6
CAPITOLO SECONDO: sviluppo esogeno ed endogeno
2.1 Sviluppo esogeno
Il lavoro di costruzione di modelli econometrici su vasta scala, in base a
qualsivoglia intuizione analitica derivata da modelli semplici è molto più
difficile e meno affascinante del creare modelli semplici. Tuttavia, potrebbe
essere questo il compito al quale Dio ha destinato i giovani laureati.
Presumibilmente Egli aveva in mente qualcosa
(R.W. Solow)
Anche se l'espressione "Sviluppo esogeno" non appartiene a pieno titolo alla letteratura della
scienza economica, ad essa si possono, a fini esplicativi, ricondurre alcune teorie sullo sviluppo
economico delle nazioni.
La ciclicità degli sviluppi di un'economia era un dato che risultava palesemente da evidenze
statistiche: nelle grandi economie ad un periodo di crescita seguiva sempre un periodo di ristagno.
Tale ristagno fu interpretato da Marx come caratteristica stessa dell'economia capitalista,
Schumpeter e la scuola evoluzionista invece lo attribuirono agli effetti dell'innovazione tecnica: una
volta introdotta, l'innovazione causava crescita, ma la crescita stessa finiva, poi, per riassorbire
quanto guadagnato, creando la necessità di un'ulteriore innovazione per innescare un nuovo trend
positivo.
Posizioni esplicite riguardo allo sviluppo di un'economia furono prese dalla scuola neoclassica
1
sotto le forme dello sviluppo equilibrato: un'economia contiene forze interne che ne causano lo
sviluppo e, nel lungo periodo, dato per assunto che le tecnologie produttive prevedano la
sostituibilità dei fattori che le compongono e che i prezzi dei beni siano così flessibili da garantire il
recupero dell'eccesso di domanda, assicurano che il sistema cresca in condizioni di piena
occupazione. Il risultato più eclatante della teoria neoclassica della crescita é che ogni economia, a
lungo andare, tende ad un sentiero di crescita indipendente dalla situazione tecnologica iniziale, e
dipendente invece dalla sola crescita della popolazione; paesi che abbiano lo stesso tasso di crescita
della popolazione, poi, vedono, nel lungo periodo, convergere i rispettivi tassi di crescita verso un
valore comune.
La nascita della teoria della crescita neoclassica va fatta risalire ad Harrod e Domar
2
, che per primi
posero il problema di spiegare il trend della crescita effettiva dell’economia di una nazione,
osservando che, assunti come determinati esogenamente quattro parametri (rapporto capitale
/prodotto, propensione media al risparmio, saggio di crescita della produttività e della popolazione),
il caso di un’economia in grado di crescere mantenendo equilibrata la produzione con la capacità
produttiva e con la disponibilità di lavoro ( la cosiddetta “Steady State Growth”
3
) è un caso del tutto
particolare, e per primi si posero il problema di come una tale condizione si verifichi. All’analisi di
Harrod e Domar si aggiunse il contributo dell’economista americano Robert Merton Solow (nato
nel 1924, premio Nobel per l’economia 1987).
Solow intervenne nel dibattito sulla crescita economica aggregata
4
una prima volta nel 1956 ed una
seconda nel 1957, e pubblicò nel 1970 una esposizione della propria teoria - Solow (1970). In
questo contributo Solow inserisce, palesando la propria ispirazione neoclassica, la sostituibilità
tecnica, con il risultato di ottenere una crescita costante in ogni componente dell’economia, il
1
La scuola classica ricomprende, grosso modo, tutta la prima generazione di economisti: Adam Smith, Ricardo, Stuart
Mill, Vilfredo Pareto via via fino al crollo di Wall Street ed alla susseguente grande depressione.
2
Roy Harrod (1900-1978) e David Domar (1914), senza collaborare fra loro giunsero, nel solco dell’insegnamento di
J.M. Keynes, a risultati simili, compendiati come “Teoria di Harrod e Domar”
3
crescita in stato uniforme: condizione dell’economia caratterizzata dalla costanza del saggio di risparmio, del rapporto
capitale/ prodotto e del saggio di crescita della forza lavoro (Caliccia 1973, p.
4
in termini macroeconomici per “aggregato” si intende una quantità globale (di capitale, risparmio, etc.) riferita non ad
un singolo soggetto, ma ad una collettività.
