Nel superamento dell’era economica e fors’anche di quella tecnologica, in una
società sempre più aperta e “globalizzante” in interscambio informativo sempre più
intenso, la costruzione del capitale sociale non può prescindere dal prendere in seria
considerazione, anche a livello organizzativo produttivo, l’attivazione di strategie
idonee e non “invasive”, tese al raggiungimento della qualità nei prodotti, e in
special modo nei servizi. Perché da questo momento in poi saranno i buoni servizi a
creare nuovi prodotti e a generare l’input per nuova occupazione.
In un’era in cui i confini tra le innumerevoli organizzazioni diventano sempre
più sfumati (perché in continua espansione e fluttuazione), tendendo a inglobare gli
spazi non organizzati, l’individuo, si trova a passare e a vivere in realtà
organizzative diverse e sempre più numerose e che, catalizzando la sua dimensione
“fenotipica”, può contribuire con idee e comportamenti:
a) a creare un ambiente intersistemico che sviluppi una cultura produttiva
aziendale;
b) a perseguire una “progettualità cooperativa”, così che la sopravvivenza
non sia demandato solo all’aspetto “transazionale” delle relazioni, ma si
adoperi ad attivare un processo che veda coinvolte tutte le parti sociali nel
perseguire una “mission” aziendale che possa identificare i sistemi
(individuo e azienda) nel “sistema”.
La migliore integrazione possibile fra le dimensioni (organica, funzionale e
relazionale) nelle fasi decisionali, attuate dalla struttura gerarchica nelle varie
organizzazioni, può portare i micro-sistemi aziendali ad autoriverberarsi nel
macrosistema.
Prima osservazione, primo problema: Interpretazione semantica di “relazioni
industriali e gestione delle risorse umane”.
Rilevato l’esistenza di uno schema mentale riguardo a “gestione delle risorse
umane”, facendo un collegamento immediato ai processi organizzativi presente in
ogni organizzazione aziendale, rimane da decodificare “relazioni industriali” e sono
riuscito a trovare che la letteratura di autori come “Flanders e Fox” 1969 e di “Bain
e Clegg” 1974 sono concordi nel definirle: « I) “l’insieme delle norme che
regolamentano l’impiego dei lavoratori” e che analizzano i “rapporti collettivi di
lavoro”; II) utilizzo di metodi di contrattazioni collettive attraverso cui si
stabiliscono, si interpretano, si applicano e si modificano le norme; III) Gli attori
che scelgono e accettano i metodi, sono: organizzazioni, rappresentanze dei
lavoratori, imprenditori, stato e agenzie istituzionali, che interagiscono fra di loro ».
Con ciò, ho evinto, abbiamo stabilito il processo di interazioni di attori tramite
Relazioni regolamentate da norme stabilite da metodi. Nel processo complessivo,
quindi, si possono intravedere differenti gradi di cooperazione e conflittualità, di
convergenza ed antagonismo.
Nella stesura di una relazione o di un libro, è costume che, nell’introduzione
venga illustrato il percorso e specificati gli argomenti oggetto di analisi, ed ove si
effettui anche un’indagine empirica, questa venga raccordato al quadro teorico
oggetto della ricerca.
A volte accade, e questa è una, che tutto ciò venga effettuato alla fine del
“lavoro”; da una parte, per non delimitare e condizionare troppo il campo teorico,
dall’altra, perchè è proprio alla fine del percorso che ci si rende conto da dove si è
partiti, dove si è arrivato e dove si voleva arrivare. Infine, oltretutto ciò accade,
perchè qualche amico e/o qualcuno che si interessa al “tuo percorso” ti fa capire che
lo devi fare, se vuoi che altri siano stimolati a seguire il discorso che vuoi proporre;
nel mio caso, in questo caso, è stato il Prof. Cocozza, il mio professore.
Oggi, quindi, non si tratta solo di optare tra un mercato lasciato incostudito e uno
Stato burocratico. Il rilancio dello stato sociale esige uno Stato diverso e un mercato
diverso.
