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Questo genere di viaggio spoglia, consuma, riduce, ed emenda, e per questo
forma la figura archetipica del saggio e dell’eroe, resistente al destino pur nella
consapevolezza dell’impossibilità di un suo controllo.
Diversa invece è la posizione dei moderni di fronte al viaggio, che pur mantenendo
il topos dell’eroismo, gli assegnano un valore esclusivamente individuale, che
scaturisce dall’atto volontario del mettersi alla prova, dal piacere e dal desiderio di
andare incontro alla paura.
Per cui nel contesto moderno le stesse vicissitudini, privazioni e logoramenti che
costituivano le antiche sofferenze del viaggiatore vengono apprezzate come
principio di una libertà ascetica e displinata che si matura in relazione all’incontro
con il mondo.
Il viaggio come scoperta e avventura, il viaggio solitario del cavaliere medievale
definisce un nuovo concetto di individualità e libertà che, in contrapposizione al
legame con la terra e con la casa, disegnano l’immagine della persona moderna,
caratterizzata da mobilità e autonomia.
A partire dal quindicesimo e sedicesimo secolo, allora, le trasformazioni dello
spirito e della sensibilità generate dal viaggio vengono lette come risultato dello
sviluppo della capacità di osservazione del mondo, realizzando in questo modo il
passaggio dalla figura del filosofo errante dell’antichità al viaggiatore umanista del
Rinascimento e poi al viaggiatore scienziato del Seicento e Settecento.
La definizione baconiana della disciplina dell’osservazione, del resto, non è altro
che la legittimazione della pratica del viaggio rinascimentale: il Gran Tour il modo
in cui i giovani signori completano la propria educazione e formazione, attraverso
la conoscenza diretta del mondo sensibile e l’appropriazione dell’individualità
spaziale dei luoghi (Leed Eric J., La Mente del Viaggiatore, pag.81).
Dal Rinascimento in poi perciò il viaggio diventa un metodo per impadronirsi del
mondo attraverso una disciplina che genera coscienza di sé, grazie proprio alla
facoltà razionale dell’osservazione.
E il mondo, oggettivandosi nelle immagini e rappresentazioni elaborate dal
soggetto, si trasforma in uno sfondo utile per tracciare i confini della sua figura,
per perimetrare le dimensioni del suo io.
Questa trasformazione del mondo in superfici e forme si è comunque dispiegata
pienamente solo con il viaggio in epoca industriale, che fa venire meno l’intimo
rapporto tra viaggiatore e spazio percorso tipico del Gran Tour.
L’industrializzazione, la meccanizzazione delle forze motrici, in particolare la
ferrovia, pongono infatti un medium tra soggetto e oggetto, tra io e mondo.
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Tra il viaggiatore e il paesaggio si intromette la tecnica che crea un nuovo tessuto
di forme comportamentali e percettive, definendo il processo di
panoramatizzazione visiva.
Lo sguardo panoramatico infatti è uno sguardo creato dal movimento, la cui
fugacità permette non più una visione particolare, ma d’insieme, chiamata
appunto panorama.
Nel suo contesto il viaggiatore-passeggero viene addestrato a percepire la realtà
come fosse l’effetto di un montaggio accelerato di fotogrammi.
Al pari del cinema, anche la ferrovia porta le cose più vicine allo sguardo e più
vicine tra loro, e la profondità lascia il posto a una superficie dipinta
bidimensionalmente, ad una realtà paesaggistica evanescente e impressionistica.
Il mondo, allora, non più oggetto di una contemplazione statica, si trasforma in
uno spettacolo dinamico che sottrae lo spazio al suo luogo d’origine, al suo hic et
nunc, alla linearità della sua storia. Il panorama privando i luoghi della loro identità
li priva anche della loro aura consegnadoli al rapimento dello sguardo.
L’industrializzazione, e con essa l’industrializzazione del viaggio, segna dunque il
passaggio valore d’uso a quello di scambio, tanto delle merci quanto dei
paesaggi. Dà luogo al processo di fantasmatizzazione del territorio fisico in cui ciò
che prevale non è più l’esperienza del luogo ma la sua immagine.
