Quella che segue è la cronaca, di taglio epidittico, di
quest’incontro.
“Il capitano si era procurato quattro palloni, uno per plotone, e aveva spinto i
suoi uomini a dribblare con la palla per i due chilometri da attraversare. La
compagnia emerse dalle trincee e i comandanti di pattuglia diedero il via alla
partita contro la Morte. Il prode capitano cadde tra i primi, seguito da molti
soldati, sotto la raffica delle mitragliatrici. Ma le palle continuavano a
essere calciate in avanti, tra rauche grida di incoraggiamento e di sfida,
finché non scomparvero nel fumo denso dietro il quale i tedeschi sparavano. Poi,
dopo che le bombe e le baionette ebbero fatto il loro lavoro, e il nemico fu
debellato, gli uomini del Surrey recuperarono due palloni nelle trincee
occupate: sono conservati tuttora come trofei” (Morris, 1982: 158/160).
In questi frangenti della spietata guerra di trincea, nel 1916,
riportati da un corrispondente bellico, la tragica disciplina
della guerra s’intreccia con la meta-narrazione calcistica, in un
accavallarsi di riferimenti simbolici comuni. La palla assurge a
vessillo postmoderno, pilotando l’assalto alla baionetta dell’East
Surrey Regiment contro le trincee nemiche, trasformando la Terra
di Nessuno tra le rispettive linee in un surreale campo di
football: campo senza righe di gesso, senza pali e traverse, in
cui il tempo della competizione ignora le lancette che scandiscono
i novanta minuti e fare goal significa poter stringere i propri
cari e raccontare loro quella gara con la morte.
Identico scenario. Medesimi contendenti. Lo stesso referente
segnico. Ma questa volta il tonfo sordo del pallone, rimbalzando
goffamente sulle zolle fangose, riecheggia come un suono di pace e
di concordia.
Avvolta nelle nebbie dell’epos, la vigilia della notte di Natale
del 1914 consacrò un miracolo laico, ed annunciò l’epifania
dell’umanità: la natività di un sentimento presto abortito. Sui
parapetti delle trincee del fronte franco-belga spuntarono
alberelli di Natale illuminati da candele, i cui bagliori
allertarono le truppe Scozzesi, avvisate da un dispaccio di un
attacco imminente dei Tedeschi.
Intorno alle otto della mattina la superficie del terreno si
presentava ghiacciata a causa della gelata notturna.
Il capitano Sir Edward Hulse ripiegò al Quartier Generale.
Al suo ritorno un assembramento pacifico e ciarliero affollava la
Terra di Nessuno, mentre le trincee languivano incustodite,
contrariamente agli ordini.
I cadaveri furono seppelliti, mentre soldati tedeschi e inglesi si
scambiavano sigarette e cioccolata, posavano per foto a ranghi
misti e conversavano in tono cameratesco. Era la Tregua di Natale
del 1914, che ispirò suggestioni e digressioni sublimate. Fu in
quel prospetto che il pallone divenne l’unico protagonista della
scena. Il Tenente Johannes Niemann, del 133° Reggimento Reale
Sassone, riferisce che, appena sbocciata la tregua, all’improvviso
apparve dal nulla un soldato Scozzese con un pallone in mano e
così si materializzò il prodigio. Pochi minuti dopo nella Terra di
Nessuno era in corso un incontro di football tra il Reggimento
Reale Sassone e lo Scottish Seaforth Highlanders. La gara fu
concitata ma il rispetto dei ruoli fu assoluto, nonostante il
clima polare e l’assenza di un arbitro di ruolo. I soldati si
rincorrevano e giocavano con un entusiasmo infantile; i tedeschi
deridevano gli Scozzesi per via del vento che spazzava il campo e
sollevava i kilt, rivelando nudità compromettenti.
La stanchezza fu cancellata dall’adrenalina, secreta non dal cieco
presagio della morte, ma dalla limpida visione di quella palla che
rotolava.
“La gara finì con il punteggio di 3 a 2 in favore di Fritz contro Tommy”
(www.fylde.demon.co.uk/xmas.htm: 5).