Dopo Keynes l’oscillazione periodica di fase di crescita e momenti di contrazione
non conosce più i costi drammatici d’un tempo perchè la presenza di istituti pubblici
consente una ricaduta morbida delle battute che la congiuntura internazionale opera.
Rostow ha scritto: «la mia tesi centrale è che i sistemi capitalisti sono sempre
consistiti in una complessa e contrastata collaborazione tra settore pubblico e
privato»
1
; (con l’esperienza storica dello stato sociale vengono sensibilmente
ridefiniti i confini tra stato e società). Negli anni ottanta la “regolazione pubblica”,
pur in crisi, non scompare. Il riaggiustamento economico che si è avuto non si è
basato dappertutto su un semplice ritorno al libero operare del mercato. La densità
istituzionale delle società complesse non può essere semplificata con processi
autoritativi adottati in maniera unilaterale. I processi in atto, infatti, sembrano
transitare da una concertazione con obiettivi macronazionali ad una regolazione delle
attività in ambito micro-sociale, e se non si assiste alla completa eclissi delle forme di
regolazione pubblica inaugurate con lo stato sociale, non si registra neanche la ripresa
del neocorporativismo. Non posso comunque, da parte mia, non denunciare l’assoluta
irresponsabilità in cui in Italia si affrontano le politiche a favore della famiglia. A
parte piccoli e grandi riferimenti alla famiglia sparsi in numero sempre crescente di
leggi e norme, non esiste ancora ad oggi in Italia un quadro normativo
sufficientemente ampio a tutela della famiglia. Io penso che si potrebbe fare molto
nella politica dei redditi, se realmente applicata a salvaguardia del nucleo familiare e
non semplicemente orientata sulle singole persone fisiche e/o giuridiche. Nel nostro
paese la difesa sociale ha sempre preso in considerazione le categorie e mai la
famiglia, e secondo me è tempo di cambiare. Molti paesi Europei, primi fra tutti la
Francia, hanno aumentato l’assegno per i figli a carico, hanno introdotto varie forme
di premio, anche fiscale per le famiglie che si prendono cura dei figli, perchè la
ripresa della fertilità è considerata una condizione indispensabile per l’equilibrio di
lungo periodo del welfare. A proposito, ultimamente è emerso un nuovo fenomeno
sociale, catalizzato dai media e inserito come il prezzemolo in ogni dove: indagini,
sondaggi o quant’altro, ed è quello “dell’inflazione percepita”. Ora l’inflazione non è
più solo vera, reale, tangibile ma è anche “percepita”. Il fenomeno non è solo italiano
ma investe tutta l’Europa e ha a che fare con l’arrivo e il consolidarsi dell’euro. La
denuncia è della BCE, la Banca centrale europea e avverte che il livello percepito è ai
livelli più alti ma che presto calerà.
1
cfr. M. Prospero, Il governo della deindustrializzazione “la crisi come ristrutturazione”, Metis/AP-Quaderni del
ponte/Chieti (1994) –pag. 19-
Per quanto riguarda l’Italia l’Istat ha detto che l’inflazione percepita è al 6% contro il
2.6 reale (più del doppio). La notizia ha suscitato innumerevoli polemiche perchè, da
mesi, i consumatori sostengono che il carovita è più alto delle statistiche ufficiali. Poi
il presidente dell’Istat fa sapere che questo dato è solo “una sensazione” e dunque
“non fa testo e non incide sul bilancio delle famiglie”. La Bce viceversa assegna
all’inflazione percepita un ruolo centrale, catalogandola come un vero e proprio
“indicatore” (come del resto fa la stessa Commissione Ue) che oltrettutto “ha destato
forte interesse a partire dall’introduzione dell’euro”. La distinzione tra “i due tipi di
inflazione”, evidentemente, non è solo semantica e in fondo, forse esiste una
discrepanza effettiva sul reale livello del carovita
Ormai la Costituzione materiale europea viaggia da sola (anche senza specifiche
formalizzazioni), e il potere sovranazionale della Comunità è stato fondato,
abbisogna solo di rifiniture e di essere applicato.
