2
L’indagine è stata condotta facendo ricorso - oltre alla vasta, ma
frammentaria, letteratura esistente sulla Fiat
1
- a fonti archivistiche aziendali
non ancora completamente sfruttate. Ci riferiamo alle relazioni tecniche della
Direzione servizi di produzione (Fondo Crescimone), l’ente preposto alla de-
finizione e all’analisi dei tempi e dei metodi di lavoro, della gestione della
manodopera nonché alla periodica revisione dei mezzi di produzione.
Altrettanto preziose sono state le carte della Direzione attività interna-
zionali relative alle visite presso stabilimenti automobilistici, rivelatesi indi-
spensabile per effettuare i, seppur sommari, raffronti con la situazione tecni-
co-organizzativa dei produttori stranieri.
Si è cercato di colmare le lacune della documentazione archivistica
aziendale - il Fondo Crescimone si esaurisce nel 1974 - attingendo informa-
zioni dagli archivi sindacali conservati presso l’Istituto Gramsci e la Fonda-
zione Vera Nocentini. La ramificata struttura dell’organizzazione dei delega-
ti ha consentito infatti l’accumulo di un considerevole numero di relazioni
sulle condizioni di lavoro, sull’introduzione di nuove tecnologie e
sull’evoluzione impiantisca in generale. Gran parte di queste «notizie» sono
confluite in volumi pubblicati e costituiscono parte delle nostre fonti.
Infine si è attinto a due tipi di fonti diverse ma per certi aspetti comu-
nicanti: la «memorialistica» e le copiose indagini di sociologia industriale.
Esiste una serie di testimonianze soprattutto di operai militanti sindacali e di
tecnici. Alcune sono pubblicate come volume di memorie, molte sotto forma
di intervista, altre rappresentano le fonti stesse delle ricerche sul campo dei
sociologi del lavoro.
1
In modo particolare negli ultimi anni sono state pubblicate numerose monogrfie, alcune delle quali
in concomitanza con le celebrazioni per i cento anni di vita dell’azienda. Si veda Castronovo [1999],
Annibaldi e Berta (a cura di) [1998], Berta [1998a; 1998b], Volpato [1996], Olmo (a cura di)
[1997], Bassignana, Castagnoli e Revelli [1998], Gianotti [1999], Giachetti e Scavino [1999]. Per
gli anni precedenti si faccia riferimento a alla bibliografia curata da Maria Rosaria Moccia, Biblio-
grafiat. Saggi, studi, ricerche sulla Fiat (1899-1996), Quaderni dell’Archivio Storico Fiat, n. 3, To-
rino, Scriptorium, 1998, p. 319.
3
Questo insieme eterogeneo di fonti ci ha consentito di reperire le in-
formazioni sufficienti a coprire l’arco di tempo opportuno per valutare la
traiettoria del modello dal momento dai primi anni settanta alla metà degli
anni ottanta.
L’ipotesi di partenza era che alla Fiat l’evoluzione tecnologica e orga-
nizzativa riflettesse il tentativo di risposta manageriale all’eccezionale, per
intensità e per durata, livello di mobilitazione operaia iniziata con le vicende
dell’autunno caldo. Durante il lavoro di ricerca, tuttavia, abbiamo constatato
l’impossibilità di descrivere tale evoluzione senza considerare le dinamiche
sociali entro la fabbrica e quindi lo stretto rapporto intercorrente tra azione
sindacale e organizzazione del lavoro.
Le conclusioni cui siamo giunti, pur rimanendo intatta l’ipotesi di par-
tenza, sottolineano come l’evoluzione tecnologica ed organizzativa rifletta
anche i limiti strutturali del modello fordista. Tali limiti, di cui rendiamo
conto nel capitolo I, risultano condizionanti per due ordini di ragioni stretta-
mente connesse: da un lato l’estrema rigidità produttiva aggravatasi dalla
crescente complessità tecnologica e dalla estrema linearizzazione del flusso
produttivo che poneva problemi di gestione non risolvibili attraverso
l’organizzazione del lavoro adottata; dall’altro, frutto delle aporie della ge-
stione vallettiana, la duplice frattura dell’equilibrio sociale all’interno delle
officine. Questa, che alla Fiat si era caratterizzata in modo violento, aveva
prodotto un traumatico mutamento sia nella gerarchia di fabbrica sia nella
composizione della forza lavoro, ponendo le basi della progressiva degene-
razione dei rapporti sociali negli stabilimenti - Mirafiori e Rivalta in modo
particolare - destinata ad avere come corollario il fenomeno della cosiddetta
«conflittualità permanente».
