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La questione della cooperazione allo sviluppo è oggi, più che mai, di
cruciale importanza. Nell’Africa sub-sahariana e nell’Asia meridionale oltre il
40% della popolazione sta ancora vivendo sotto la soglia di povertà. In tutto il
mondo 800 milioni di persone, 200 milioni di essi bambini, stanno soffrendo di
malnutrizione cronica. La percentuale di frequenza scolastica nei 48 paesi meno
sviluppati è del solo 36%.
La globalizzazione, che coincide soprattutto con l’aumento del commercio e dei
flussi di investimento privato, offre alcune opportunità ma aumenta anche il
rischio dell’emarginazione. Il problema del debito estero spesso inficia molte
manovre di risanamento strutturale.
La crescente disuguaglianza è una prova che la crescita e certe forme di aiuto non
sono sempre sufficienti di per se a risolvere la situazione. La povertà e
l’esclusione che è stata creata sono alle basi dei conflitti sempre più accesi e
stanno intaccando la stabilità stessa e la sicurezza di molte regioni e di molti
paesi.
L’Europa è diventata uno dei principali attori nel processo di cooperazione
allo sviluppo il quale, a sua volta, ha assunto negli ultimi anni un’ulteriore
importanza, in vista dell’integrazione dei PVS nel “sistema globale” che le
istituzioni internazionali e un gran numero di Paesi in tutto il mondo stanno
cercando di creare.
In questo contesto è utile individuare in che modo l’Unione Europea ha recepito
le rinnovate linee di condotta in ambito di cooperazione, sintetizzando le
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impostazioni delle altre due grandi istituzioni che si occupano di aiuti esteri
(Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale) e le richieste delle
organizzazioni non governative che operano in questo settore, le quali chiedono,
ormai da tempo, una maggiore partecipazione della società civile al processo di
sviluppo ed una reimpostazione generale delle politiche perseguite che, finora,
non hanno dato risultati pienamente soddisfacenti e, in alcuni casi, hanno anche
avuto effetti negativi sullo sviluppo stesso.
Questo studio è volto ad illustrare l’evoluzione delle politiche di cooperazione
dell’Unione Europea, attraverso l’analisi sulla variazione che il concetto stesso di
cooperazione ha assunto nell’ambito comunitario, in relazione anche ai
mutamenti delle teorie che hanno sostenuto le politiche d’aiuto nel corso degli
anni. Ci si sofferma infine su quelli che sono stati i risultati dell’applicazione di
tali politiche in tutte le macro-regioni verso cui l’azione comunitaria è stata
prevalentemente diretta, tracciando un bilancio il più possibile esauriente.
Le finalità che si vogliono raggiungere stanno nella comprensione di quelli che
sono stati i problemi che le politiche di cooperazione allo sviluppo europee
hanno incontrato, preso atto della loro scarsa efficacia deducibile dalla cattiva
performance economica di molti paesi verso cui l’Unione ha voluto dare il
proprio sostegno (soprattutto nella regione africana).
Nell’esporre le teorie sulla cooperazione allo sviluppo si è cercato di fornire un
quadro generale del dibattito che, su questo tema, si è sviluppato tra economisti e
studiosi, non mancando di approfondire alcuni aspetti considerati di maggiore
importanza, ma senza addentrarsi negli aspetti puramente analitici dei modelli
presi in esame.
Quando si è passati ad esaminare l’evoluzione delle politiche comunitarie sul
tema degli aiuti esteri si è evidenziata l’evoluzione dell’approccio di volta in
volta utilizzato nei vari decenni, per dare risalto ai collegamenti con il dibattito
teorico retrostante. Nel fare ciò si è preso in esame, in particolare, il rapporto tra
UE e paesi ACP, perché esso offre il quadro più completo ed esemplare delle
relazioni tra Europa e PVS nell’ambito della cooperazione internazionale. In
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questa illustrazione sono stati consultati, oltre ai testi ufficiali, come Accordi e
Trattati, anche testi contenenti analisi critiche sul tema, che aiutassero a dare una
valutazione specifica per ogni periodo considerato e permettessero di individuare
le differenze sostanziali tra i diversi generi di politiche perseguite. Come si avrà
modo di notare, l’ordine cronologico, con cui sono affrontati i problemi presi in
esame, è fino a questo punto di notevole importanza, per riuscire ad offrire
un’ordinata immagine dell’evoluzione dei concetti legati alla cooperazione
comunitaria, nel corso dell’ultimo mezzo secolo.