Corrisponde in tal modo al desiderio delle masse di disporre delle cose “più da
vicino” - desiderio che la ferrovia, la fotografia, il cinema e la televisione, hanno
reso esaudibile - accompagnato appunto dall’indifferenza verso gli originali e dal
successo delle riproduzioni.
Il coronamento di questo sogno borghese di appropriazione del mondo avviene,
tuttavia, con l’invenzione del viaggio-turistico-organizzato per opera dell’inglese
Thomas Cook nel 1845.
Da questo momento in poi, infatti non si tratta più di abbandonare la propria
dimora ma di estenderla a tutto il mondo; direzione verso cui continua a muovere
anche il viaggio contemporaneo.
Siamo sulla scia della logica postmoderna che aumenta a dismisura gli effetti
implosivi dell’immagine e concentra, in nonluoghi turistici (Augè Marc, Nonluoghi )
o nei saloni di virtual holiday di recente concezione, un potere attrattivo senza
precedenti, che annulla l’effetto della distanza e diluisce il significato dello
spostamento verso un altrove ormai a portata di mano.
Tutto sembra essere qui ed ora, come le immagini che quotidianamente
implodono sugli schermi televisivi.
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Il viaggio contemporaneo, appropriandosi dello spirito dell’epoca e dei suoi canoni
spaziali, appare così come uno straordinario collage di standardizzazione e
particolarismo, di globalizzazione e localismo, nel quale la fluidità dei significanti
“ci” consente di estrapolare, nelle forme di un mero cannibalismo estetico, solo i
frammmenti che più colpiscono i “nostri” sensi.
La sua liminalità, la circolazione senza fine, il gusto di navigare fine a se stesso,
proprio dei futuristi, dei situazionisti, della letteratura americana on the road, e del
nomadismo elettronico, sembra così diventare una condizione abituale dell’uomo
contemporaneo, del turista postmoderno, ormai assiduo frequentatore di spazi di
transizione e di ri-creazione.
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1.02 corpo viaggiante
Il viaggio sostiene La Cecla è una grande forma di metempsicosi, un processo che
attraverso l’esposizione ad una condizione di “fuori luogo” e ad un sentimento di
indeterminatezza costante, permette di passare ad “altro” da sè.
Questo mutamento nello specifico si articola secondo Leed in tre fasi: partenza,
transito, arrivo; ognuna delle quali comporta delle alterazioni del tutto peculiari
nell’identità dei viaggiatori, che ne giustificano la trattazione separata.
Come abbiamo già ricordato le motivazioni che spingono al viaggio possono
essere di varia natura, ma la distinzione principale che possiamo operare è tra
viaggio come necessità o come volontà; nonostante ciò in linea di massima si può
ritenere che la triade precedente interessi entrambi i casi.
La partenza infatti rappresenta sempre il momento in cui si compie il distacco di
un membro dal corpo sociale di appartenenza, da tutta la trama di relazioni che lo
rendono identificabile. Con questa frattura l’attore sociale diviene un’individualità
autonoma, che mantiene legami virtuali col luogo attraverso il seguito di uomini o il
complesso di cose che si porta appresso.
Con l’istituzione del corpo viaggiante, l’organismo sociale diviene trasportabile,
rendendosi utile per affrontare i pericoli e le incertezze del viaggio, o anche più
semplicemente i momenti di solitudine o nostalgia.
Nello specifico però questo processo di incorporazione è importante perché
delinea i contorni dell’identità e permette, come nel caso ad esempio delle
spedizioni armate, una sua possibile espansione nello spazio (territori) e nel tempo
(memoria), che si realizza nel corso del transito o con l’arrivo.
Il topos del viaggio eroico, nella sua forma circolare, infatti attribuisce
un’importanza del tutto peculiare all’estensione geografica e temporale
dell’identità, in quanto fama, nome e reputazione, perché è l’intera società in
questo modo ad essere trasformata in “corpo viaggiante”.
Si pensi a questo proposito alla figura medievale del cavaliere errante, che
considera la mobilità territoriale come un mezzo per ottenere mobilità sociale.