Nel capitolo II si cerca di offrire una ricostruzione di come alla rigidi-
tà produttiva si fosse contrapposta con successo una mobilitazione operaia in
grado di rovesciare a vantaggio delle proprie lotte le caratteristiche tecniche
della fabbrica, pur in assenza di una forma di organizzazione centralizzata.
4
Non vengono analizzate nel dettaglio le ragioni e le forme della conflittuali-
tà, ma si tenta di descrivere come a quel ciclo di produzione «rigido» corri-
spose una notevole flessibilità delle forme di azione collettiva o individuale,
come l’assenteismo, che hanno avuto un qualche rilievo nel condizionare gli
assetti produttivi e nel sollecitare innovazioni nella organizzazione della pro-
duzione e del lavoro.
La complessità tecnologica, i mutamenti strutturali della composizio-
ne della domanda, il fenomeno della disaffezione al lavoro divenivano, al
principio degli anni settanta, limiti non più superabili dall’organizzazione
fordista, fondata sulla estrema semplificazione delle mansioni affidate a ma-
nodopera non qualificata. Emergono a livello internazionale tentativi di su-
peramento del «modello americano», tesi a recuperare insieme flessibilità
produttiva e governabilità della manodopera.
Questi aspetti, alla luce del dibattito sviluppatosi attorno alla crisi del
modello taylor-fordista nel loro intrecciarsi con la vicenda organizzativa del-
la Fiat e con le proposte del sindacato, vengono affrontati nel capitolo III. Da
parte sindacale emerge, pur in assenza di una compiuta strategia organica e
di rivendicazioni precise, una via d’uscita alla crisi incentrata sulla riprofes-
sionalizzazione del lavoro operaio e una integrazione delle mansioni per
gruppi di lavoro secondo quanto veniva allora sperimentato alla Volvo.
Nel capitolo successivo vengono analizzate le risposte elaborate dal
management, in seguito alle sollecitazioni emerse dal confronto col sindaca-
to, riguardo ai problemi tecnici e di gestione della manodopera. Infatti la de-
finizione della tecnologia di processo sviluppata dalla Fiat dalla metà degli
anni settanta, anche se ha avuto come obiettivo l’elusione delle rigidità sin-
dacali, ha risentito e incorpora i rapporti con la controparte. L’azione sinda-
cale avrebbe mediato la parziale adozione del modello produttivo elaborato
dalla Volvo.
Comunque il dato dominante rimane il fatto che la «via» tecnologica
perseguita dalla Fiat privilegiava una impostazione tesa all’assorbimento dei
5
micidiali effetti paralizzanti del conflitto industriale senza concedere il de-
centramento d’autorità a livello d’officina, mantenendo sostanzialmente in-
variata la precedente impostazione di divisione del lavoro. Venivano infatti
ricercate ed introdotte forme di «isolamento» delle unità di produzione, at-
traverso l’ampio ricorso all’automazione e a sistemi di movimentazione reti-
colare del flusso produttivo. Emerge la peculiare geografia dell’automazione
flessibile, localizzata in funzione di problemi specifici, legati al ripristino
della continuità produttiva minacciata dall’effetto combinato di fermate tec-
niche e di efficaci azioni di conflitto di lavoro.
Queste trasformazioni, pur efficaci, evidenziano la distanza che separa
il fordismo «riformato» della Fiat dai costruttori giapponesi e dalla Toyota in
particolare. Questi, nel periodo di massima turbolenza dei mercati, si sono
imposti a livello mondiale grazie ad un modello di gestione della fabbrica
che attribuisce la massima importanza al lavoro operaio direttamente coin-
volto nel processo di trasformazione, cui vengono attribuite funzioni di at-
trezzaggio e manutenzione - rigidamente separate nel modello taylor-
fordista.
La distanza dal modello giapponese non venne colmata negli anni ot-
tanta. La Fiat, riguadagnata la piena governabilità della fabbrica e accantona-
te le cautele degli anni precedenti, intraprendeva la via della Fabbrica ad Alta
Automazione. L’ampio grado di flessibilità rispetto al prodotto e rispetto al
processo produttivo, sperimentato nella seconda metà degli anni settanta, su-
biva una flessione. Il tentativo di miglioramento delle prestazioni economi-
che veniva ora perseguito attraverso la tendenziale eliminazione degli operai
diretti di produzione con sistemi automatici e tecnologie elettroniche.