Nell’immaginario collettivo, in particolare dei tifosi, categoria
antropologica che identifica i tarantolati dal morso del calcio,
la metafora bellica riassume i tratti salienti del football.
Sentenzia, infatti, Desmond Morris: “Così, per quanto lo svolgimento
della partita e “la mira rituale alla pseudo-porta” si basino sull’analogia
della caccia, il risultato finale si ricollega invece al simbolismo della
battaglia... A giudicare dai commenti durante le partite, molti spettatori
preferiscono il confronto diretto tra gli avversari alla sequenza di caccia (il
momento del goal)” (Morris, 1982, p.18).
Gli aneddoti storici descritti in precedenza, da un lato
confermano questa consolidata chiave di lettura, dall’altro
dilatano questa metafora in una prospettiva panoramica. Queste
cronache di guerra c’informano sullo statuto ontologico del calcio
come fatto sociale totale: anche sul filo sottile che separa
l’esserci dal non esserci dell’uomo nel mondo, il calcio riassume
lo spettro dei comportamenti umani e ricompone attorno ad una
ristretta porzione di terreno erboso, o su qualsiasi superficie
piana, un caleidoscopio di emozioni che ne fanno una
rappresentazione allegorica dei fenomeni sociali.
(...)
Un feticcio. Una metafora. Un simbolo.
Questi ed altri significati avrebbe assunto, all’insaputa dei
nerboruti e villosi antesignani, quel globo di cuoio a pezze
irregolari, cucite all’interno con cura certosina. Tasselli
d’epidermide conciata a proteggere una vescica animale, che si
gonfiava con un’ordinaria pompa da bicicletta, mediante un foro
custodito sotto una pezza ellittica, di cuoio più morbido (Brera,
1975).
Una volta animato, quel mappamondo spiritato sarebbe rotolato
convulsamente, sospinto dalle fasce muscolari di gentlemen-
amateurs. In principio, infatti, calcarono il rettangolo verde (se
non gibbose cocomeraie o fangose risaie) esclusivamente distinti
signori d’estrazione borghese e qualche meteorite aristocratico, i
quali abbigliavano camicie coi colori sociali, talvolta cravatte,
scimmiottando i teachers inglesi, braghe alla zuava, e sovente
indossavano berretti (caps, nella lingua madre), secondo il
costume dell’epoca, oltre a non rari baffetti neri (almeno nei
suoi interpreti autoctoni). Rincorrevano un’artigianale e
irregolare riproduzione dell’orbe terracqueo, che avrebbe
scavalcato gli oceani e i continenti, nella paradossale semantica
balistica di questo sferico testimonial copernicano che incocciava
la tolemaica piattezza dei campi da gioco. E avrebbe originato “il
gioco del calcio”, inquadrato in un frame simbolico che riposa su
di una vis pugnandi metamorfica, anestetizzata dalle fregole
sanguinarie, ideale tensione a un agonismo ( ∆ ϑ Ζ Θ, ovvero
l’esercizio della lotta, nonché il luogo di tale pratica) fondato
sul fair play, sul primato incruento e transeunte di un gruppo
umano su di un altro. Così come sostiene Norbert Elias, infatti,
“noi siamo allevati, in conformità con la specifica organizzazione sociale e con
il controllo degli strumenti della violenza delle nazioni industriali dei giorni
nostri, con precisi standard di autocontrollo nei confronti degli impulsi
violenti” (Elias, 1995: 40).
La pratica del diporto: esaltazione di una forma di contingenza,
reversibile per sua natura e non belligerante per convenzione
umana.
I vagiti di una modernità che si affaccia sulla ribalta italica,
in ritardo rispetto al dispiegarsi degli “industrialesimi”
avanzati nell’Europa anglosassone e continentale. Il football,
infatti, attecchì nelle grigie e fumose città inglesi, all’ombra
delle ciminiere e del profitto, somatizzando i lineamenti della
working class, come testimonia la filogenesi dei club proletari,
lievitati sull’onda della riduzione dell’orario lavorativo, che
introdusse l’idea (e la necessità) del leisure time anche presso i
ceti più umili.