7
summenzionato steady- state. Nel rispondere agli interrogativi sollevati da Harrod e Domar, Solow
prende come modello un’economia che produce un solo bene che può essere o consumato o
accumulato per aumentare lo stock di capitale disponibile; nella quale l’offerta di lavoro è
omogenea e viene impiegata, unitamente al capitale disponibile, come input nella produzione
corrente, in più la tecnologia dell’economia è caratterizzata da coefficienti fissi, e non si verifica
alcun cambiamento tecnologico
5
. Nella teoria di Solow, il capitale, che si assume non sia sottoposto
a logoramento, viene incrementato, secondo quanto si risparmia, in proporzione al reddito; il lavoro,
che coincide con la popolazione, e la produttività dei fattori sono determinati esogenamente. Perché
l’incremento del capitale e la crescita di lavoro e produttività siano coincidenti (il che assicura
l’equilibrio dinamico di steady state), le variazioni nella quantità di capitale devono essere assorbite
da variazioni corrispondenti della quantità di lavoro.
Sinteticamente la teoria di Solow può essere così esposta: il tasso di crescita di un'economia é
funzione del progresso tecnico e del tasso di crescita demografica, dato ciò, il tasso di crescita del
reddito pro capite dovrebbe adattarsi al tasso di progresso tecnico e, se la tecnologia si diffonde
uniformemente fra i vari paesi, il tasso di crescita delle diverse economie dovrebbe tendere verso un
valore comune. Nel presentare il suo modello, Solow fa una premessa: la sua trattazione è
drasticamente semplificata, è una “parabola”, ove per “parabola” l’autore intende “narrazione di un
avvenimento mitico, immaginario, o di un’allegoria che stabilisce in modo tipico relazioni morali o
spirituali” e che può stabilire anche relazioni economiche. Se alla parabola si chiede di essere ben
raccontata, non le si chiede di essere anche di essere vera alla lettera, dato che comporta
inevitabilmente ipotesi semplificatrici dei concetti che si propone di illustrare, e quindi non è
perfettamente attendibile in quanto, strutturalmente, tralascia aspetti, anche rilevanti, della
situazione che spiega. In termini economici ciò significa che se una parabola pone un modello,
questo modello non sarà illuminante su tutti i problemi e, peggio, può condurre ad interpretazioni
fuorvianti. Per onestà intellettuale, è d’obbligo chiarire che la parabola va applicata solo al campo
nel quale non crea confusione, e per il quale è stata concepita (fermo restando che può darsi che il
campo di applicazione venga alla luce solo nel mettere in atto la teoria) - Solow (1970 pp.13-14).
Alla luce di questo risulta facile spiegare il motivo per il quale il modello di crescita solowiano,
come esposto nel 1970, non ha retto alla verifica dei fatti: nella realtà i tassi di crescita dei paesi
industrializzati si mostrarono diversi fra i paesi industrializzati e quelli sud orientali, ed in entrambi
i casi maggiori che nei paesi sudamericani.
Il modello di Solow aveva una capacità interpretativa circoscritta: si limitava a spiegare la crescita
in steady state (ossia costante) delle percentuali di crescita del prodotto, della produttività e del
capitale per lavoratore delle diverse economie, e come tendano ad essere costanti nonostante
l’invarianza nel tempo del rapporto fra il capitale ed il prodotto.
In effetti, al termine del suo ciclo di conferenze, Solow afferma che da una teoria dello sviluppo che
considera un’economia ad un solo settore non ci si può aspettare di più, e che non sarebbe punto
sorpreso di trovare, nel futuro, articoli su riviste economiche che utilizzino il modello in altro modo
o in esso riescano a comprendere ipotesi che tenessero conto della tecnologia e delle preferenze
temporali. La costruzione di modelli di base ha funzione ricognitiva: sui sentieri da essa tracciati
possono muoversi teorie più approfondite, che si spingano a proporre analisi particolareggiate e
soluzioni di politica economica - Solow (1970 p.102).
Trenta anni dopo le parole con le quali Solow concludeva la sua esposizione della teoria della
crescita, il futuro da lui citato è presente: la considerazione dei soli fattori aumento di capitale e
crescita demografica non spiegava la differenza nei tassi di crescita, questo portò alla ricerca di
nuovi fattori e nuove soluzioni compatibili con la teoria ed il modello di sviluppo equilibrato, che
verranno ora esposte brevemente.
5
ciò vuol dire che l’efficienza del lavoro non influisce sul rapporto fra la quantità di prodotto ed il capitale disponibile.
Harrod chiama questa condizione “progresso tecnico neutrale”.