Alla metà degli anni ottanta la Fiat si collocava tra i precursori di una
sorta di «neo-fordismo informatizzato» proprio mentre maturava da parte
degli stessi produttori americani, General Motors in particolare, l’attenzione
al modello giapponese, o, come nel caso tedesco, la necessità di valorizza-
6
zione delle risorse professionali in rapporto alla crescente complessità
tecnologica.
Solo l’evidente impossibilità di gestione delle sofisticate tecnologie di
produzione, gli irrisolti problemi organizzativi, il difficile rapporto tra area
della manutenzione e della conduzione degli impianti, condurranno alla pre-
sa di coscienza della necessità del superamento del modello fordista alla fine
del decennio.
7
CAPITOLO I
LA RIGIDITA’ DEL PROCESSO PRODUTTIVO
I.1. Il «modello americano»
La definizione del termine «modello americano», o «fordista»,
che utilizzeremo è quanto mostrato a livello produttivo dai principali
costruttori americani, artefici di quelle soluzioni organizzative e tec-
nologiche note come «produzione di massa»
1
, finalizzate a produrre in
serie beni in quantità enormi a costi decrescenti. Tutto ciò, definito
attraverso la «Detroit automation», si fonda sull’uso generalizzato del-
le macchine a trasferta (transfer)
2
e sulla concezione della produzione
a flusso continuo (continuous flow production), vale a dire della lavo-
razione di un unico prodotto senza interruzioni per un periodo inde-
terminato. L’idea di razionalizzazione che la sottende è quella della
fluidità e della linearità dei processi produttivi secondo la classica
immagine fordiana del fiume che riceve acqua da classi e sottoclassi di
affluenti, designando il primo il montaggio vetture e la seconda i di-
versi cicli di lavorazione dei componenti. Tendenzialmente ogni ope-
1
David Hounshell la definisce: «single purpose manufacture combined with the smooth
flow of materials; the assembly line; large volume production; high wages initiated by the
five dollar day; and low prices.» [1984, 263].
2
Alain Touraine propone questa definizione: «macchine a stazioni di lavoro multiple che
permettono di eseguire operazioni diverse e consecutive su uno stesso pezzo che si sposta
automaticamente da una stazione all’altra con un moto di trasferimento rettilineo» [1955,
trad.it.1974, 59]. Cfr. Pollock [1956, ed. it. 1976, 86-87].
8
razione produttiva deve essere collegata a monte e a valle senza solu-
zione di continuità.
La razionalizzazione produttiva per giungere a questo stadio era
passata attraverso la specializzazione delle macchine utensili e delle
capacità operaie; aveva significato la fine del sapere artigiano sul con-
trollo della produzione, il declino degli operai qualificati nelle lavora-
zioni e l’ingresso nelle fabbriche di migliaia di lavoratori dequalificati
di provenienza rurale. Ora con l’automazione di alcune fasi del ciclo
produttivo si tende alla sostituzione degli addetti alle macchine utensi-
li attraverso il collegamento e l’integrazione delle stesse, aumentando
enormemente la produttività. Il pezzo da lavorare viene trasferito da
apparecchi speciali (linking devices) attraverso varie stazioni di lavoro
costituite da macchine utensili monouso. Si tratta, in fondo, della e-
stensione dei metodi di trasporto dei materiali già adottati nei reparti
di montaggio, a quelli di lavorazione dove si impiegano macchine au-
tomatiche specializzate.
Infatti proprio il vice presidente della Ford Motor Company
Delmar Harder a proposito del termine automation da lui coniato nel
1947, non si riferiva ai
sophisticated electronic communications and servo systems developed during the
war, much less to the advances in computer control. He simply meant an increase in
the use of electro-mechanical, hydraulic, and pneumatic special-purpose and parts-
handling machinery which had been in existence for some time.» [Noble 1984,
p.66].
9
I principi adottati nei processi di automazione non costituiscono
alcun balzo in avanti concettuale ma una estensione, appunto, di quan-
to praticato da Henry Ford
3
in materia di organizzazione del lavoro.
Con essa [la catena di montaggio] il lavoro sul prodotto restava manuale,
ma l’introduzione del sistema meccanico di trasporto simulava in un certo senso
un flusso continuo. Il fordismo praticamente portava all’estremo alcuni caratteri
organizzativi già comparsi col taylorismo ed i relativi aspetti costrittivi verso
l’operaio; ma paradossalmente nello stesso tempo alcuni presupposti del taylori-
smo originale cominciavano a venire smantellati: alla massima intensificazione
del lavoro individuale si sostituisce la pressione indiscriminata sul ritmo colletti-
vo [Dina 1985, 27].
