«nel 1840 il Talbot, illustrando la tecnica del suo procedimento negativo-positivo, faceva
rilevare come fosse possibile intervenire sul negativo per mezzo del disegno e di altri
accorgimenti in modo da arricchire, correggere o addirittura trasformare l'immagine
originale, ossia la rigorosa riproduzione del vero. Egli arrivò persino ad additare la
possibilità di applicare la testa di una persona sul corpo di un'altra: non era ancora il
ritocco, ma era già una specie di fotomontaggio che fu subito sfruttato da fotografi
malintenzionati per inscenare caricature e scherzi non sempre andati a lieto fine»2. La
politica e gli organi dello Stato non aspettarono molto prima di sfruttare tutte le
potenzialità del nuovo mezzo, già intorno al 1860, ad esempio, il ritratto ufficiale
dell'allora Presidente degli Stati Uniti Abraham Lincoln altro non era che un
fotomontaggio composto dalla testa di Lincoln, “montata” sul corpo del politico John
Calhoun3. A partire da quell'episodio, numerosi furono successivamente i casi in cui il
potere statale si servì della fotografia come strumento di consenso e mezzo per
influenzare l'opinione pubblica.
«La fotografia – scrive Zannier – [...] è stata inventata quando si maturò
sociologicamente (fisiologicamente?) l'esigenza di ampliare l'informazione, offrendo dati
più certi oltre che più doviziosi, come sembrava consentire la nuova tecnica di
visualizzazione ottico-fotochimica, dalla inconfutabile “verosimiglianza”; nel contempo si
determinava la necessità, anche politica, di trasmettere quelle sorprendenti e persuasive
immagini, in una sempre più ampia sfera sociale, nell'evolversi di una democrazia che era
nata nell'Era industriale, e pretendeva un mass medium fatto proprio così: meccanico,
automatico, rigoroso»4.
Già pochi anni dopo la sua nascita, la fotografia raggiunge ben presto una posizione
mediatica di rilevanza strategica: molto più efficace e diretta delle parole, molto più
precisa dei disegni. Non appena le tecnologie di stampa e composizione delle pagine lo
consentono, diventa così una presenza fissa sulle principali testate giornalistiche.
All'evoluzione tecnologica della comunicazione a mezzo stampa si accompagna anche una
2 Enrie Giuseppe, 1960, Il miracolo della fotografia – compendio storico della sua invenzione e del suo
progresso, Torino, Società Editrice Internazionale, p. 197
3 Vedi appendice C
4 Zannier Italo, 1993, Fotogiornalismo in Italia oggi, Quaderni di Fotografia 1, Venezia, Corbo e Fiore
editori, p. 5
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cambiamento nella società, «le informazioni che le fotografie possono dare incominciano
a sembrare molto importanti in quel momento della storia culturale in cui si ritiene che
tutti hanno diritto a un qualcosa che si chiama “notizie”. Le fotografie furono allora
considerate un modo di fornire informazioni a persone non molto disposte alla lettura. Il
“Daily News” continua a definirsi “Il quotidiano illustrato di New York” ed è la sua maniera
di pretendere a un'identità populistica». In questo modo l'immagine diventa più matura e
supera quella fase in cui la sua presenza si giustificava unicamente con ragioni decorative.
«Partendo dall'immagine fotografica si è dato un nuovo significato al concetto di
informazione. La fotografia è una sottile fetta di spazio, oltre che di tempo»5.
Consapevoli dell'importante ruolo che svolge la fotografia nel settore giornalistico,
abbiamo deciso, in questo lavoro, di puntare l'attenzione proprio sul fotogiornalismo e in
particolare sulle dinamiche che riguardano il delicato rapporto fra l'immagine e la sua
etica, sia da un punto di vista di approccio del fotogiornalista ai fatti che documenta, sia
dal punto di vista del trattamento delle immagini in ottica di pubblicazione.
«Le fotografie – scrive Susan Sontag – forniscono testimonianze. Una cosa di cui abbiamo
sentito parlare, ma di cui dubitiamo, ci sembra provata quando ce ne mostrano una
fotografia. In una versione della sua utilità, il documento fotografico incrimina. [...] le
fotografie sono diventate un utile strumento degli stati moderni per sorvegliare e
controllare popolazioni sempre più mobili. In un'altra versione della sua utilità, il
documento fotografico comprova. Una fotografia è considerata dimostrazione
incontestabile che una data cosa è effettivamente accaduta»6.