Le gesta eroiche rappresentano infatti l’unica possibilità che gli viene offerta da
una società rigidamente divisa e gerarchizzata di intraprendere un’ascesa sociale;
e per questo motivo sono arditamente ricercate.
Il viaggio determina perciò una mutazione del rapporto col luogo, fungendo come
in questo caso da forma di nobilitazione (è evidente che questa considerazione
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non vale solo per l’ordine dei cavalieri, ma anche per quello dei mercanti e della
nobiltà).
E’ utile ricordare a questo proposito però che la mobilità sociale è
fondamentalmente un “premio” per aver sopportato le sofferenze, i patimenti e le
riduzioni comportati dall’allontanamento e dal continuo riposizionamento che la
condizione errabonda richiede.
Attraverso il transito infatti si verificano trasformazioni assai profonde che
coinvolgono la mente, il corpo e lo spirito del viaggiatore e che lo qualificano
all’interno di una società territorializzata come una persona fuori dal comune,
degna di essere ascoltata o di fungere da modello.
Il transito nello specifico è un evento qualitativamente diverso sia dalla partenza
che dall’arrivo, perché è un’esperienza di puro movimento, attraverso i confini e
nello spazio, che esclude qualsiasi riferimento ai legami col luogo e interessa
esclusivamente chi lo compie.
Il movimento in particolare, in questa fase del viaggio, oltre a determinare
alterazioni fisiche, diviene anche mezzo di percezione, di un mondo oggettivato in
immagini e di una identità in costruzione.
Esso infatti promuove nel viaggiatore la coscienza della propria natura di
spettatore e osservatore di un mondo passante, che in quanto tale si dà solo
come successione di vedute più o meno articolate a seconda della velocità dello
spostamento.
Nello specifico però l’osservazione permette di enucleare le caratteristiche
persistenti e formali di alcuni oggetti, che, estrapolati dai contesti particolari,
acquisiscono una identità e una validità concettuale generale, indipendentemente
dagli accidenti delle loro apparenze (Leed Eric J., La Mente del Viaggiatore,
pag.93).
Il viaggio dunque si configura come un’attività di costante mediazione, confronto,
e paragone che acquisisce una scientificità nella misura in cui promuove la
ricerca di simiglianze, differenze, variazioni e persistenze in contesti alieni gli uni
rispetto agli altri.
Non a caso, nota Simmel, l’”obbiettività” dell’estraneo nasce proprio dall’esigenza
di una riflessione comparativa e dalla capacità di astrazione dei rapporti dai loro
termini locali.
Per cogliere però le relazioni che interessano i medesimi oggetti in contesti
differenti bisogna arrestare il movimento, e con esso quello stato di flusso
attraverso il quale l’io e il mondo si uniscono e rimescolano l’uno nell’altro. Si
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procede in questo modo ad un distanziamento dalla realtà, che torna a risolversi
nei suoi elementi separati.
L’interruzione del movimento in molti casi può coincidere con l’arrivo, processo
lento di una nuova identificazione col luogo, che si realizza in primis con
l’attraversamento del confine, sul quale si gioca la possibilità di
inclusione/incorporamento o di esclusione dell’estraneo.
Posto infatti che il luogo si risolve nei rapporti di identità che lo sostanziano,
l’ingresso al suo interno di un’identità aliena determina processi di riflessione che
scompaginano l’ordine pre-esistente, che possono in quanto tali essere rifiutati o
accolti.
Il confine diviene il simbolo non solo della differenza, ma anche quella soglia in cui
si gioca il desiderio o il rifiuto della contaminazione, e nel contempo l’identità dello
straniero, che viene definita in relazione alle modalità del suo ingresso: violento o
pacifico.
Se il viaggiatore infatti entra nel luogo nella maniera giusta egli è fonte di potenza,
mentre se entra in maniera impropria è un inquininatore, un invasore.
Il passaggio al nuovo luogo può avvenire per mezzo di una battaglia o tramite
un’incorporazione di natura sessuale o rituale.
Esiste però anche la possibilità che allo straniero venga negata l’ospitalità; egli
diviene in questo caso figura marginale, da temere più che da ammirare, il cui
andare è simile al vagare.