Ai Diritti degli Stati si è sovrapposto il Diritto comunitario, determinando
l’accelerazione del processo di convergenza verso forme comuni ed uniformi di
regolazione dell’economia. A livello economico la Costituzione nazionale si integra
con quella europea ed è condivisa da tutti gli Stati membri dell’unione. Se, allora, è la
Comunità ad assorbire la “sovranità economica”, la presenza di eventuali indirizzi
generali (nei vari Stati) contrastanti con quelli europei diventano sempre più
irrazionali e delegittimati. Mentre, invece, si vanno espandendo i Pubblici poteri a
vari livelli, settoriali e territoriali, come per esempio le Regioni. Organi, questi ultimi,
fortemente investiti dalla “grande riforma” istituzionale (Nazionale/Europea) e che li
trova un po’ divisi, talora sconcertati, su alcuni suoi aspetti. Tanto che, in Italia, il
P.d.R. C. A. Ciampi ritiene di lanciare un appello al dialogo, evitando scontri e
provocazioni, sapendo che dai livelli istituzionali più bassi fino a quelli più alti «il
cambiamento nasce dalla pratica del consenso, dal dialogo, non dalla provocazione e
dallo scontro». Richiama il ruolo dell’Europa unita nella promozione dello sviluppo
regionale e dello Stato come elemento di regolazione e di agevolazione dello
sviluppo, ma spiega anche, che l’iniziativa parta dalla società civile, dagli
imprenditori. Tocca a loro inventare ed elaborare proposte e tocca alle istituzioni
facilitarne la realizzazione. Tutto nel quadro di un’alleanza di sistema, una regia a
più voci che coinvolga pubblico e privato, capitale di impresa e lavoro.
lo sconquasso del Patto di stabilità sembra aver fatto saltare, oltre alle regole che
custodivano la moneta unica, anche i delicati fili delle alleanze e delle convenienze
politiche, sovrapponendo il tavolo degli accordi sulla Costituzione europea (che
sembra molto difficile che si realizzi nel breve periodo) a quello della definizione di
una nuova disciplina di bilancio, la cui definizione appare ormai urgente, e facendole
diventare interconnesse fra di loro - . Sul nostro versante, nel delineare il quadro di
finanza pubblica italiana, un “Rapporto CNEL sulle previsioni macroeconomiche di
medio termine” (commissionato a Cer – Prometeia – Ref, per la prima volta insieme)
evidenzia un quadro ambiguo e incerto, nel quale si prevede per i prossime tre anni
un deficit-Pil sopra il 3% (fuori dai parametri del patto di stabilità), e uno stop verso
la riduzione del debito pubblico. Nella previsione dei tre istituti, si ipotizza,
nonostante la manovra economica, un’ulteriore innalzamento dell’indebitamento.
La perdita di potere d’acquisto continua, quindi, a mordere i bilanci familiari.
L’Eurispes rileva che l’impoverimento effettivo degli italiani è dovuto alla frenata del
PIL, al boom dei prezzi e al “tracollo” dei BOT, che ha tagliato i redditi dell’1,3%.
Poi, c’è ancora da considerare, l’emorragia innescata dalle perdite della Borsa.
Quindi italiani più poveri del 3,1%, e per quanto riguarda l’Occupazione, sempre
secondo l’Eurispes, l’aumento di occupazione registrato a luglio può essere spiegato
soltanto con l’emersione del lavoro nero degli immigrati.
Esiste, a mio avviso, un’altro fenomeno sociale a cui si presta troppo poca
attenzione, e che si va evidenziando sempre più, che è quello della “trappola dei due
redditi”, cioè la storia di una grande illusione di un’altro Paese, quello americano, che
a nostra volta stiamo importando (quella delle donne americane entrate in massa sul
mercato del lavoro). Queste “madri della classe media” sono entrate nella forza
lavoro per dare alle proprie famiglie una marcia in più, un benessere aggiuntivo.