Il primo capitolo dell'elaborato si sofferma sull'aspetto storico del tema. Alla
nascita della fotografia, avvenuta nella prima metà dell'Ottocento, segue la fase della sua
diffusione e della crescente importanza che ricoprirà nella società industriale.
Quasi contemporaneamente nasce anche il fotogiornalismo. Il mezzo fotografico viene
messo a disposizione dell'informazione e il suo impiego si accresce con il tendenziale
perfezionamento tecnico della riproduzione fotografica e della stampa sui giornali.
Le caratteristiche che distinguono il fotogiornalismo da altri generi fotografici sono
5 Sontag Susan, 2004, Sulla fotografia – Realtà e immagine nella nostra società, Torino, Einaudi editore, p.
21
6 Sontag Susan, 2004, Sulla fotografia – Realtà e immagine nella nostra società, Torino, Einaudi editore, p.
5
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sostanzialmente tre, e si possono riassumere nei seguenti termini inglesi:
● Timeliness – le immagini hanno un senso se pubblicate nel contesto del racconto
di eventi accaduti di recente. La pubblicazione delle fotografie deve quindi essere
tanto “veloce” quanto quella delle parole. Questo però non esclude che immagini
fotogiornalistiche restino impresse per anni nell'immaginario del lettore,
divenendo le icone di eventi storici di grande rilevanza.
● Objectivity – la situazione ripresa nelle immagini deve essere una fedele ed
accurata rappresentazione degli eventi.
● Narrative – le immagini si relazionano ad altri elementi della notizia per poter
meglio coinvolgere il lettore o lo spettatore.
A pochi anni dalla sua nascita, il fotogiornalismo comincia a registrare i nomi dei
personaggi che daranno un'impronta decisiva al “fare informazione” tramite le immagini.
Roger Fenton, Jacob Riis, Lewis W. Hine e Walker Evans, sono solo alcuni dei fotografi che
imprimono al racconto per immagini il proprio stile personale e la propria professionalità.
Il Novecento può essere definito, a ragione, il secolo della rappresentazione fotografica di
storie ed eventi. La storia del fotogiornalismo assume un andamento parabolico e
raggiunge il picco nel periodo fra la due guerre mondiali, il momento della sua età d'oro.
In questa fase, e immediatamente dopo, si realizzano le esperienze più significative, fra
tutte la nascita della cooperativa «Magnum» (divenuta poi la più prestigiosa agenzia
fotogiornalistica al mondo) ad opera di Robert Capa, Henry Cartier-Bresson, David 'Chim'
Seymour ed altri “grandi”, e della rivista «Life» (che ha raccontato attraverso le sue
copertine la storia dei più importanti fatti e personaggi a partire dal secondo dopoguerra).
Negli anni Sessanta-Settanta, lo sviluppo incalzante della televisione, che presenta un
linguaggio immediato e spettacolare, accompagna il reportage fotografico alla strada del
suo declino. La fotografia torna a ricoprire il ruolo di semplice illustrazione sui giornali e
intanto si converte verso una tipologia di largo uso e consumo, è il boom della stampa
scandalistica e sensazionalistica.
Il fotogiornalismo comincia quindi a cercare nuove formule, una nuova definizione
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dell'immagine che consiste soprattutto nel trasgredire quella concezione di “obiettività”
caratteristica della fotografia, su tutti, di Cartier-Bresson.
Anche il reportage di guerra subisce una trasformazione decisiva, il conflitto indocinese
segna il punto oltre il quale i fotogiornalisti non si troveranno più da soli sul teatro degli
eventi, ma saranno circondati dagli operatori televisivi. La guerra in Vietnam
rappresenterà l'ultimo conflitto con una forte componente fotografica, scompare la figura
“romantica” del fotoreporter autonomo che da quel momento farà parte di singole unità
di soldati, diventando fotografo embedded. Di pari passo, le fotografie cominceranno a
perdere di quella veridicità che fino a poco tempo prima le qualificava.