8
2.2 Real business cycles e teoria del caos
La scuola neoclassica non approdò ad una teoria del ciclo economico basata sui concetti fondanti la
propria teoria dello sviluppo (ossia razionalità nelle scelte, efficienza dei mercati e sostituibilità dei
fattori produttivi): le deviazioni dal modello di equilibrio (quelle che per i classici erano fasi del
ciclo) si limitavano a dimostrare la stabilità del modello di equilibrio.
Il progetto neoclassico di spiegare i fenomeni economici sulla base dei concetti di razionalità ed
equilibrio trova il compimento nella teoria dei real business cycles, ispirata ad una incondizionata
fiducia nelle capacità di autoregolamentazione dei mercati e ad una conseguente diffidenza nei
confronti di ogni intervento pubblico in essi. La teoria dei real business cycles vede nel ciclo
economico non una ricorrenza periodica nell'evoluzione di un'economia, bensì la reazione del
mercato ad improvvidi interventi esterni o a casuali choc esterni. I modelli matematici proposti
hanno il pregio di avvicinarsi grandemente alle oscillazioni osservabili nella realtà, ma peccano
nell'avere alla base ipotesi estremamente restrittive (non tengono conto del fatto che il capitale non
si esaurisce al termine di un ciclo, ma ha riflessi in seguito ed é un potente fattore di
accumulazione), e nel porre alla base dello squilibrio (ossia del ciclo) nel mercato eventi casuali,
imprevedibili ed inspiegabili.
Le previsioni della scuola neoclassica si rivelarono fallaci: i sentieri di sviluppo previsti non erano
stati imboccati, la crescita delle economie nazionali non era funzione dell'aumento della
popolazione, ma di una, o più, variabili evidentemente non contemplate nel modello di sviluppo.
Parziale risposta a questa inadeguatezza sono state la già menzionata teoria dei real business cycles
e la teoria economica del caos. Tale teoria si basa sull'uso di modelli matematici che, prevedendo
l'interazione e la reciproca interferenza di due equazioni, rappresentanti ognuna l'economia di un
paese, ottengono il risultato di descrivere gli choc di sistema attribuiti al caso dalla teoria dei real
business cycles come frutto di meccanismi deterministici. I modelli della teoria del caos non sono
facilmente utilizzabili e sono ancora in fase di studio, hanno, però, il merito di ricondurre a cause
endogene rispetto al sistema studiato gli eventuali comportamenti irregolari, giustificando così
interventi di politica economica miranti a colpire i fattori di squilibrio che, dall'interno del sistema,
impediscono un corretto funzionamento dei meccanismi di mercato - Casarosa (1998 pp. 838-848).
2.3 sviluppo endogeno
Nel solco della teoria neoclassica della crescita, La migliore risposta alle errate previsioni sulla
crescita delle economie é stata la teoria dello sviluppo endogeno. Essa rappresenta,
sostanzialmente, una rielaborazione della teoria neoclassica della crescita: ove nel modello di
sviluppo di Solow i motori della crescita sono la crescita demografica ed il progresso tecnico che
assumono valori dati, e la crescita steady state è fondamentalmente un adattamento al cambiamento
di queste due variabili esogene, nel modello integrato e corretto dallo sviluppo endogeno, si dà
credito all’ipotesi che la crescita sia determinata anche da fattori endogeni, quale l’investimento di
risorse nell’aumento del capitale umano (investimenti in istruzione ed apprendimento sul lavoro).
Se supponiamo che nella “parabola” (nel senso solowiano del termine) della crescita endogena la
popolazione sia stazionaria e non sia dato progresso tecnico, il tasso di crescita in equilibrio
dell’economia risulta pari a zero, con il capitale che continua ad accumularsi (infatti, se la
popolazione è stazionaria è stazionario anche il lavoro che essa può compiere; essendo questo uno
dei due fattori della crescita, se si pone fisso l’altro fattore, ossia il progresso tecnologico, che si può
chiamare anche “efficienza del lavoro”, il capitale che viene risparmiato senza essere reinvestito
continua ad accumularsi, causando calo della produttività del lavoro). Per evitare ciò, la crescita
endogena prevede l’introduzione, accanto a lavoro e capitale, di un terzo fattore produttivo,
accumulabile, che venga prodotto mediante investimento di capitale, facendo sì che esso mantenga
costante il rapporto con la produttività del lavoro. In questo modello l’equilibrio si mantiene con
l’intervento di un fattore non più esogeno come lo era il lavoro, ma endogeno, prodotto all’interno
del sistema mediante l’uso di risorse del sistema stesso.