Non è certo che tali riflessioni coinvolgessero i ventidue
protagonisti di una gelida Epifania di fine Ottocento, né i
centosettantasette spettatori infreddoliti, convenuti alla pista
di Ponte Carrega, in quel di Genova, per assistere all’evento
(Brera, 1975). Accomodati in parte su sedie numerate, riparati da
un’impalcatura lignea, un ibrido architettonico tra una baita
tirolese e una pagoda, in parte sui gradoni scoperti, in parte
allineati a bordo campo. Dietro ai pali conficcati nel terreno,
con una cordella facente veci della traversa, una panca ospitava i
vestiti affastellati degli atleti (Foto Storari, Treccani, 2002).
E non conosciamo neppure quali pensieri affollassero le meningi di
tal mister Jim Savage, né quali emozioni l’abbiano folgorato,
quando il pallone di cuoio, calciato da questo forestiero
footballer, trafisse il portiere avversario, fissando così il
risultato finale sull’uno a zero.
Per la cronaca, l’incontro in questione si disputò il 6 gennaio
1898, tra l’International Football Club di Torino, fondato dal
torinese Edoardo Bosio nel 1891, e il Genoa Cricket and Athletic
Club, sorto nel 1893 col patrocinio delle autorità diplomatiche
inglesi della Città della Lanterna, una sorta di riserva pedatoria
per sudditi di Sua Maestà Britannica, la regina Vittoria (Brera,
1975). Quest’incontro anglo-sabaudo rappresenta l’esordio
ufficiale, sancito dalle cronache, del football nel Regno d’Italia
e, probabilmente, coincide con il big bang del movimento
calcistico nel nostro Paese.
L’8 maggio 1898, si disputò, infatti, la Coppa duca degli Abruzzi,
organizzata dalla Federazione Italiana del Football, costituita il
15 marzo 1898, sotto l’egida di Luigi di Savoia, il duca degli
Abruzzi, per l’appunto. Si trattava di un quadrangolare, che
coinvolgeva il Genoa e tre squadre torinesi. Prevalse la
formazione ligure in blu e granata, che inaugurò un triennio di
successi (Papa e Panico, 2002).
Le Coppe Federali esaurivano i loro calendari nel volgere di una
manciata di giorni.
Ma il football balbettava e stentò ad imporsi. Il popolino, più
che la seduzione adrenalinica di pressing, penalty, free-kick,
corner e off-side, subiva l’endemico deficit di proteine e
calorie, e più che assieparsi su spalti scalcagnati e attorno a
recinzioni da pollaio, era impelagato nel tirare la carretta, se
non il vomere.
(...)
Accadde che per due anni consecutivi lo scudetto fu cucito su
maglie fuori traiettoria rispetto al tratto lombardo-piemontese
dall’A4. La Fiorentina nel 1968/69, e il Cagliari nel 1969/70
spodestarono la dispotica troika e ingannarono gli idealisti, che
fantasticavano il vento del ’68 soffiare su campi, spalti e nel
Palazzo di cuoio.
Ma Utopia definisce etimologicamente un Non Luogo, per la
precisione una proiezione dello spirito umano che si rappresenta
ciò che dovrebbe essere in linea di principio, o come l’uomo
vorrebbe che fosse. Nella congiuntura idillica e periferica del
calcio italiano di quegli anni, Utopia addirittura abbracciava una
distorsione onirica del reale che offuscava la percezione
cosciente dell’eccezione.
Eppure Tommaso Moro ammoniva: “io sostengo decisamente che, se alla fine
di quella carestia si fossero ispezionati i granai dei ricchi, si sarebbe
trovata tanta abbondanza di cereali, che, a distribuirli fra quanti dovettero
soccombere all’inedia o alle malattie, nessuno avrebbe minimamente patito per
quella sterilità del terreno o del clima” (Reale e Antiseri, 1983: 98).
Le carestie colpiranno puntuali non solo i feudi gigliati e
isolani, ma ciclicamente s’abbatteranno su tutte le avanguardie
geo-politiche del calcio che tenteranno l’assalto a quei granai,
rivelandosi capitali evanescenti come l’Amauroto di Tommaso Moro
(la capitale dell’isola di Utopia, dal greco ∆ Π ∆ Ξ Υ Ρ ς,
“evanescente”), destinate ad inabissarsi alla stregua di Atlantidi
postmoderne (Reale e Antiseri, 1983).