Il primo capitolo si chiude con una panoramica del fotogiornalismo nel nostro Paese. Il
caso italiano presenta alcune tipicità che lo distinguono dal resto dell'Europa e dagli Stati
Uniti. La massima distanza si avverte soprattutto negli anni Sessanta, laddove negli altri
Paesi si assiste ad un tendenziale declino, il fotogiornalismo italiano vive la sua età d'oro.
Un'epoca che in realtà durò ben poco, assorbita anch'essa dall'inesorabile dominio della
televisione.
La storia del fotogiornalismo in Italia è anche una storia delle fotografie non fatte, dell'uso
e dell'abuso della notizia e dell'immagine, della censura politica, di quel distacco rispetto
all'Europa che ha portato la stampa, se non in rari casi, a trascurare la fotografia.
I maggiori ostacoli allo sviluppo di un fotogiornalismo maturo furono però dovuti alla
commistione fra potere politico, grandi aggregazioni editoriali e stampa, che ha
condizionato le dinamiche del fotogiornalismo italiano, frenandone la maturità, favorendo
l'affermarsi di una fotografia d'agenzia neutra e di bassa qualità e ostacolando lo sviluppo
di qualsiasi forma di fotografia indipendente, ragionata, personale.
Il secondo capitolo dell'elaborato approfondisce in maniera più specifica la grande
capacità comunicativa che hanno le immagini, punta l'attenzione sui condizionamenti che
da essa possono scaturire e fa luce sulle norme deontologiche, scritte e non scritte, per
evitare che ciò accada.
Qual è lo scopo del fotogiornalismo? Quali sono i parametri di riferimento della
comunicazione per immagini? Quali i suoi confini?
La storia dell'informazione per immagini è sempre stata accompagnata da tali
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interrogativi. Con la stampa sui giornali e la sua diffusione di massa, la fotografia incontra
l'etica e comincia ad affrontarla: cosa pubblicare, dove e come pubblicarlo. L'affermazione
del mestiere del fotogiornalista, poi, porta i professionisti dell'immagine a darsi delle
regole, codici deontologici con i quali confrontarsi.
Ci si rende conto, sin da subito, che la fotografia rappresenta uno strumento di
persuasione forte: temuta dai governi e il più delle volte, per questo, manipolata.
Fotomontaggi, elaborazioni, scelte editoriali (pubblicare o meno una foto, descriverla,
contestualizzarla, richiedere un determinato tipo di immagini), valutazioni fotografiche in
fase di scatto, sono tutte occasioni suscettibili di un apporto personale, quindi soggettivo
e per definizione non obiettivo. Detto ciò, può considerarsi ancora vera l'affermazione che
«la macchina fotografica [...] non mente mai»7?
A partire dalla seconda metà dell'Ottocento, la fotografia raggiunge una maturità
tale per cui si rivela capace di costituire un rapporto di riproduzione diretta della realtà. La
potenzialità persuasiva di cui disponeva non passò inosservata e ben presto nulla fu più in
grado di sottrarre la rappresentazione fotografica al controllo della macchina politica.
Nel paragrafo dedicato al rapporto fra la fotografia e lo Stato, è ben evidente quanto sia
forte e finalizzato l'intervento dei principali Paesi sulla scena internazionale nei confronti
del mezzo fotografico. Tale ingerenza si manifesta in special modo nel periodo fra le due
guerre mondiali, e la conferma viene dallo studio dei casi più significativi: l'Unione
Sovietica, l'Italia fascista, la Germania durante la Repubblica di Weimar e in epoca nazista
ed infine gli Stati Uniti dell'emergente società americana.
Un'istantanea di queste esperienze ci riporta il risultato inequivocabile di come, in contesti
liberali, la fotografia manifesti senza inibizioni le proprie potenzialità espressive. Mentre
nei Paesi caratterizzati da sistemi autoritari e dittatoriali l'informazione ne risulti
imbavagliata e spesso resa strumento di propaganda politica.
Ogni fotografia, fra quelle che restano impresse nell'immaginario collettivo, porta con sé
una storia condizionata dal contesto politico e sociale entro il quale viene scattata. La
forza espressiva di una fotografia la porta ad essere uno strumento di persuasione forte e
come tale viene sfruttato nei confronti dell'osservatore.