Si generalizza un costante bisogno di controllo sulle singole sta-
zioni di lavoro, sì integrate dal vincolo della trazione meccanica, ma
suscettibili di continui inceppamenti e rallentamenti. Se nella conce-
zione tayloriana l’armonizzazione tra quote di produzione progettate
dal management e i volumi produttivi individuali è garantita dal si-
stema di cottimo differenziale
4
, incentivante e «scientificamente» ac-
3
Ci riferiamo al principio fordista «move the metal» di cui la «catena di montaggio» è la
realizzazione pratica. Prerequisito della quale è «l’intercambiabilità del pezzo e la facilità
d’incastro ottenuta grazie all’utilizzo di metalli pretemprati che eliminava il bisogno delle
operazioni di aggiustaggio. Lo stesso Frederick W. Taylor si dedicò allo studio della
«scienza del taglio dei metalli» culminata in On The Art of Cutting Metals del 1906. Cfr.
Nelson [1980, trad. it. 1988, 44-45]e Rosenberg [1969, trad. it. 1987, 130 sg.].
4
Cioè comprendente una tariffa-premio superiore ed una penalizzante inferiore. Maurice
Dobb così ne descrive gli effetti: «Il sistema Taylor di cottimo differenziale[...] prevede
che la tariffa per pezzo[...] aumenti effettivamente quando aumenta il ritmo del lavoro
dell’operaio. [...] Il vantaggio di questo schema [...] consisterebbe nel fatto che esso peg-
giora la posizione dell’operaio lento e migliora quella dell’operaio svelto[...] e di conse-
guenza tende ad allontanare dalla fabbrica tutti i lavoratori lenti e ad attirare invece in
essa tutti i migliori operai del settore.» [1959, trad. it. 1965, 70-71]. Cfr. Tannenbaum
10
cettato, nella teoria ma difficilmente nella realtà d’officina; nel «fordi-
smo» invece - con l’introduzione della catena di montaggio - tale in-
centivo individuale tende a cadere. Esso viene in parte sostituito dalla
cadenza della catena stessa
5
, in parte da un apparato di sorveglianza e
controllo che si incarna nella schiera dei capi. Per prima la Ford aveva
«tolto la tuta al capo» trasformandolo in un agente della disciplina e
della produttività aziendale [Berta 1997, 111; 1999b, 105; Tannen-
baum,1967, trad. it. 1969, 79]. Mentre il compito di bilanciare i tempi
delle operazioni elementari, di organizzare «scientificamente» la pro-
duzione è demandato agli ingegneri.
6
La generalizzazione della Detroit automation è stato un proces-
so tutt’altro che lineare data la complessità del ciclo di produzione au-
tomobilistica. Le fasi del ciclo produttivo che possono essere comple-
tamente automatizzate sono quelle in cui le operazioni sono più ripeti-
tive, più scomposte in fasi elementari e quindi più facilmente riprodu-
cibili. L’automazione integrale nella pratica non è mai stata raggiunta.
Le principali innovazioni si concentravano nei reparti di stampaggio e
saldatura delle lamiere e in quelli di lavorazione meccanica, mentre re-
stano, tuttora, prevalentemente manuali i montaggi finali.
[1967, trd. it., 1969, 31-35] e Nelson [1980, trad it. 1988, 110-116]. Si vedano inoltre le
interessanti le osservazioni di Simone Weil [1951, 3ª ed. it. 1994, 236-250].
5
«Ford engineers mechanized work processes and found workers to feed and tend their ma-
chines. Though time and motion studies may have been employed in the setup of the machi-
ne or machine process, the machine ultimately set the pace of work at Ford, not a piecerate
or an established standard for a “fair day’s work”» [Hounshell 1984, 253].
6
A proposito della complessità della determinazione dei tempi di bilanciamento citiamo
la definizione di lavoro a catena fornita da Touraine: «[...] è un tipo di organizzazione del
lavoro per cui le diverse operazioni, ridotte alla medesima durata o ad un multiplo o ad
un sottomultiplo semplice di tale durata, vengono eseguite senza interruzione tra loro e
in un ordine costante nel tempo e nello spazio» [1955, trad., it 1974, 62].
