termine “Doping amministrativo” per indicare
tutti quei fenomeni contabili utilizzati per “ritoccare” i bilanci, influendo anche sulla
regolarità delle competizioni sportive. Difatti alcune società, grazie all’uso di queste
pratiche, ebbero la possibilità di acquistare giocatori più quotati o in numero più
ampio senza subire sanzione alcuna. Venne fatto ingente uso di plusvalenze
artificiose in modo tale da garantire il contenimento delle perdite in conto economico
ed evitare deficit patrimoniali che avrebbero comportato la ricapitalizzazione o
addirittura la scomparsa delle società di calcio. Un esempio di queste pratiche è lo
scambio, tra due club, di giocatori ai quali venivano attribuiti valori molto “gonfiati”, in
questo modo le società potevano iscrivere immediatamente a conto economico una
plusvalenza rilevante e dividere sull’intero arco di durata del contratto
l’ammortamento relativo (aumentando anche in modo ingannevole il patrimonio
societario). Il funzionamento di queste pratiche verrà meglio approfondito nella
quarta parte di questo lavoro.
Ovviamente si trattò di espedienti contabili che avrebbero potuto nascondere i
problemi economico-finanziari dei club solo nel breve periodo. Col passare del tempo
l’eccessivo valore assegnato ai giocatori comportò una crescita esponenziale degli
ammortamenti presenti nel conto economico. Ancora una volta il parlamento italiano
decise di intervenire con un decreto legge (D.L. del 24 Dicembre 2002, n.282) per
salvare il settore da una crisi finanziaria inarrestabile, più precisamente consentì ai
club di operare svalutazioni dei diritti pluriennali delle prestazioni degli atleti da
ammortizzare per ben dieci anni. Questa disposizione una tantum venne denominata
“decreto Salva-Calcio”. I club poterono iscrivere tra le voci delle attività (con il
consenso del collegio sindacale e previa apposita perizia giurata) l’ammontare delle
svalutazioni ai fini civilistici e fiscali dei diritti pluriennali sulle prestazioni dei giocatori
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posseduti in data 23 febbraio 2003. Ovviamente un provvedimento di questo tipo era
contrario ai principi contabili, tanto è vero che intervenne a riguardo anche
l’Organismo Italiano di Contabilità (OIC) dichiarando che: “la norma in questione non
è in linea con i principi nazionali e con quelli internazionali”. Tale violazione, che
riguardava il principio di competenza (IAS 1), il principio della prevalenza della
sostanza sulla forma (Framework e IAS 1) e la norma secondo cui è possibile
iscrivere un intangible asset solo se ha una utilità futura (IAS 38), assunse contorni
sempre più gravi se si considera che, a partire dall’anno 2005, i principi stabiliti dallo
IASB avrebbero dovuto essere vincolanti per i bilanci consolidati delle società
quotate.
In seguito alla procedura di infrazione aperta dalla Commissione Europea
contro il governo italiano (in quanto il provvedimento era contrario alle norme sugli
aiuti di stato e sulla redazione dei bilanci) venne predisposto un decreto legge
correttivo (D.L. n.115/2005) col quale si stabilì che gli ammortamenti derivanti dalla
svalutazione dei giocatori non erano riconosciuti ai fini fiscali. Inoltre le società che si
erano avvalse del decreto “Salva-Calcio” avrebbero dovuto ridurre il patrimonio netto
di un importo pari al valore residuo della voce di bilancio “Oneri pluriennali da
ammortizzare” risultante dal bilancio del 2006 (di fatto si trattava di una riduzione del
tempo di ammortamento di tale posta da dieci a cinque anni). Il decreto non
specificava però come si sarebbe dovuto ammortizzare il restante 70% del valore
residuo, e soprattutto creava non pochi problemi alle società che avrebbero dovuto
iscrivere rilevanti sopravvenienze passive nel conto economico. Per tale motivo
diverse società (anche quotate) fecero ricorso ad ulteriori espedienti “creativi” quali la
cessione del proprio brand a società controllate, così da generare plusvalenze (ad
esempio l’Inter cedette il proprio brand alla società interamente controllata Inter
Brand per quasi 160 milioni di euro). La figura 11 riassume in modo sintetico il
percorso normativo di cui è stato oggetto il settore del calcio negli anni recenti.
A causa della situazione finanziaria precaria e della mancanza di regole
condivise, la UEFA nel 2004 decise di intervenire per garantire degli standards
comuni alle federazioni associate attraverso il sistema delle licenze, con l’obiettivo di
migliorare il livello di qualità della gestione predisponendo dei requisiti di natura
sportiva, organizzativa, legale, infrastrutturale ed economico-finanziaria. Il rispetto di
tali requisiti era condizione necessaria per poter accedere alle competizioni UEFA
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(Champions League e Coppa UEFA). La FIGC recependo queste novità ritenne
necessario estendere l’obbligo della licenza a tutte le società del Campionato di
Serie A per tutelare la sua regolarità (la mancata richiesta della Licenza equivarrebbe
alla sicura impossibilità di partecipare alle competizioni europee). Questo sistema
rappresentò il primo step verso la realizzazione del più complesso e, certamente, più
innovativo sistema del Fair Play Finanziario, di cui parleremo in seguito.