Invece sono intrappolate nel mondo del lavoro, la loro attività diviene indispensabile
perchè la famiglia arrivi semplicemente a fine mese. In un’epoca in cui le donne
laureate e attive raggiungono livelli record, le loro famiglie sopravvivono “sull’orlo
del baratro” (negli Stati uniti falliscono anche famiglie e singoli non solo le aziende).
Basta che venga meno uno dei due stipendi su cui è stato dimensionato il tenore di
vita, e tutto è perduto, anche l’onore Molti matrimoni non sopravvivono;
aggiungendo debiti a debiti, i padri divorziati che si risposano e hanno altri figli,
cumulano nuovi oneri oltre ai doveri degli alimenti. Diventano recidivi della
bancarotta e schiavi delle banche per sempre.
Possiamo, quindi, concludere dicendo che nonostante il secondo stipendio della
donna le famiglie non hanno il benessere. Tutto ciò considerato, sull’aspetto
“finanziario”, mi viene di fare una riflessione, riguardo “l’affidarsi troppo alle
banche” (sia da parte delle aziende che dei singoli lavoratori) per vivere e per
sopravvivere. Le “banche” possono davvero influenzare e determinare lo sviluppo
economico di un paese, ma possono determinare anche le sorti economiche dei
singoli lavoratori -risparmiatori, investitori, alimentatori della domanda-.
Qualche studioso, interrogandosi sulle sorti della democrazia, si incentra
sull’incapacità del capitalismo lasciato a briglie sciolte di conciliare i piani a breve
termine con le necessità di lungo periodo, quali l’istruzione, la protezione ambientale,
il recupero delle città. Questi affermano che «le prospettive a lungo termine
richiedono una leadership pubblica e un governo positivo». Oggi, infatti, si va
delineando una vistosa sproporzione tra il crescente potere della finanza globale e la
politica ancora ancorata a livello locale; e questa rete di dipendenze, che va sempre
più assumendo dimensioni planetarie, non è affiancata da un codice giuridico
applicabile a livello altrettanto globale, nè da una rete globale di istituzioni politiche e
giuridiche.
Il manager può gestire le crisi? L’emergenza colpisce tutti: dipendenti, clienti,
azionisti, fornitori. Ma quando diventa dominio pubblico avviene un salto di livello:
l’emergenza si trasforma in stato di crisi. Una condizione che colpisce l’impresa dove
fa più male, nella comunicazione della sua immagine, dei suoi prodotti, dei valori
fino a minacciare la sua stessa esistenza. Occorre dunque preparare i vertici
dell’azienda a prevenire le emergenze e a gestire adeguatamente la comunicazione in
stato di crisi. Il lavoro del “risk crisis manager” si svolge solitamente per consulenza.
E’ una specializzazione delle relazioni pubbliche che in Italia conta pochi
professionisti e un mercato sempre più ricco di opportunità. La sua origine è legata ad
un serie di eventi shock che hanno imposto agli studiosi e agli operatori della
comunicazione aziendale e pubblica il problema di affrontare scientificamente gli
eventi critici.
Nella diatriba politica, tra fautori dello “Statalismo” e fautori “Liberisti”, se
vogliamo, anche nel gioco di potere tra pubblico e privato, (su chi debba determinare
le politiche di intervento per uno sviluppo economico “sostenibile”) si inseriscono le
norme; perchè comunque non si può prescindere da un sistema giuridico di norme
condivise (siano esse dettate dal “Pubblico” o dal “Privato”). Quindi, probabilmente,
sbagliano entrambi i “fautori” (sia “Neo-Statalisti” che “Neo-Liberisti”).