11
La Ford, sotto la spinta del citato pioniere dell’automazione
Delmar Harder, costruì avveniristici impianti anche per l’assemblaggio
dei motori
7
. Tuttavia ben presto furono evidenti i limiti
dell’automazione rigida. Nonostante il ricorso ai più moderni disposi-
tivi ispirati ai principi della unitized automation
8
veniva riscontrato
dagli stessi tecnici un cronico «lack of flexibility» nella variazione del
mix produttivo e una rivalutazione, a tale fine, dei processi di tipo
convenzionale. Inoltre dovevano ammettere l’impossibilità di estende-
re la produzione di poche migliaia di esemplari senza dover sostenere
enormi investimenti in nuovo macchinario [Hounshell 1995, 76-77].
L’organizzazione fordista imponeva condizioni di lavoro molto
dure. Nonostante la politica retributiva degli «alti salari» le relazioni
industriali erano tutt’altro che pacifiche. Un elevato tasso di avvicen-
damento (turnover) garantiva al sistema una certa regolarità delle pre-
stazioni di lavoro. Ma un altro aspetto minava la supremazia del «mo-
dello», e la competitività delle aziende americane. Il fenomeno della
cosiddetta disaffection, «l’insoddisfazione per il lavoro»
9
, concomitan-
te con l’emergere di mercati più instabili, caratterizzati da radicali
cambiamenti nella composizione della domanda
10
.
7
Ci riferiamo allo stabilimento di Cleveland entrato in funzione nel 1953, e qelli succes-
sivi di Windsor e Lima. «The need for greater flexibility was pointed up by the Lima En-
gine plant, which by 1967 had produced three different six-cylinder engines and two dif-
ferent V-8s in its relatively short lifetime (less than a decade), largely by ripping up old
lines and installing new ones.»[ Hounshell 1995, 77, corsivi nostri].
8
Questo sistema ideato dai progettisti della Ford permetteva in caso di cambiamenti nel
design del motore di sostituire alcune stazioni senza dover cambiare l’intero complesso a
trasferta, raggiungendo così un certo grado di convertibilità degli impianti [Hounshell
1995, 76].
9
Cfr. Braverman [1974, trad. it., 1978, 33-41] e Butera [1972].
10
La Generel Motors, adottando una struttura divisionalizzata, per prima offrì un ampia
gamma di prodotti, con cambio annuale di modello. Questa variante introdotta fu intro-
12
Sul finire degli anni Sessanta il fragile equilibrio sociale fordi-
sta entrava in crisi. L’aspettativa frustrata di avanzamento professio-
nale fu probabilmente la causa scatenante di un fenomeno che interes-
sava in modo particolare i lavoratori a bassa qualificazione addetti alle
linee di montaggio. L’acutizzarsi dell’assenteismo, degli scioperi a
«gatto selvaggio», il dilagante fenomeno del sabotaggio, e il rifiuto al-
la prestazione straordinaria negli stabilimenti di assemblaggio delle
industrie automobilistiche, attrassero l’attenzione della stampa ameri-
cana. Emblematico di ciò resta l’articolo di Judson Gooding, apparso
sulla rivista «Fortune» nel luglio del 1970
11
. Il turnover
12
, valutato in-
torno al 25%, «e[ra] tale che alcuni operai abbandona[vano] il lavoro
durante i turni non preoccupandosi nemmeno di ritirare la paga per il
lavoro fatto». L’assenteismo si aggirava intorno al 10-15% . I rapporti
tra capi e operai segnati da crescente tensione.
In alcuni stabilimenti il malcontento degli operai ha raggiunto il punto da sfociare
chiaramente in sabotaggio: viti lasciate nei tamburi dei freni, maniglie di utensili
saldate sotto i parafanghi (tanto da produrre eterni, misteriosi e non diagnostica-
bili rumori), graffiature nella vernice e tagli nei rivestimenti interni [Gooding,
trad.it. 1970, 161].
dotta da Alfred Sloan nel 1925 , definito il «necessario complemento» di Ford [Womack,
Jones e Roos 1990, trad. it. 1991, 44]. Tuttavia dal punto di vista produttivo non costituì
alcuna novità. Stabilimenti di carrozzeria specializzati producevano un solo modello,
mentre gran parte della meccanica era comune a più modelli. Lo stesso, Ford adotterà un
sistema simile dal 1933 [Hounshell 1984, 263 sg.].
11
L’articolo di Gooding venne tradotto e diffuso dalla Direzione Informazioni della Fiat
tra i suoi dirigenti. Non è un caso che alcune delle soluzioni prospettate dall’autore tro-
vassero accoglienza da parte della Direzione.