Nell’analisi riguardante la distribuzione effettiva e l’impatto degli aiuti sui paesi
destinatari l’aspetto temporale passa invece in secondo piano e si procede
attraverso una valutazione su base regionale, che prende in considerazione gli
effetti delle varie politiche sul reale sviluppo dei PVS, laddove per sviluppo si
vuole intendere sicuramente il miglioramento delle condizioni di vita dei popoli e
la “riduzione della povertà”. In questa sezione sono stati consultati i dati
contenuti nelle valutazioni fatte dalla stessa Commissione europea, oltre a quelli
presi in esame da alcuni studiosi per mettere in evidenza specifici aspetti, spesso
negativi, delle politiche europee di cooperazione.
Nel primo capitolo si individuano anzitutto i concetti fondamentali della
cooperazione, definendo il significato del termine “aiuto allo sviluppo” anche
attraverso l’analisi delle forme attraverso le quali l’aiuto viene elargito.
Si procede poi con un excursus sulle teorie che, dalla metà degli anni ’50, hanno
giustificato, diretto e anche criticato la politica degli aiuti:
- I modelli di matrice keynesiana di Rostow, di Rosestein-Rodan e di Chenery e
Strout (modello dei “two gaps”), che continuano tuttora ad essere una valida
base di queste politiche, soprattutto per la loro facile applicazione in tema di
quantificazione degli aiuti e di valutazione econometrica;
- Le critiche degli anni ’70, quando si espressero i primi dubbi relativi ai modelli
teorici “ortodossi”, in risposta alla sempre più diffusa convinzione e alla
sempre più chiara evidenza che la crescita economica non implicava di per se
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lo sviluppo, inteso in senso lato come il miglioramento delle condizioni di
vita dei popoli. Da qui gli approcci dei “bisogni primari” e della
“redistribuzione con crescita” sviluppati in quegli anni, e il filone di critiche
iniziato con l’analisi di Griffin, che si evolve poi per tutti gli anni ’80
assumendo le molteplici sfaccettature dategli dagli economisti sia
terzomondisti che liberisti. Nello stesso periodo si sviluppano anche i modelli
di investimento sul capitale umano, che rivalutano la funzione degli aiuti
considerati soprattutto sotto forma di assistenza tecnica;
- Le teorie negli anni ottanta, che giustificavano o, in gran parte, criticavano la
politica dei piani di aggiustamento strutturale, perseguita con molta enfasi
durante questo periodo (e che continua tuttora ad essere uno dei pilastri delle
strategie di cooperazione allo sviluppo);
- Il principio della “condizionalità politica” che rimane ancora uno dei principi
inspiratori della cooperazione dell’Unione Europea, inteso in questo contesto
come la richiesta, vincolata agli aiuti, del rispetto dei diritti fondamentali
dell’uomo e delle forme elementari di democrazia (anziché le richieste
tecniche implicite invece nei programmi di aggiustamento strutturale). Essa
sottintende, a livello anche teorico, la rivalutazione del ruolo delle istituzioni
nei paesi riceventi, e la definizione di “buon governo” come precondizione
per il giusto utilizzo degli aiuti esteri. Anche questo approccio ha ricevuto,
come negli altri casi, molte critiche sia a livello teorico-politico che a livello
di reale impatto per lo sviluppo dei PVS.
Nel secondo capitolo si affronta il tema della cooperazione allo sviluppo
portata avanti dalle politiche dell’Unione Europea, cercando di collegare ogni
modello teorico ad un determinato momento dell’evoluzione delle strategie di
sviluppo perseguite nel corso degli anni, dai primi accordi associativi dei tardi
anni ’50 all’ultimo accordo con i Paesi dell’area Africa-Caraibi-Pacifico,
stipulato nel 2000. Con questa analisi si cerca di dare un’immagine esauriente di
come sia nata la politica di cooperazione, di quale significato abbia assunto oggi
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tale politica e di quali siano i caratteri che attualmente distinguono l’approccio
europeo sulla cooperazione allo sviluppo, alla luce dell’evoluzione che il
concetto stesso di cooperazione ha subito dagli anni ’50 ai giorni nostri.