E del viaggio rimane solo il carattere liminale, il porsi tra ordini istituiti, luoghi,
comunità, legami (Fiorani Eleonora, La Nuova Condizione di Vita, pag.62), il vivere
della loro assenza.
La frontiera diviene così il nuovo spazio da abitare, conquistare, pensare,
condividere nella comunione dell’esclusione, articolando e costruendo nuove
pratiche comunicative e identità, anche se instabili.
Il viaggio volontario infatti non è la forma caratteristica della stragrande
maggioranza dei viaggi umani, compiuti da: nomadi, esuli, profughi, prigionieri,
schiavi, fuggiaschi, e contrassegnati da partenze forzate che nella maggior parte
dei casi non contemplano ritorno.
In questo caso ad essere vivi sono il sentimento di non appartenenza assoluta, la
sensazione di non esserci, piuttosto che la spinta verso l’affermazione
dell’identità.
Nello specifico l’estraniazione e l’emarginazione che contraddistinguono la figura
del migrante oggi non sono propri del viaggio e non generano la figura del
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viaggiatore. Egli è piuttosto il più delle volte l’escluso, il confinato, non è l’Ulisse
vagabondo della mitologia, di cui sono state narrate le gesta eroiche, ma il nulla, il
non essere, ai bordi di ogni società, e su cui grava il peso dell’”inciviltà”.
E’ colui che nell’era della globalizzazione, in cui la geografia diviene democratica
solo per pochi, viene fermato alle frontiere, o che sosta per giorni negli aeroporti in
attesa di un visto d’ingresso, colui che abita le zone interstiziali dello spazio
urbano, dove prendono corpo pratiche creole e si verificano nuove interferenze tra
culture.
Confini e frontiere infatti nella moderna società di viaggiatori si moltiplicano,
mutando di statuto e di significato.
I confini non sono più fonte di potenza e differenza, ma si riducono a barriere che
permettono o negano l’accesso.
Nella modernità liquida, nella mobilità permanente degli uomini e delle cose
l’accesso sostituisce le pratiche dell’ingresso, risolvendo il luogo in un locale,
assegnandovi altri valori e sensi. Si parla di spazi piuttosto che di luoghi, ritagli di
territorio da difendere per rimarcare delle identità assenti, o che neccessitano di
essere temporaneamente ricostruite.
È così dunque che nell’era del consumo e del post-turismo, dove pochi possono
permettersi il lusso di glissare la geografia saltellando tra un nodo e l’altro di una
rete che connette nonluoghi, il viaggio perde la sua dimensione eroica, non
configurandosi più come un modo per scegliere l’immortalità iscrivendosi nello
spazio della terra e nel tempo della memoria, ma trasformandosi in un momento di
evasione e di intrattenimento che riduce il pensiero della differenza alla stregua
della ricerca di sempre nuove e diverse esperienze.
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1.03 maschere da viaggio
Viaggiare è un modo per mutare, un vero e proprio “mestiere del cambiamento di
forma”, un metodo per modificare la propria posizione sociale, acquisire fama,
onori e ricchezze.
La trasformazione dell’individuo sociale nel viaggio è infatti da tempo cosa nota;
tanto che il diventare qualcun altro per mezzo del transito territoriale definisce uno
stereotipo così diffuso da non essere neppure seriamente preso in
considerazione come processo di mutamento reale del carattere individuale.
Nello specifico la ovvia familiarità delle trasformazioni sociali che il viaggio
comporta induce a porre in relazione mobilità territoriale e mobilità sociale, intesa
come movimento da un luogo sociale all’altro.
Analizzare le trasformazioni dell’individuo sociale in viaggio, dunque, significa
esaminare le origini dell’identità, i modi in cui i soggetti si definiscono e si
manifestano reciprocamente attraverso mutui riconoscimenti, classificazioni,
riflessioni, e identificazioni.
L’esistenza sociale e le sue principali categorie: gruppo etnico, sesso, classe,
etc…, sono il prodotto di osservazioni compiute da “altri” siano essi “familiari” o
sconosciuti.