(...)
Il football, propagatosi facilmente oltremanica dalla madrepatria
inglese, anche in virtù della sua semplicità, e affermatosi nel
corso del ‘900 in forma di attività sociale diffusa, ha sviluppato
una configurazione relazionale che ne ha rivelato la natura di
fenomeno emergente.
Il carattere di “emergenza” si manifesta nell’effervescenza degli
albori della pedata: l’istituzionalizzazione negli organismi
federali, nazionali e sovra-nazionali, non appassiva i germogli
della spontaneità, emozionale e fenomenologica, che si alimentava
del substrato etico del gioco. In origine, infatti, almeno fino al
secondo dopoguerra, il calcio infiltrava saldamente le radici
nell’humus dell’ethos sportivo e dell’agone ludico, nei suoi
valori autarchici, a tratti sciovinisti, e nelle sedimentazioni
identitarie. Gli attori sociali, interagendo nella definizione
dell’evento calcistico, attivano e producono sempre qualcosa di
pratico, che costituisce un riflesso delle relazioni con l’altro
(Donati, 1998).
Una relazione vivace, quindi, che manifestava un’intrinseca
contingenza e possibilità attualizzabili in qualsiasi momento, per
le caratteristiche di fatalità e imprevedibilità del gioco. Il
fatto che “per conservare questa semplicità, le regole del calcio, le leggi
tribali, sono restate sostanzialmente uguali nel corso degli anni” (Morris,
1982: 32) non ha impedito di rinegoziare alcune regole interne,
nel continuo aggiornamento del codice normativo extracalcistico e
della congiuntura storica, politica ed economica. La pratica
sportiva, intrinsecamente dinamica, ha rivelato straordinarie
capacità performative, “contaminando” le agenzie coinvolte nella
formulazione di quel particolare framework, con la sua
fenomenologia processuale. Tutti gli attori interessati (in primis
i proto-organizzatori, poi i partecipanti, gli spettatori, e in
seguito i cronisti, i cosiddetti addetti ai lavori, gli enti di
controllo) contemplavano la relazione con l’ambiente come dinamo
del movimento calcistico, con l’interazione serrata tra uomini,
eventi, fatalità, organizzazioni complesse, ed hanno assegnato al
gioco del calcio il ruolo di polo dialettico del sistema sociale,
in cui la transitività della relazione contaminava l’uno e l’altro
dei termini dialettici. Del resto, il calcio attecchì da subito su
scala planetaria, fatta eccezione per gli Stati Uniti, il Canada e
qualche altro lembo del globo, e s’affermò gradualmente in modo
trasversale nella stratificazione, coinvolgendo qualsiasi livello
umano, ludico, emozionale, giuridico, economico, politico. In
questo modo, nonostante le regole del gioco seguano il principio
dell’isomorfismo, e il calcio si sia propagato senza processi di
acculturazione (Papa e Panico, 2002), una rete di cerchie sociali
produceva procedure e norme tecnico-tattiche e le rinegoziava,
declinava casi di vita reale o pure suggestioni, generava
contributi stabili di senso oppure “incidenti” congiunturali che
si diluivano nell’ambiente. Mi riferisco al fatto che
l’interazione muscolare ed emozionale tra i partecipanti, fuori e
dentro il campo, ripudia uno standard semiotico, ragion per cui la
produzione di significati interviene in forma poliedrica nelle
specifiche coordinate di senso per via della polisemia del gioco,
della rielaborazione degli attori coinvolti, della lettura dei
processi sociali e dei tumulti della storia. Alcuni significati
sono proiettati direttamente nell’universo simbolico di chi
recepisce i messaggi, li metabolizza e li codifica (per esempio
l’identificazione tra club e città o quartiere, oppure
l’affermazione di valori maschilisti tra i tifosi militanti, o
della competizione, tra gli esponenti della borghesia cittadina),
altri invece fluttuano nella nebulosa cognitiva dell’adescamento
empatico e della suggestione, cioè nella maturazione subitanea di
emozioni incandescenti e nel loro altrettanto repentino deperire,
fino alla necrosi, o ancora al rifiorire spontaneo, comunque
legate al “hic et nunc” (mi riferisco all’arco emotivo esperito
durante l’evento agonistico, nei momenti immediatamente successivi
o precedenti, o in altri ad esso collegabili).