Si pensi, ad esempio, che la politica di aiuto estero europea inizia con la pratica
dell’associazionismo con alcuni paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico, che
prevedeva esclusivamente misure commerciali ed economiche, in seguito
perfezionate attraverso i successivi accordi di Yaoundé e di Lomé, fino alla
creazione di strumenti specifici mirati alla stabilizzazione delle esportazioni e
alla liberalizzazione degli scambi, come lo STABEX, il SYSMIN e il Sistema di
Preferenze Generalizzate. Ora la politica di cooperazione rappresenta un corpo a
se stante all’interno del diritto europeo (i suoi fondamenti giuridici sono
rappresentati dagli art.130U, 130V e 130X del Trattato di Maastricht) ed esiste
una Direzione Generale che si occupa specificatamente di questo tema (la DG
VIII – Sviluppo). Inoltre, attualmente, le regioni coperte da tali politiche
coincidono con l’intero panorama mondiale relativo ai PVS: Africa-Caraibi-
Pacifico, Asia-America Latina, Europa centrale ed orientale, Nuovi Stati
indipendenti.
Quella che potremmo definire la conclusione di questo processo di rinnovamento
istituzionale ed operativo avviato dall’Unione è considerata, al giorno d’oggi, la
stipula dell’Accordo di Cotonou, avvenuta nel 2000 ma preparata già dal Libro
Verde del 1996, dove sono contenute, forse più che altrove, anche le molteplici
critiche alla cooperazione perseguita durante “l’era Lomé”. Insieme alle critiche
vengono esposte le nuove prospettive, in vista della preparazione del nuovo
accordo tra UE e Paesi ACP: la necessità di un più stretto legame politico tra le
due regioni, l’apertura al commercio internazionale, la differenziazione degli
obiettivi a seconda dei singoli paesi. Tutti argomenti che sono poi finiti sul tavolo
delle trattative al momento della stipula del nuovo accordo.
L’Accordo di Cotonou si basa in effetti su cinque pilastri che ricordano molto le
impostazioni date dal Libro Verde del ’96: il rafforzamento della dimensione
politica, il coinvolgimento delle ONG, del settore privato e degli “attori non
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statali”, la “lotta alla povertà”, un rinnovato sistema economico e commerciale,
una nuova struttura finanziaria.
I caratteri distintivi della nuova politica di cooperazione su cui ci è soffermati
riguardano gli approcci relativi ai rapporti con le ONG e alla cooperazione
decentrata, che hanno, in verità, origini anteriori ma che stanno solo in questo
periodo assumendo un giusto riconoscimento e un peso sempre più incisivo. Per
una migliore comprensione del concetto di cooperazione decentralizzata, con
particolare riferimento al valore attribuitogli dalla Comunità, si espone un
progetto esemplare che è quello che ha come finalità l’aumento della
rappresentanza delle donne in occasione delle elezioni amministrative della
Colombia.
Il terzo ed ultimo capitolo vuole offrire una valutazione dei programmi
attuati dall’Unione nelle diverse macro-regioni verso cui gli aiuti sono stati
diretti, per evidenziare i limiti in cui spesso le politiche di cooperazione hanno
dovuto imbattersi e che hanno poi giustificato il continuo rinnovamento delle
strategie adottate, precedentemente analizzato. In effetti l’insuccesso di molti
programmi di cooperazione è stato largamente riconosciuto anche dalla stessa
Unione Europea (come nel Libro Verde del 1996). Tuttavia è proprio questo
insuccesso che ha contribuito all’evoluzione, nel corso degli anni, del modo con
cui affrontare il problema dello sviluppo.
Nella regione ACP, che è stata quella più assiduamente seguita, si può parlare di
molteplici fattori che non hanno permesso l’innesco di uno sviluppo autonomo
(dopo più di 50 anni di cooperazione). In particolare si approfondisce il tentativo
di diversificare le produzioni destinate all’esportazione, la distribuzione regionale
degli aiuti e la distribuzione settoriale degli stessi, oltre che l’effettivo utilizzo
delle risorse stanziate.
Per i paesi del mediterraneo si analizzano brevemente gli obiettivi che l’Europa
spera di ottenere in quest’area, facendo riferimento alla Conferenza di Barcellona
del 1995 e al Programma MEDA del 1996. Lo studio riguarda principalmente