Non è necessaria, però, l'esistenza di un sistema autoritario che controlli l'intero comparto
7 Citato in Papuzzi Alberto, 2003, Professione giornalista, Roma, Donzelli, p. 115
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dell'informazione per poter avere immagini “truccate”, fotografie che grazie ad alcuni
accorgimenti riescono a trasmettere un dato messaggio – a volte falso – oppure
enfatizzano un contenuto già forte.
Entrano in gioco dinamiche che parlano di rispetto nei confronti dei lettori, che guardano
le fotografie sulla base di un patto di fiducia con il professionista che le ha scattate. Di
rispetto nei confronti dei soggetti ripresi, spesso fotografati in situazioni di estremo dolore
e completa impotenza. Di rispetto verso la storia, nel momento in cui deve fare i conti con
un approccio revisionista, che dubita delle fonti – e le fotografie sono fra queste – sulle
quali fino a questo momento si è basata.
E allora cominciamo a pensare, è vera l'immagine del miliziano morente di Capa, è vera la
fotografia dell'alza bandiera di Iwo Jima, o lo sventolamento della bandiera rossa dall'alto
del tetto del Reichstag, è vera la fotografia della bambina in fuga dal Napalm in Vietnam?
Per cercare di capirlo, ci soffermiamo sul caso della bambina vietnamita Kim Phuc, ripresa
dall'obiettivo del fotografo, Premio Pulitzer 1973, Nick Ut. Dopo aver analizzato nello
specifico le storie intrecciate e la rilevanza che ha avuto questa fotografia nella
valutazione degli eventi e nella percezione del pubblico, ci ritroviamo inevitabilmente a
confrontarci con delle domande sull'etica dell'immagine e sull'approccio che dovrebbe
seguire il fotografo quando si ritrova coinvolto in situazioni di grave pericolo e disagio, per
sé e i soggetti che riprende.
Le domande sono tante, e le risposte non sempre esaustive o soddisfacenti. Per
cercare di ovviare a questo problema emerge l'intervento di codici deontologici e regole di
comportamento, per i fotografi, gli editori e i professionisti dell'informazione in genere.
Il settore dell'informazione è uno degli ambiti professionali per i quali più spesso si sente
parlare della necessità di un'etica o, con un termine sostanzialmente sinonimo, di una
deontologia, alla quale chi esercita questa professione dovrebbe attenersi.
Come per i giornalisti della carta stampata, e gli editori, anche i fotogiornalisti sono tenuti
a mantenere un certo standard etico nei propri lavori. È necessario che ogni pubblicazione
sia il risultato di una serie di regole, scritte e non scritte, le quali attestino che il contenuto
presentato sia una sincera e fedele rappresentazione delle immagini al pubblico.
Tali norme riguardano una vasta gamma di aspetti, che vanno dal come il fotografo deve
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comportarsi nel momento in cui scatta le sue immagini, passando per ciò che può
fotografare o meno, fino al se e come l'immagine può essere alterata in camera oscura o
al computer.
Non c'è dubbio di come questo quadro si sia sviluppato ed evoluto nel tempo, influenzato
da fattori quali la capacità tecnologica e i valori etici della società. Un quadro che è tuttora
in continua evoluzione.
Non esistendo una disciplina giuridica unitaria e precisa riguardo l'etica dell'immagine e la
professione fotogiornalistica, l'identificazione delle regole di comportamento da seguire
viene affidata alle principali testate giornalistiche e alle associazioni di categoria che, con
codici di comportamento interni, disciplinano le attività dei propri iscritti e dei
collaboratori. Nell'ultimo paragrafo del secondo capitolo, dopo aver definito i termini che
distinguono il “mestiere” del fotogiornalista, focalizziamo la nostra attenzione proprio su
questi codici deontologici e le regole di comportamento che ne derivano.
I principali codici – riportati anche in appendice – sembrano convenire tutti su alcuni punti
fondamentali, che riassumiamo in: obiettività, responsabilità, completezza, integrità e
indipendenza. Si tratta delle linee guida che, necessariamente, bisogna seguire per fare
una giusta e corretta informazione, sia durante la fase operativa del reporting che in
ambito di confezionamento della notizia per la pubblicazione.
I termini della nostra ricerca si affinano con il terzo capitolo, dedicando l'attenzione
ad uno degli aspetti chiave del lavoro: l'inquadramento delle dinamiche connesse al
fotogiornalismo e all'etica dell'immagine nella società attuale, completamente
rivoluzionata dall'avvento della tecnologia digitale.