La mia impressione è che il calcio stia destrutturando la
configurazione relazionale, a causa dell’evaporazione della linfa
“etica” ed “eidetica”, cioè della progressiva alienazione del
simbolo calcistico dai suoi agenti segnici, intesi come etero-
referenza dei tifosi, che ne legittimano la dimensione
partecipativa, e dal ridimensionamento (fino alla dissoluzione)
della quintessenza ludica, per il cortocircuito ermeneutico tra
performance, media e profitto. Il calcio converge verso una
dimensione sempre più autoreferenziale, specializzandosi come
medium comunicativo del sistema economico: un aggregato di attori
sociali collabora sinergicamente, anche in apparente regime di
competitività, per realizzare obiettivi economici diversificati e
attualizzare attraverso il linguaggio dello sport operazioni
sistemiche di superiore complessità. Un meccanismo di riduzione
della complessità a tutti gli effetti, che rielabora nelle arene
calcistiche e sintetizza nella chiacchiera mediatica processi
extrasportivi quali: il riciclaggio di fondi stornati da altri
settori del gotha finanziario che sovrintende al calcio; la
creazione di una vetrina promozionale per singoli prodotti o
intere griffe industriali; uno strumento culturale di produzione
del consenso, per ridefinire posizioni egemoniche anche in sede
politica; la formazione di una sottoclasse di consumatori, che
gravita nell’orbita del pallone, e genera profitti e indotto;
l’atavica funzione del panem et circenses, sfruttando il transfert
emotivo che distoglie dalla base strutturale dell’economia.
Il medium selettivo di cuoio svolge al tempo stesso una funzione
vicariante rispetto ad un deficit normativo, ideale e integrativo,
argine (e area golenale!) dei possibili effetti destabilizzanti di
una deriva anomica.
Preciso che esprimo queste valutazioni in forma d’ipotesi
personale, concepita in seguito alla lettura di un processo, e
alla conseguente formulazione di una rappresentazione, da parte di
chi frequenta gli stadi dalla tenera età e interpreta gli
epifenomeni culturali del calcio non attraverso la lente
dell’osservazione partecipante, piuttosto con una partecipazione
osservante, nelle vesti di membro interessato (e osservatore
privilegiato) di una comunità o di un gruppo sociale, come
specifica Gubert (Altieri e Perino, 1998). Quanto ho rilevato, e
rileverò ulteriormente in questa sede, rischia di non
corrispondere necessariamente a un lavoro di analisi scientifica o
di esegesi di teorie sistemiche, e di farsi influenzare talvolta
dal parziale e arbitrario punto di vista di chi scrive, senza
alcuna presunzione se non quella di fornire un modesto contributo
alla comprensione dell’evento calcistico e dei fenomeni sociali
connessi.
(...)
La professionalità sancisce l’incipit della trasformazione da
momento di partecipazione collettiva, nella dimensione del leisure
time, a fenomeno mercantile e mediatico, alterandone i fenotipi.
Questo processo incanalerà la polisemia del gioco verso la one
best way della commercializzazione, che impone il consumo di
surrogati calcistici, dalla pay per view, alle immagini sui
videotelefoni, al merchandising: in fin dei conti, “l’obiettivo
fondamentale è la diffusione del marchio” (Liguori e Smargiasse, 2003:
22). Tutti gli interventi promossi dai signori del calcio vanno in
questa direzione, attraverso la modificazione dell’apparato
normativo, del palinsesto, e delle conseguenti modalità di
fruizione della merce “football”. Ovviamente tutto questo si
ripercuote sulla percezione dell’evento da parte dei tifosi-
consumatori e, in ultima analisi, delle rappresentazioni
simboliche, orientate ad un pattern consumistico, che
supporteranno la promozione del marchio.