Secondo me, bisognerebbe applicare i principi e gli orientamenti già dettati dalla
riforma del Titolo quinto, parte seconda, della Costituzione, riguardo il principio di
“Sussidiarietà”. Sussidiarietà orizzontale, però, delle Istituzioni pubbliche verso il
privato, il cittadino, le associazioni, le organizzazioni intermedie. Così da permettere
un recupero di partecipazione “dal basso” alle politiche di sviluppo economico, che
attivi un processo “flessivo” della spesa (perchè anche la “Ridistribuzione delle
risorse” e la “Deregulation” è una spesa –da far rientrare-). Sussidiarietà, quindi, che
recuperi partecipazione per una (definita da -Cassese-) «Amministrazione
condivisa»; dove il ruolo dello Stato è quello di limitarsi a promuovere e vigilare, e
lasciare l’intervento produttivo ai privati (eventualmente, intervenire solo in caso di
inadeguatezza dell’azione privata). Lo Stato promuove, il privato produce: per
salvaguardare anche le categorie più deboli, senza esasperare la spesa e la pressione
fiscale sulle imprese, senza fare assistenzialismo.
Il problema, e la crisi, dello Stato sociale, comunque, non si risolve solo arretrando il
campo di azione Statale (o Regionale) nei confronti del libero mercato.
Perchè lo stato sociale è ancora, e sarà sempre, legato indissolubilmente
all’economia, a dei presupposti economici di base.
L’investimento in ricerca e formazione diventa l’interesse immediato per governare
la “globalizzazione” e la estrema varietà dei mercati e per orientare l’innovazione. La
sfera della formazione, effettuata dalle aziende per gli “occupati” e dalle istituzioni
per i “disoccupati” è strettamente interconnessa a quella del mercato del lavoro fino
ad integrarsi in un unico processo, che riesca a garantire contemporaneamente
sviluppo aziendale e tendenza alla piena occupazione (occupazione e rioccupazione).
Il governo della deindustrializzazione indica la prospettiva di investimenti a lungo
termine (a favore della risorsa sapere e formazione) e interventi nel breve periodo
(contratti di solidarietà, ammortizzatori sociali, riduzione del tempo di lavoro) per
gestire l’impatto di transizione. Nel delicato passaggio dallo Stato proprietario allo
Stato regolatore, è importante il riferimento al “lungo periodo”, per sviluppare
l’innovazione, e una “presenza pubblica” di qualità (nella scuola, nella ricerca e
nell’informazione), perchè il prodotto più richiesto oggi sul mercato non è più una
materia prima, ne una macchina, bensì una personalità. I cosiddetti investimenti in
capitale umano non sono una gentile concessione delle relazioni economiche, ma un
qualcosa di produttivo, la disponibilità di una forza lavoro più istruita, duttile, capace
di prestazioni flessibili ed altamente specializzate. La debole propensione
dell’impresa italiana a investire in ricerca e sviluppo, in formazione (non limitata solo
ai quadri alti dell’azienda), denuncia un persistente ritardo nei confronti delle imprese
europee.
Secondo me, oggi, è richiesto un nuovo rapporto tra pubblico e privato, come
condizione per investire nei punti nevralgici dell’innovazione e per smentire le tante
voci che pensano di indicare un “limite” dello sviluppo pretendendo di conservare i
livelli occupazionali, la competitività e la qualità della vita raggiunta nei paesi
democratici. Quindi è ormai da tempo richiesta alla Pubblica Amministrazione
regionale una funzione attiva di supporto all’apparato produttivo, attraverso la
progettazione, l’implementazione, il controllo e la messa in opera di progetti di
sviluppo regionali. Funzioni, queste, completamente nuove, che nel caso italiano
hanno trovato le regioni impreparate a gestire efficacemente il passaggio
dall’amministrazione di cose decise dall’alto ad un’amministrazione diretta dei
progetti di sviluppo.