Il capitolo si apre con una premessa di carattere concettuale che ha lo scopo di mettere in
evidenza la rilevanza mediatica del fotogiornalismo e i criteri di notiziabilità delle
immagini. Il presupposto della notizia sta nel “fatto”. A partire da questo si passa al suo
confezionamento e alla successiva pubblicazione. Ma in base a quali valori e dati quali
meccanismi avviene questo decisivo passaggio? Cosa significa informare con le immagini?
Secondo Papuzzi, «se la notizia è nell'immagine, applicare alla fotografia i principi e i
criteri della notiziabilità significa sottintendere questioni che fanno riferimento ad aspetti
teorici e tecnici del linguaggio giornalistico. Cioè chiedersi se la fotografia implichi un
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rapporto peculiare con l'avvenimento e con il pubblico; in che modo rifletta il chi e il cosa,
il quando e il dove, il perché e il come; se si possa riconoscere l'impiego di valori notizia
come la vicinanza, la drammaticità, lo human interest, il prestigio sociale; se le fotografie
abbiano il potere di rappresentare autonomamente le notizie oppure sia sempre
necessaria l'integrazione delle didascalie»8.
Nel corso del Ventesimo secolo, appena trascorso, l'evoluzione tecnologica ha
accompagnato lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa. «Ogni medium ha avuto
la sua tecnologia: ottico-chimica e meccanica per la fotografia e il cinema, acustica ed
elettronica per la radio, tipografica per giornali e libri, e così via»9.
L'avvento dell'informatica e la diffusione dei computer, a partire dagli anni Ottanta,
ridefinisce questo quadro rendendolo notevolmente più versatile. La tecnologia digitale
consente di tradurre tanti linguaggi settoriali, tante pratiche comunicative differenti, in un
unico linguaggio fatto di numeri, anzi, di soli due numeri: zero e uno. Il sistema digitale
(che appunto può definirsi anche numerico), trasforma tutti i prodotti mediatici – la
musica, le parole, le fotografie, i video – in documenti (file) composti da una serie finita di
combinazioni numeriche.
La rivoluzione del digitale facilita e velocizza il trasferimento di informazione, portando a
realizzare un nuovo posizionamento dei media che, grazie ad intrecci reciproci sempre più
agili e frequenti (la cosiddetta “convergenza multimediale”), si ritrovano sotto il medesimo
“ombrello digitale” creato dal computer e diffuso attraverso Internet.
Il rapido successo riscosso dalla fotografia digitale negli ultimi tempi è dovuto soprattutto
ai numerosi vantaggi che si ottengono a livello di produzione, archiviazione e
distribuzione. Scattare fotografie diviene un'operazione facilitata ed accessibile a tutti,
vengono meno i costi dei materiali di consumo (ad esempio la pellicola) e si da il via ad
una produzione “massiccia” di immagini fotografiche, sebbene spesso di scadente qualità.
Anche le precedenti fotografie scattate con tecnica analogica, possono essere digitalizzate
per sfruttare al meglio i vantaggi dell'era “numerica”.
La conservazione dei dati diventa sempre più agevole, e i costi fissi delle memorie (sempre
più capienti) e delle macchine fotografiche (sempre più avanzate) diminuiscono
8 Papuzzi Alberto, 2003, Professione giornalista, Roma, Donzelli, p. 119
9 Menduni Enrico, 2008, La fotografia, Bologna, il Mulino, p. 111
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progressivamente. Gli archivi digitali sono via via più pratici e decisamente meno
ingombranti rispetto ai vecchi archivi cartacei, di conseguenza la trasmissione e la
diffusione delle immagini può contare su una sempre maggiore velocità e capillarità. Nello
stesso momento, però, la possibilità di poter intervenire su ogni singola immagine diventa
ancora più agevole e cade l'assioma secondo il quale la scena fotografata deve
necessariamente trovarsi davanti l'obiettivo del fotografo al momento dello scatto.
L'immagine digitale può essere, infatti, completamente creata al computer, con tutte le
implicazioni di carattere etico che da questo possono derivare, soprattutto quando si ha a
che fare con la delicata sfera dell'informazione, per la quale si presuppone, prima di ogni
cosa, la verità. L'avvento nell'attuale società di una tecnologia così pervasiva e il
mutamento radicale che ha determinato, porta a modificare in maniera profonda il senso
e la funzione delle immagini, insieme ad una serie di pratiche sociali, usi, costumi,
linguaggi e convenzioni fortemente radicate.