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1.3 Situazione Finanziaria in Europa
L’Europa può essere considerata la culla del calcio. I campionati delle 53
federazioni associate alla UEFA fatturano circa 11.9 miliardi (esclusi i trasferimenti),
di cui 6.7 miliardi dai soli campionati di Inghilterra, Spagna, Germania e Italia. Difficile
calcolare il valore totale dell’indotto generato dal settore del calcio anche se in Italia
alcune stime fanno riferimento a circa 6.8 miliardi, di cui 4.3 diretto e 2.5 derivato. Nel
2008 la UEFA ha promosso il più importante studio economico-finanziario mai
realizzato fino ad ora, con l’obiettivo di fotografare nel miglior modo possibile lo stato
di salute dei club europei. L’efficacia dello studio è stata resa possibile dalla riforma
UEFA del 2004 sul sistema delle licenze, la quale ha reso obbligatorio per le società
europee la disclosure di alcuni dati finanziari in modo più puntuale ed analitico (ad
esempio la scomposizione dei ricavi); senza di essa non sarebbe stato possibile
delineare la condizione economica del sistema calcio in Europa.
Secondo questo studio che prende il nome di “European Club Footballing
Landscape”, i ricavi
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complessivi generati in media dai club europei sono ripartiti nel
seguente modo: diritti TV 36%, sponsorship 25%, incassi da stadio 22% e altri
proventi 17%. La ripartizione dei costi è invece così suddivisa: salari e stipendi
56%, spese di gestione 37% e altri costi 7%. Nel 2008 i club hanno riportato entrate
per 11.5 miliardi e costi per 12.1 miliardi (di cui 7.1 miliardi per il pagamento di salari
e stipendi, con un aumento rispetto al 2007 pari al 18.1%). Si tratta quindi di un
sistema produttore di perdite che, considerando i 732 club facenti parte dei
campionati delle federcalcio associate alla UEFA, ammontano nel 2008 a 578 milioni
di euro, in aumento rispetto ai 515 milioni riportati nell’anno precedente. Nonostante
la metà dei campionati lascino registrare una crescita superiore al 10% e nonostante
la congiuntura economica favorevole precedente al 2008, questo documento rivela
che solo il 53% dei club ha raggiunto il punto di break-even, mentre il 25% ha
riportato perdite (inferiori al 20% dei ricavi generati) ed il 22% ha riportato gravi
perdite (superiori al 20% dei ricavi generati). Sorprendentemente esistono ben 57
club che sostengono spese per stipendi e salari pari ad oltre il 100% dei ricavi (vedi
figura 1, 4 e 6).
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Ai fini di questa ricerca nella voce “Ricavi”, se non diversamente specificato, non sono inclusi:
plus(minus)valenze derivanti dal trasferimento dei calciatori o dalla vendita di altri asset, interessi
attivi, perdite/utili su cambi, crediti fiscali, o altre voci inusuali o non pertinenti alle gestione
caratteristica delle società di calcio.
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Oltre a questi dati è opportuno riflettere su due aspetti. Il primo aspetto fa
riferimento alla grande disomogeneità tra i diversi club e campionati sparsi in Europa.
Stilando una classifica dei club è possibile notare che il 10% dei club più grandi
genera il 67% del totale dei ricavi e sostiene il 70% del totale dei salari e stipendi
(vedi figura 2). Si nota inoltre, attraverso la lettura della figura 3, come il fatturato
generato dall’industria calcio sia polarizzato maggiormente presso i cinque top
campionati europei (Inghilterra, Spagna, Francia, Italia e Germania). In particolare si
evidenzia che il 13% dei club europei riesce ad attrarre quasi il 70% dei ricavi totali e
il 90% dei ricavi derivanti dalla vendita dei diritti televisivi. Il secondo aspetto fa
riferimento alla trasversalità del problema della sostenibilità economico-finanziaria
dell’intero sistema. Infatti tutte le 53 federcalcio affiliate alla UEFA hanno almeno un
club che riporta utili, ed inoltre in 49 federcalcio esiste almeno un club che presenta
gravi perdite, dimostrando come il problema non sia peculiare rispetto ad alcuni
paesi.
Per quanto concerne la situazione patrimoniale, i club europei nel 2008 hanno
fatto registrare asset per un valore pari a 20 miliardi di euro, a cui fanno fronte 18.2
miliardi di mezzi terzi e 1.8 miliardi di patrimonio netto (vedi figura 7 e 8 per maggiori
dettagli). Per quanto riguarda le passività, 5.5 miliardi derivano da prestiti bancari, di
cui il 54% è riconducibile a 20 club. Tali società possiedono anche il 64% dell’intero
valore (pari a 5.2 miliardi) di immobilizzazioni materiali fisse (per lo più stadi e centri
sportivi). Questo dato dimostra la stretta relazione tra debiti bancari ed investimenti in
asset materiali fissi di lungo termine. La figura 9 spiega ancor meglio tale relazione,
si consideri ad esempio il caso dell’Inghilterra dove, a fronte di un livello di debiti di
quasi 4 miliardi, si registra un valore degli stadi pari a circa 2.5 miliardi. Si nota infatti
come sia gli asset fissi sia il debito netto si concentrino presso alcuni club e nazioni.
Questa riflessione aiuta a leggere in maniera più favorevole la condizione economica
delle società europee, che tutto sommato hanno una scarsa esposizione verso le
banche. Resta il fatto che il rapporto tra mezzi terzi e patrimonio netto è piuttosto
alto, attestandosi ad una cifra superiore a dieci. E’ inoltre emblematico sottolineare
come il 35% dei club abbia un patrimonio netto negativo e, nel solo 2008, il 44% dei
medesimi abbia visto deteriorare il proprio equity.
A onor del vero la situazione debitoria cronica nella quale versano le società di
calcio europee è in parte accentuata dal sistema di contabilità adottato (divieto di