Come osserva Leed: “se le trasformazioni intellettuali del viaggio sono un prodotto
del modo in cui la mobilità rendono il viaggiatore un vero e proprio “osservatore”,
le trasformazioni sociali del transito sono una conseguenza del fatto che il
viaggiatore viene osservato da un pubblico variabile di testimoni che si preoccupa
attivamente di chiarire le sue promesse e il pericolo che può rappresentare” (Leed
Eric J., La Mente del Viaggiatore, p.252)
Le trasformazioni dell’individuo sociale che si compiono durante il viaggio dunque
derivano da un “terreno di riconoscimenti che si sposta”, ossia da progressivi atti
di identificazione che inducono a pensare che l’identità si risolva di fatto in un
gioco di “specchi riflessi”, che mutando al passaggio la trasformano.
Così con la partenza si può abbandonare un’identità avventurandosi verso
l’acquisizione di nuove, in relazione agli incontri che il viaggio promuove.
E a partire dai riconoscimenti e dalle osservazioni di altri si creano quelle categorie
del personaggio, quelle semplificazioni, rigidità, maschere e veli che costituiscono
la realtà e l’essenza dell’individuo sociale.
Per questo motivo siamo indotti a pensare che l’identità non nasca dal nulla bensì
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sia riconducibile di fatto alla dimensione dell’essere in relazione.
Del resto il concetto di un “io interiore” autentico e naturale, è una creazione del
Settecento e del Romanticismo, mentre più anticamente l’identità della persona
veniva pensata come maschera (dal latino: persona = maschera).
Avere una maschera o persona infatti, come ricorda Marcell Mauss in un saggio
sul concetto di persona nelle culture occidentali, significava di fatto avere un
nome, essere qualcuno.
E proprio questo essere qualcuno può essere plasmato o mutare in relazione al
viaggio, poiché vengono mancare quei riferimenti stabili che quotidianamente lo
definiscono.
Viaggiare allora significa giocare con i ruoli e con le posizioni, e per questo il
mestiere dell’attore è da tempo itinerante.
Del resto oggi nel campo della sociologia, per attore si intende quello sociale;
mentre nel campo dello spettacolo e della comunicazione, si intende colui che
interpreta un personaggio, il quale reale o fittizio che sia, può esibire gradi più o
meno intensi di analogia con gli attori sociali.
La differenza consta piuttosto nel fatto che, nel primo caso, l’identità
rappresentata dal soggetto suole definirsi “autentica” (per quanto si sia andati
riconoscendo sempre di più che l’attore sociale, tanto nella sua dimensione
individuale , quanto nelle sue dimensioni di gruppo o collettive ricorre assai
spesso se non sempre a finzioni), mentre nel secondo caso si pensa che essa
venga “abbandonata” per “vestire i panni di qualcun altro” entro la cornice fornita
dalla rappresentazione (per quanto si sappia che qualcosa del sé sociale –
memoria, gusto, psicologia, cultura – resti, ed anzi venga spesso sfruttato
nell’esercizio stesso della recita).
Queste considerazioni che sono il prodotto della contemporaneità e delle
riflessioni sulla moderna “società dello spettacolo”, però sono importanti per
comprendere come il discorso sull’identità di fatto storicamente sia stato
alternativamente ricondotto ad un carattere di immutabilità o di fluidità.
Si ricorda a questo proposito come già James Boswell affrontava il problema
ponendo in stretta connessione la sua professione di attore e la sua pratica di
viaggiatore. Boswell infatti affermando che “nessuno ha di sé stesso l’immagine
che gli altri hanno di lui”, comprende il potere che le riflessioni dell’altro e della
società hanno di plasmare, modificare e deformare l’identità.
L’esperienza di vari pubblici in viaggio lo spingono a mutare continuamente volto
e a partecipare consapevolmente, osservandosi, a quei processi di reciproca
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riflessione che si stabiliscono nei rapporti umani e che comportano l’assunzione di
ruoli e la recita di parti.
Egli infatti si rifà ad una concezione più antica dell’io, come cosa esteriore e
visibile che si genera sulle superfici sociali in relazione a progressivi
mascheramenti.