La tecnologia digitale fa emergere una nuova figura nel mondo dell'informazione, è
il citizen journalist che comincia a “competere” con il fotogiornalista di professione e
spesso lo supera per la fortuna di trovarsi nel posto giusto al momento giusto. A differenza
del professionista che deve giungere sul luogo dell'accaduto, il citizen è già lì e può
documentare la scena alla quale assiste grazie all'ausilio di macchine digitali sempre più
piccole e portatili, comprese quelle incorporate nei telefonini. A scapito dell'etica e del
“mestiere” del fotogiornalista a detta di alcuni, a vantaggio della sempre più pressante
richiesta di notizie e veloce diffusione di informazione a detta di altri.
In ogni caso, si determinano di fatto un'alluvione mediatica e un “bombardamento” di
immagini che rischiano di colpire il fotogiornalismo, relegandolo nell'oasi delle specie
protette, delle professioni in via d'estinzione.
L'emergenza delle possibili patologie connesse ad uno sviluppo anomalo della
società, influenzata dal virus della spettacolarizzazione, è il tema del quale si discute nel
quarto ed ultimo capitolo dell'elaborato. In quella che definisco come la società delle
rappresentazioni e non dei fatti, si realizza una trasformazione genetica dell'informazione,
che diventa infotainment (informazione-intrattenimento).
L'ambita democratizzazione della notizia viaggia sul binario incerto degli eccessi e dei
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possibili abusi nell'utilizzo delle immagini. Si rischia di degenerare in episodi che superano
ogni dimensione etica, e ogni aspetto professionale. Ricordando un episodio molto
recente ad esempio, alcune associazioni di categoria hanno tenuto a sottolineare che
Fabrizio Corona non è un fotografo, che tutta la vicenda di “vallettopoli” e dei fotoricatti
non è fotogiornalismo, che l'informazione per immagini ha tutt'altri valori, ed hanno
ragione: non può una degenerazione che va “così oltre”, e nulla ha a che vedere con
professionisti che giorno per giorno devono affrontare eticamente le difficoltà del proprio
lavoro, compromettere i destini di una professione già fortemente ostacolata dallo
strapotere delle agenzie e dall'ostracismo delle persone (per questo abbiamo deciso che
tale aspetto della questione non poteva rientrare nei termini della nostra discussione).
“Lei non può fotografarmi! C'è la legge sulla privacy”, si sentono spesso dire i
fotogiornalisti, sebbene stiano riprendendo manifestazioni pubbliche o fatti di cronaca. I
media, e la televisione su tutti, condizionano fortemente la percezione degli spettatori e li
attraggono con notizie sensazionalistiche e documenti che si rivelano spesso distorti. Le
immagini opportunamente “trattate” e i fotomontaggi vendono una posizione, sia essa
politica, economica o sociale a tutto discapito della corretta informazione e dei cittadini
che ne sono i fruitori. Il fotomontaggio diventa una moda, il dolore viene “sbattuto” in
prima pagina e il “cadavere” quotato in gallerie d'arte. Si tratta di numerosi aspetti di una
stessa emergenza, nei confronti della quale è importante che tutti – dai cittadini agli
operatori dell'informazione, dagli organismi politici ai tutori della legge – rivolgano una
certa attenzione.
C'è bisogno di regole precise e di sanzioni certe. C'è bisogno della consapevolezza da parte
di ogni “cittadino digitale” che l'informazione per immagini possiede un grande potere, e
ricordando che «da un grande potere, derivano grandi responsabilità»10 è necessario che
ognuno agisca nell'ottica di un fotogiornalismo etico e responsabile.