La base per ogni politica di intervento regionale è dunque nell’adeguamento della
pubblica amministrazione ai nuovi compiti, attraverso interventi che rendano più
efficaci i meccanismi e le procedure di funzionamento interno, modernizzino le
strutture e sviluppino le risorse umane per sostenere non solo finanziariamente il suo
ruolo di promotore delle nuove iniziative. E in questa specifica fase, la definizione
degli obiettivi e degli strumenti della politica regionale dovrà necessariamente
contemperare le esigenze (per certi versi opposte) di sostegno dei livelli
occupazionali e di creazione di solide basi di competitività della struttura industriale
della nostra regione.
La qualificazione dei fattori produttivi regionali, chiudendo il cerchio tra
politiche industriali e politiche del lavoro, deve passare attraverso la politica attiva
del mercato del lavoro, che garantisca da un lato lo sviluppo delle piccole imprese
locali, dall’altro incoraggiare gli investimenti di grandi imprese non locali.
- INDAGINE EMPIRICA -
Si procede ad un confronto empirico con la realtà aziendale di P.A. della
“Giunta Regionale Abruzzo”, attraverso: l’osservazione sistemica di “aree”
amministrative; effettuando delle domande sul tema trattato alle figure più
rappresentative, componenti l’organigramma aziendale della giunta regionale
d’Abruzzo, e precisamente:
• L’Assessore (come “Responsabile politico”);
• Il Direttore “Generale” di area (come “ Responsabile gestionale”);
• Il Dirigente del servizio(come “ Responsabile dell’attività amministrativa”);
• Un Responsabile sindacale componente della “R.S.U.”;
• I Rappresentanti regionali delle “sigle sindacali”, firmatari il CCNL
“Regioni/Enti locali”
Successivamente, passando per la misura degli stili di risposta, si va a verificare la
fedeltà e la validità dello “strumento” di indagine.
Lo scopo, è di valutare l’applicazione e l’efficacia degli accordi di programma,
dal “D.Lgs. n. 29/93” alle proposte del “libro bianco” sul mercato del lavoro di M.
Biagi, passando attraverso il D.Lgs. 165/2001 e la L. 145/2002 fino al decreto
legislativo n. 276 del 10 settembre 2003 (di attuazione delle deleghe in materia di
occupazione e mercato del lavoro, di cui alla L. 14-02-2003, n. 30). Monitorando lo
stato degli attuali, eventuali, problemi organizzativi aziendali, di natura contrattuale e
di gestione delle risorse umane, alla luce del mutato clima culturale e del panorama
aziendale e di comparto nelle relazioni industriali.
Le aree Direttive coinvolte sono state quelle di: -“DIREZIONE RIFORME
ISTITUZIONALI, ENTI LOCALI, CONTROLLI” con sede a Pescara; -“DIREZIONE
PROGRAMMAZIONE, RISORSE UMANE, FINANZIARIE E STRUMENTALI” con
sede a l’Aquila.
Mentre Gli Assessorati (assunti ad interim dallo stesso Assessore) interessati, sono
stati quelli delle direzioni di cui sopra.
“QUESTIONARIO-INTERVISTA”
- Le domande formulate -
1. Il nuovo quadro normativo ha delineato “formalmente” il passaggio delle
pubbliche amministrazioni da un modello organizzativo burocratico (spiegare le
diverse finalità dei due modelli) ad un modello telocratico. L’evoluzione delle
relazioni sindacali e la maturata coscienza “partecipativa” di tutte le parti sociali,
potrebbe accompagnare e favorire “realmente” questo tipo di cambiamento ?;
2. In particolare, l’attivazione di quali politiche e quali strumenti potrebbero
accompagnare e favorire “realmente” questo tipo di cambiamento ?;
3. Quale ruolo potrebbe svolgere l’attività di formazione in questo processo
evolutivo ?;
4. Quali ritiene possano essere gli obiettivi strategici perseguiti attraverso la
realizzazione dell’attività di formazione continua rivolta a tutte le nuove figure
professionali ?.