Per questo motivo viene in parte disprezzato dai moderni che pongono in
relazione il concetto di persona con quello di identità “reale” a partire dalla
“credenza” della presenza di una coscienza interiore, invisibile e immutabile che si
presume la caratterizzi.
Nonostante questa opinione però il viaggio dimostra di essere il principale vettore
delle trasformazioni sia individuali che collettive.
Il gruppo in viaggio infatti si configura come società itinerante, al cui interno i
membri possono acquisire posizioni sociali e identità diverse da quelle rivestite o
assunte nel luogo d’origine.
L’esperienza coloniale a questo proposito è stata, per generazioni di emigranti
dalle coste dell’Europa, un’opportunità di elevazione di status sociale ottenuta
attraverso il transito.
Per cui i mutamenti d’identità, essendo un prodotto di apparenze e della loro
manipolazione, hanno permesso agli europei di presentarsi ad un pubblico di altri,
membri di gruppi etnici appenna scoperti e sottomessi, come una “stirpe nobile”
(Pyrard François, in Leed Eric J., La Mente del Viaggiatore, pag.259).
La partenza in questo caso ha cancellato un passato sociale, e il transito ha
permesso un processo di ri-identificazione che ha comportato l’acquisizione di un
nuovo rango.
A questa stagione di transito storico inoltre possiamo far risalire l’origine di una
nuova immagine d’identità, di una nuova persona, nel senso originale di
maschera, quella dell’”uomo bianco”, in antitesi con la “maschera più scura” delle
popolazioni colonizzate e degli schiavi deportati dall’Africa.
Le identità infatti sono immagini che derivano dagli scambi e rispecchiamenti tra
individualità e alterità, e possono divenire fluide o molteplici nella misura in cui si
fondano sulla trasformazione delle apparenze sensibili.
Questa idea che la realtà sociale derivi dalle apparenze e si trasformi con la loro
manipolazione però non è affatto nuova; essa al contrario viene fatta risalire ad
un’intuizione di Erving Goffman, il quale sostiene la derivazione sociale
dell’identità individuale e considera il suo mutamento in relazione al reiserimento
in vari pubblici o contesti.
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Va detto comunque che questa osservazione è stata ovvia per generazioni di
viaggiatori che col cambiamento di luogo si sono naturalmente predisposti ad una
dialettica di rispecchiamenti costruita sulla base di identificazioni e
differenziazioni.
La realtà sociale infatti ha origine nella comunicazione, nella manipolazione di
simboli e immagini di identità (Leed Eric J., La Mente del Viaggiatore, pag.264).
E le posizioni sociali, i ranghi, le dimensioni fisse della persona sociale, la classe, il
sesso, il gruppo etnico, poggiano su fondamenta fatte di tutte quelle cose che si
classificano come sovrastruttura e cultura che si sono costruite in relazione alla
dialettica tra mobilità e stanzialità.
Ora però appare evidente che il problema non consti più nello stabilire come le
identità vengano cambiate per mezzo della mobilità bensì nel comprendere
piuttosto come esse vengano limitate e fissate all’interno delle società umane per
far sorgere la struttura sociale.
La fissazione dell’identità per mezzo di immagini è il prodotto della perpetuazione
di rapporti sociali e culturali che determinano la prescrizione di comportamenti
specifici che generano fonti di potere sociale sulle quali si può stabilmente
contare.
Tutte le società territorializzate infatti, reggendosi su un’infrastruttura di tipi e
stereotipi, proprongono un concetto di identità fissa, unica e continua, piuttosto
che mutevole, molteplice, e discontinua.
E per questo motivo il viaggio viene considerato un fattore di sovversione di
quell’ordine sociale che si è sedimentato e cristallizato nel tempo in relazione allo
stato sessile ed ad un pensiero confinato.
L’ideale di ordine sociale, proposto per la prima volta da Platone, è caratterizzato
dalla corrispondenza tra il modo in cui un individuo è visto da una moltitudine di
altri a lui familiari e il modo in cui lui stesso si vede, ossia dall’annullamento di
quello scarto, tra l’immagine che gli altri hanno di un uomo e quella che lui stesso
ha di sé, in cui risiedono le libertà sociali del viaggio.