Che sia veritiera, o cosciamente “truccata”, con la fotografia «noi diventiamo
testimoni oculari dell'umanità e della disumanità degli uomini». È con queste parole di
Helmut Gernsheim che mi piace mettere un punto al lavoro di ricerca e le riflessioni
riportati nell'elaborato. Abbiamo parlato di fotogiornalismo ed etica dell'immagine, dei
10 Ben Parker, Spider-Man (2002), [http://it.wikipedia.org/wiki/Spider-Man_(film)] (consultato il 10
febbraio 2009)
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problemi connessi alle dinamiche della rappresentazione del mondo tramite le fotografie,
alle questioni etiche che riguardano il momento della loro ripresa, della post-produzione e
della successiva pubblicazione, abbiamo parlato del lavoro delle agenzie e delle redazioni
nel confezionamento delle notizie da proporre al pubblico. Abbiamo dato delle risposte –
o perlomeno ci abbiamo provato – alle principali degenerazioni date da un'informazione
distorta, cercando le possibili cure e le soluzioni alle patologie che affliggono il sistema dei
media e della comunicazione per immagini.
Qualcuno vede la fotografia come lo “specchio della realtà”, io la considero piuttosto come
lente e filtro insieme, attraverso cui quella realtà che rappresenta può apparire ai nostri
occhi “a fuoco” o al contrario distorta, ma difficilmente autentica, vera. E allora non ci
resta che prendere atto di ciò che vediamo con il dovuto beneficio del dubbio.
Alla fine giungiamo a chiederci, cos'è la verità? Secondo Umberto Eco
«è un mobile esercizio di metafore, metonimie, antropomorfismi
elaborati poeticamente, e che poi si sono irrigiditi in sapere,
illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, monete la cui
immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione
solo come metallo, così che ci abituiamo a mentire secondo
convenzione, in uno stile vincolante per tutti, ponendo il nostro
agire sotto il controllo delle astrazioni, avendo sminuito le
metafore in schemi e concetti»11.
Eco parla dell'impossibilità o incertezza di verità assolute. Ci parla di come i paradigmi
conoscitivi e gli schemi categoriali siano vincolanti e quasi invisibili per l'uomo di una
particolare epoca storica e culturale. Senza questi misteriosi schemi, però, vivremmo
sicuramente nel regno del non senso e dell'incomunicabilità. È necessaria, dunque, la loro
presenza perché ci danno la possibilità di poter comunicare e costruire senso, a partire
dalle interpretazioni dei mass media. Maggiori saranno le interpretazioni di un
avvenimento, maggiori saranno i suoi attributi in risalto e quindi maggiore sarà il grado di
conoscibilità.
Si è parlato di etica, ma anche di dubbio e di verità. Riprendendo le parole di
Zagrebelsky, penso di potermi “schierare” «a favore di un'etica del dubbio». Qualcuno
potrebbe esordire dicendo che dubbio e verità non viaggiano sullo stesso binario, in realtà
11 Eco Umberto, 2002, Kant e l’ornitorinco, Milano, Bompiani, p. 32
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«al di là delle apparenze, il dubbio non è affatto il contrario della verità. In certo senso, ne
è la ri-affermazione, è un omaggio alla verità. È incontestabile che solo chi crede nella
verità può dubitare, anzi: dubitarne. Chi crede che le cose umane siano inafferrabili, non
dubita affatto, ma sospende necessariamente ogni giudizio»12.
Bisogna tenere in considerazione che «la fotografia, per una definizione che si vorrebbe
ormai universalmente accettata, “adultera” comunque la realtà», anche se ingenuamente
continuiamo a credere che esista una fotografia che è immune dalla sua stessa
sofisticazione. In effetti «non sono stati sufficienti neppure centocinquant'anni della sua
storia, e una pletora di teoriche, per smentire il credulo concetto che fotografia sia
sinonimo di obiettività, al punto che in tal senso è ricorrente il termine fotografia (“ha
fotografato la situazione...”, ecc.), come un'ovvia metafora»13.
Davanti alla foto stampata su un giornale, o esposta in una galleria però noi restiamo
fedeli al nostro dubbio, che «si esprime così: “sarà davvero vero?”, e questo, in certo
senso, è un duplice omaggio alla verità, insieme al riconoscimento della nostra limitatezza
nei suoi confronti. Il dubbio – nel nostro caso riguardo l'autenticità delle immagini –
contiene [...] un elogio della verità, ma di una verità che ha sempre e di nuovo da essere
esaminata e ri-scoperta. Così, l'etica del dubbio non è contro la verità, ma contro la verità
dogmatica, che è quella che vuol fissare le cose una volta per tutte e impedire o
squalificare quella cruciale domanda: “sarà davvero vero?”».