5. Dal suo punto di vista, quale tipo d’impatto (professionale, organizzativo e
relazionale) ritiene possa avere la recente attivazione del processo di formazione
continua del personale dipendente ?;
6. Considerato che non sono stati applicati efficacemente gli accordi sottoscritti nel
2001 con la RSU e le OO.SS. per la riorganizzazione dell’Ente Regione, come
pensa che si possano attivare nuovi strumenti di negoziazione, per una
partecipazione (diretta e indiretta) tesa al miglioramento della qualità dei servizi?;
7. È stata attivata una politica di Direzione per obiettivi ?. Se si, attraverso quali
procedure si stanno predisponendo le assegnazioni degli obiettivi e dei budget ai
dirigenti? ;
8. Nel caso in cui non si raggiunga un accordo con le OO.SS. sulle materie oggetto
di contrattazione decentrata, l’amministrazione può disporre unilateralmente delle
materie medesime?. Se si, precisando che questo comportamento potrebbe
modificare il clima collaborativo e partecipativo, come penserebbe di poter
procedere per raggiungere obiettivi fondamentali per l’amministrazione, ed
ovviare contestualmente a questa ipotesi negativa di peggioramento del clima
negoziale (solo ai rappresentanti della Regione);
9. Nel caso in cui non si raggiunga un accordo con la Regione sulle materie oggetto
di contrattazione decentrata, l’amministrazione potrebbe disporre unilateralmente
delle materie medesime?. Se lo facesse, precisando che questo comportamento
potrebbe modificare il clima collaborativo e partecipativo, come potrebbero
procedere i rappresentanti delle OO. SS. per ovviare a questa ipotesi negativa di
peggioramento del clima negoziale, ma tentando nel contempo di non far cadere
gli sforzi tesi al raggiungimento di obiettivi fondamentali per l’amministrazione
(solo ai rappresentanti delle OO: SS.).
Nella strategia di gestione delle risorse umane, l’attore organizzativo è il “piccolo
gruppo”. Un settore, strategico, che deve essere sviluppato e su cui investire.
Stabilire un quadro normativo entro cui operare predispongono buone
“relazioni sindacali”.
La crescita del territorio è interconnessa alla disponibilità di capitale umano ed ai
meccanismi di diffusione della conoscenza (ma bisogna saperli gestire, dando
“struttura” e importanza alla loro gestione: volendolo!).
Nei processi di trasformazione delle P.A. la riforma del rapporto di lavoro pubblico,
il tema della contrattualizzazione delle relazioni sindacali assumono, a mio avviso,
carattere strategico fondamentale nel mantenere la rotta verso un modello innovativo.
Nella messa in opera delle riforme, infatti, salvo rare eccezioni, nelle
Amministrazioni si riscontrano resistenze al cambiamento e tendenze a conservare
posizione di potere, piccoli privilegi e rendite acquisite nel precedente sistema
consociativo.
Il fine del programma di cambiamento, comunque, non può limitarsi alla riduzione
dei costi; perchè comunque si avranno delle implicazioni culturali, e modificare una
cultura (radicata nell’iter operativo di un’Organizzazione) è un’operazione difficile e
delicata. Bisogna agire a livello “comportamentale”, non possiamo accontentarci di
rilevare riscontri a livello cognitivo
«Occorre trovare un giusto equlibrio fra le Politiche del personale e le Relazioni
industriali, poichè la complessità del sistema di regolazione è notevolmente
aumentata. E’ necessario, dunque, una “Visione sistemica” di tutti i processi».
In ultima analisi, il “Mercato dei contratti” è il ruolo strategico della risorsa
umana (anche secondo me da recuperare), e l’organizzazione delle funzioni aziendali
dovrà abbandonare i criteri di “Serialità” per scivolare verso quelli di “Contestualità”.
“INTROIEZIONI SEMANTICHE”
Progresso non significa sviluppo
di sistemi che producono molto per pochi,
ma produrre Quanto Basta per tutti;
Non esistono “Leggi generali”,
ma possono esistere generalizzazioni
di “Leggi locali”.