Quest’ultimo invece richiedendo l’adattamento a situazioni varie fa della
dissimulazione una questione di sopravvivenza che può essere fonte di piacere o
anche di sofferenza morale e senso di colpa per il viaggiatore, che comunque
raramente riesce ad allontanarsi completamente dalle linee guida di un pensiero
formatosi in relazione alla condizione stanziale.
Le dissimulazioni del viaggio sono considerate patologiche dai responsabili del
mantenimento della salute e della virtù sociali.
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Le identità molteplici, la confusione dei ruoli, le angosce legate allo status, la
superficialità, la reputazione di attore e “spirito libero” con le quali si identifica la
figura del viaggiatore o più propriamente dell’estraneo, sono infatti oggetto di
sospetto e paura per chi si ancora alla “pesantezza” della terra. Ma allo stesso
tempo sono oggetto anche di ammirazione e desiderio perché testimoniano la
possibilità di un cambiamento che non può avvenire dentro la realtà frustra del
confine.
E’ dunque proprio il carattere sovversivo del viaggio a motivare la sua
organizzazione e istituzionalizzazione all’interno delle società stabili.
In particolare le istituzionalizzazioni del commercio di quella realtà impalpabile che
è lo status sociale, trova una manifestazione esemplare nel “commercio di
prestigio”, attività che interessa ogni società territorializzata.
Il feticismo delle merci (che sono cristallizzazioni di valori sociali) non a caso è
rintracciabile tanto alle isole Trombiand quanto nei mercati capitalistici
contemporanei, dove il consumo diventa il segno distintivo delle identità.
Silverstone a questo proposito rifacendosi al pensiero di Jean Baudrillard e Pierre
Bordieu, afferma che “attraverso i nostri oggetti parliamo a noi stessi e fra di noi,
dichiarando il nostro status e la nostra distinzione, e delinenando in modo attivo e
creativo una mappa per la negoziazione della vita quotidiana” (Zanacchi Adriano,
Pubblicità: Effetti Collaterali, pag.137).
Nella moderna società globale e capitalista infatti viaggio e consumo acquisiscono
un’inedita centralità, tanto da divenire esperienze in grado di fondare e
determinare la vita di una comunità estesa, che travalica i confini nazionali e
poggia su legami effimeri di natura extra-territoriale, contrassegnati da una
sensibilità intensa e accelerata.
La società di viaggiatori contemporanea come le passate società viaggianti è
formata da segmenti che si scindono in unità più piccole o si fondono in gruppi
più ampi, in un processo incessante di aggregazione e disaggregazione che si
incanala in aeroporti, vie urbane, stazioni di pullman, aree di sosta, sistemi
stradali, templi del consumo, ed enclave turistiche.
Queste temporanee riunioni recuperano la ritualità della festa propria dei
pellegrinaggi religiosi, con la differenza che alla celebrazione divina sostituiscono
quella consumistica.
La mancanza di impegno rintracciabile in queste aggregazioni puntuali è una
realtà strutturale propria della società dei viaggiatori, che come tutte le società
viaggianti vive sul disancoramento e sull’estrema fluidità delle identità e dei legami
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sociali. L’identità infatti viene raggiunta come in passato non per mezzo del lavoro
o della fatica, ma mediante il consumo, il tempo libero e il commercio di prestigio,
ora su scala globale.
Ed è in virtù di ciò che si può dire che il nostro make up esistenziale sia costituito
da tutto ciò che consumiamo, o ci portiamo appresso o addosso.
Siamo insomma “ancor più dei nostri antenati, ciò che mangiamo, beviamo,
adoperiamo, guidiamo, indossiamo. Siamo anche il luogo da cui proveniamo,
dove ci troviamo, dove siamo diretti” (Leed Eric J., La Mente del Viaggiatore,
p.351).
Le nostre valigie sono lo specchio di quante immagini di noi vogliamo portarci
appresso. Di noi con sullo sfondo luoghi familiari e stranieri; e di noi che torniamo
avendo abbandonato o regalato oggetti, che cominciano altri percorsi, intrecciano
nuove relazioni affettive e comunicative, ispirano altri sogni e movimenti.