Allo stesso modo, però, penso che se una verità assoluta non può esistere,
sicuramente può esserci una sua più vicina approssimazione, e per poterla raggiungere ed
esserne soddisfatti, è doveroso che gli operatori dell'informazione – fotogiornalisti,
agenzie e redazioni nel nostro caso – rispettino quelle poche, ma fondamentali, regole di
comportamento che si trovano alla base del rispetto verso il pubblico e l'inalienabile
diritto ad essere informati. Di qui l'importanza di codici deontologici e pratiche di
comportamento condivise e rispettate da tutti. Ma non possiamo certo pretendere un
rispetto “aprioristico” di questi principi, se esistono delle regole devono esserci anche
delle sanzioni, mi auspico quanto più severe e deterrenti possibili.
12 Zagrebelsky Gustavo, 2008, Contro l'etica della verità, Roma-Bari, Editori Laterza, premessa
13 Zannier Italo, 1993, Fotogiornalismo in Italia oggi, Quaderni di Fotografia 1, Venezia, Corbo e Fiore
editori, p. 6
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Da parte loro i cittadini (lettori-spettatori) devono prendere consapevolezza di
quella che è la forza delle immagini e dovrebbero, per quanto possibile, accrescere la
propria cultura fotografica, che consista perlopiù in un approccio attivo verso l'immagine,
piuttosto che di passiva “somministrazione mediatica”. «Una fotografia [...] qualsiasi
fotografia, può più agevolmente uscire dall'ambito barthiano del “mi piace”, “non mi
piace” e assurgere a documento della storia e della cultura visiva, solo se cerchiamo di
contestualizzarla con più precisione, individuandone l'epoca e l'occasione dell'esecuzione,
il suo significato all'interno dell'attività dell'autore che l'ha prodotta, l'uso che ne è stato
fatto, la diffusione di cui essa ha goduto, i significati collettivi e sociali di cui è stata nel
tempo investita»14.
Se è vero, come luogo comune vuole, che un'immagine (un disegno, un quadro) vale mille
parole, risulta ancor più vero – se possiamo affermarlo – che una fotografia, soprattutto se
giornalistica, valga forse qualcosa in più, d'altronde «un quadro falso (cioè un quadro con
un'attribuzione sbagliata) falsifica la storia dell'arte. Una fotografia falsa (cioè una
fotografia ritoccata o manomessa, o accompagnata da una falsa didascalia) falsifica la
realtà»15.
Vivere oggi nella società digitalizzata, società dell'immagine per eccellenza, ci
mette a maggior ragione in una condizione di serrata convivenza con la fotografia, e di
auspicabile e reciproco rispetto. Il cittadino è cosciente di poter essere vittima di
un'informazione distorta e sa che oggi è molto più facile intervenire sulle fotografie per
modificarne il significato, ma è anche consapevole di poter essere – da citizen journalist –
protagonista del circuito mediatico e informativo. Le regole deontologiche allora devono
essere estese a tutti, professionisti e non, perché tutti sono ora potenzialmente in grado di
comunicare con il linguaggio universale della fotografia. Purtroppo questa evoluzione,
quasi darwiniana, porta il fotogiornalismo come “mestiere” alla tendenziale scomparsa
(che sinceramente non mi auspico), o comunque ad una sua determinante ridefinizione, in
un mondo che viaggia sempre più velocemente, dall'altra parte invece, «il
14 Miraglia Marina nella postfazione di Favrod Charles-Henri, Zannier Italo, testi di, 1997, L'archivio Favrod
– La storia della fotografia come fotografia della storia, Milano, Federico Motta Editore
15 Sontag Susan, 2004, Sulla fotografia – Realtà e immagine nella nostra società, Torino, Einaudi editore, p.
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fotogiornalismo, come “genere”, dimostra ancora d'essere La Fotografia per antonomasia;
un'espressione alta, sublime, di un linguaggio che offre insostituibili possibilità di
memoria, di veicolazione e, perché no, di poesia; senza queste qualità la fotografia stessa
non sarebbe probabilmente neppure stata inventata»16.
16 Zannier Italo, 1993, Fotogiornalismo in Italia oggi, Quaderni di Fotografia 1, Venezia, Corbo e Fiore
editori, p. 6
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