(...)
La questione che si pone a questo punto è se lo stadio attuale
coincida col capolinea evolutivo di questo processo, quindi con
l’omeostasi dell’organismo calcistico. L’altra ipotesi, dagli
esiti imprevedibili, è che la chiusura operativa del sistema
football selezioni una ulteriore specializzazione, sostituendo
l’evento sportivo con la sua proiezione virtuale: il calcio
giocato scomparirà, soppiantato dalla sua deformazione sinestesica
in stile play-station.
L’homo faber del cuoio, condannato alla residualità e relegato in
biotopi marginali, quali i campetti parrocchiali o gli spiazzi di
periferia, atrofizzerà i propri tessuti vitali, fino a scomparire.
La scansione dei fotogrammi su schermi e monitor e i suoni e le
voci campionate appagheranno la fame chimica di calcio e i veri
professionisti saranno ingegneri informatici e tecnici audio-
video, con l’appendice folcloristica della corte dei miracoli dei
cosiddetti addetti ai lavori.
Dei giocatori con una reale fisionomia e un’identità anagrafica si
perderanno le tracce: riappariranno i volti solamente sull’album
dei ricordi delle figurine Panini.
(...)
La finestra interpretativa di questa tesi, ossia che il calcio
riverberi la fenomenologia dello spettro sociale che lo produce,
m’impedisce digressioni moralistiche e filippiche sul traviamento
di un supposto idillio sportivo, eudemonico e adamantino.
Le arene calcistico-mediatiche non infangano quella sedicente
“società civile” che si professa mortificata dal corrotto mondo
del pallone; in realtà coniugano il paradigma utilitaristico della
medesima “società civile” in un frame agonistico, sublimato da
suggestioni estetiche ed emozionali e formattato in un’icona
ludica, masterizzabile a piacimento, nella nicchia domestica o nei
luoghi della chiacchiera pubblica.
(...)
Le sgroppate sulle fasce, le decisioni arbitrali, le intemperanze
del pubblico, tutta la fenomenologia dentro (e fuori) i campi di
calcio riposa sulla polisemanticità del gioco, che favorisce
molteplici interpretazioni del dato contingente e sollecita una
“personalizzazione del senso”.
Questa polisemia s’iscrive però in una prospettiva giocosa e di
entertainment, sulla quale l’investimento emotivo risulta im-
mediato, in-cruento e replicabile all’infinito, con criteri di
omogeneità e “solubilità” negli umori individuali e collettivi,
senza che s’inneschino feed-back eversivi e scosse telluriche
destabilizzanti.
La poltrona del tinello come lo sgabello al bar, il dondolo in
giardino come i capannelli spontanei si elevano a masterizzatori
cognitivi di quest’icona ludica, sacra imago dell’infanzia
introiettata nell’adolescenza, con il suo fardello di segni e
significati.
(...)
Ma il tifoso “catodico”, che assiste a una rappresentazione dello
spettacolo calcistico filtrata dal medium, rispetto al tifoso
“sincretico”, che abbraccia in modo sinottico il palcoscenico,
smarrisce l’effervescenza dello spettacolo.
(...)
Di sicuro, la spinta propulsiva verso una performance sempre più
televisiva e virtuale non conosce battute d’arresto. La direzione
è, per l’appunto, quella che va verso un calcio de-
contestualizzato, in cui lo stadio si riduce ad una specie di
screen-saver e i cori dei tifosi ad un jingle pubblicitario.
(...)
Spesso ho avuto l’impressione, non solo nella frequentazione degli
stadi, pure in queste estemporanee folgorazioni in itinere, che le
sagome degli spettatori non si limitassero all’orlatura antropica
del rettangolo di gioco, ma che legittimassero il senso di quel
sintattico rimpallare il cuoio. Gli spettatori, unità periferica
rispetto alla pratica sportiva, tratteggiano il perimetro
materiale della rappresentazione scenica, che definisce il quadro
fenomenico, ma particolare rilievo ha la funzione di cornice
semantica, in simbiosi espressiva con il gioco stesso.
(...)