12
Butera [1972, 110] riferisce che: «[...] l’insorgere di fenomeni di opposizione collettiva
dura come il sabotaggio organizzato e pubblico [...] o l’opposizione latente, rivelata tra
l’altro dal tasso di turnover che - a Detroit nel ‘70 - è stato il più alto degli ultimi 10 anni
[nonostante allora si registrasse il più alto tasso di disoccupazione]».
13
La soluzione a questi inconvenienti - «il guaio è che nessuno conosce
con certezza le cause dell’assenteismo, dei ritardi,
dell’insoddisfazione» - veniva suggerita nell’automazione integrale
degli stabilimenti, «eliminando le vecchie linee di montaggio insieme
a tutti i lavori più ripetitivi e parcellari». Veniva additato l’esempio
dell’impianto di assemblaggio della General Motors sorto a Lordstown
nell’Ohio, in una zona rurale, distante dai centri del conflitto indu-
striale. Dalla pubblicistica aziendale veniva presentato come lo stabi-
limento di Carrozzeria più automatizzato del mondo. L’utilizzo di 26
robots antropomorfi Unimate alla saldatura delle scocche era presenta-
to come un chiaro rimedio contro l’insoddisfazione e l’assenteismo.
Tuttavia anche questo doveva trasformarsi in un paradise lost
13
. In
breve tempo anche Lordstown divenne un inferno delle relazioni indu-
striali. Proprio quelle innovazioni divennero causa di conflitti acuti.
L’aumento dei ritmi era impressionante: da 60 a 90 veicoli all’ora. La
parcellizzazione delle mansioni raggiungeva limiti superabili soltanto
da un’ulteriore ondata di automazione. Il fordismo raggiungeva il suo
culmine riproducendo lo schema della frantumazione del lavoro e la
successiva sostituzione dello stesso con macchine più o meno com-
plesse.
In realtà i robot di Lordstown funzionano secondo principi vecchi di qua-
rant’anni: già nel 1931 Henry Ford descriveva la recente “macchina saldatrice au-
tomatica” che faceva lo stesso lavoro (giunzione di parti in acciaio) di un essere
umano,” eseguendo automaticamente dal principio alla fine l’intero ciclo di sal-
datura” [Rothscild 1973, trad.it. 1974, 106] .
13
E’ il titolo del libro di Emma Rothschild ispirato da quegli avvenimeti.
14
Al problema della dequalificazione dei prodotti si rispondeva allo
stesso modo con cui si cercava di ovviare alla dequalificazione profes-
sionale: l’introduzione dei robots in fabbrica. Nel «modello america-
no», riduzione dei costi per unità di prodotto e necessità di disciplina-
mento della forza-lavoro conducono all’estensione progressiva
dell’automazione.
All’inizio degli anni Settanta i limiti di tale modello, congeniale
per produrre in grandi quantità beni identici ma scarsamente riconver-
tibile ai mutamenti del mercato si sommarono a quelli
dell’ingovernabilità della manodopera.
La principale conclusione sul caso degli Stati Uniti è che la struttura organizzati-
va tradizionale che prevede per pochi suoi membri professionalità, discrezionali-
tà, potere tecnico e per molti di essi pura esecuzione, povertà di contenuti e stress
da insignificanza, entra in crisi a causa di due fattori concorrenti: il fatto che i
«molti» non accettano più questo stato di cose avendo il potere di rendere in-
fluente il loro rifiuto, ed il fatto che il crescente livello di incertezza che
l’azienda deve affrontare sui terreni economico, tecnologico e sociale non con-
sente più all’organizzazione di funzionare se il «fronte» di coloro che devono af-
frontare questa incertezza non si allarga [Butera 1972, 10-11].
Proprio nel 1970 la Toyota produceva due milioni di vetture e
insidiava il mercato americano. Si andava progressivamente imponen-
do un nuovo modello in grado di combinare i vantaggi delle economie
di scala e la capacità di diversificazione produttiva a livelli qualitativi
superiore ai concorrenti
14
.
14
William Lazonick sostiene che la superiorità del modello giapponerse risiederebbe nel
«livello di integrazione all’interno dell’organizzazione.[...] A differenza degli Stati Uniti,
dove esistono mansioni ”dequalificate”, “semiqualificate” e “qualificate” che vengono af-
fidate a differenti tipi di lavoratori, i giapponesi usano gli stessi termini per indicare gli
stadi attraverso i quali il singolo lavoratore passa durante il primo decennio di impiego.»