Allo stadio, questo luogo edenico e simbolico, la reductio ad unum
dell’infinita complessità del mondo concentra il senso nel
rapporto binario amico/nemico, prassi ancestrale nella
legittimazione tribale dell’identità:
(...)
Secondo me il nodo gordiano da sciogliere si colloca
nell’intersezione tra l’apogeo del calcio come fenomeno sociale e
la lacerazione di un’identità originaria, di fatto sociale totale,
performativo, transitivo, allegorico. Il calcio irreggimentato dai
signori del vapore e dai loro pretoriani, con il pathos religioso
ormai de-sacralizzato dall’autoreferenza mercantile delle pay tv,
dall’overdose mediatica e dagli sponsor paperoni, sterilizza le
residuali transazioni di mondo vitale.
Personalmente non diagnosticherei un trauma nelle intemperanze
degli hooligans e nella cosmogonia della galassia ultrà, piuttosto
vigilerei sull’emorragia dei tifosi sincretici, a prescindere
dalla dislocazione sugli spalti. L’eziologia dei mali del football
segnala il malessere del sistema nella graduale espulsione dei
tifosi dal loro ecosistema, e nella possibile implosione della
galassia ultrà, che lascerebbe in orbita una supernova, luccicante
e pirotecnica solo nella patina mistificatrice di placebo
psichedelico.
(...)
Come anticipato nel titolo del paragrafo, io ho definito le curve
“luoghi della pregnanza”, sintonizzati sulla polisemanticità del
gioco del calcio, che declinano in molteplici forme il senso,
weberianamente inteso come elaborazione di un significato da parte
del soggetto cosciente, che orienta l’agire di quest’ultimo.
(...)
La lettura di questo fenomeno è così riassunta in un
divertissement, e si articola in un’evoluzione tripartita del
football in Italia (...)
Ethos inteso come primato delle norme di comportamento di una
società o di un gruppo umano, bussola fenomenologica che orienta
l’evento calcistico, un codice non scritto che presiede ai
comportamenti dei partecipanti, delle pratiche ludiche e degli
epifenomeni che da queste scaturiscono (...) I fondamenti morali
rappresentavano i termini dialettici che co-generavano e
legittimavano la disciplina atletica. La partecipazione
rappresentava la conditio sine qua non e la linfa nutritiva della
rappresentazione agonistica. (...)
Gradualmente l’ethos si diluisce però nella rappresentazione
deformata dell’evento calcistico, una sorta di processo
mitopoietico che rafforza una sublimazione del cuoio, in parte
insita nei meccanismi emozionali di questo sport di massa. E’ la
genesi dell’epos, la trasfigurazione della dimensione puramente
ludica in un’estetica del calcio, che si alimenta di miti, eroi e
valori che vanno oltre la sintassi che regola la competizione
sportiva. L’immaginario popolare aderisce all’estetica
dell’effimero calcistico, che si radica nel terreno fertile del
benessere economico, e innalza il livello delle aspettative di una
comunità ormai affrancata dallo stato di necessità. Le giovani
generazioni degli anni Ottanta rivendicano le franchigie della
visibilità, unica risorsa spendibile nella società dell’immagine.
Convalidano così l’epos costruito sul calciatore di successo:
(...) L’epos del calcio diventa uno stadio transitivo tra potenza
e atto, onirico e reale, suggestione e quotidianità. (...)
Con la compiuta maturazione della calcistizzazione, sotto l’egida
dei palinsesti commerciali e delle tv a pagamento, l’eros assurge
ad archetipo, saldatura tra football e società.
Eros come esercizio del fatuo, dell’inane, del voluttuario.
Eros come dimensione estetizzante, metonimia del feticismo
edonistico, che permea il reale, che orienta il cognitivo. (...)
La polisemanticità del calcio amplifica la dissociazione dei segni
dal reale. Impalpabile e discreto, l’eros s’insinua nella
scollatura tra segni e significati. L’eros è tanto la
manifestazione empirica del feticismo edonistico, quanto la
caratura semantica dei processi psichici che presiedono ai
comportamenti.
I calciatori sono idoli della folle e sex symbol.
Gli eroi con le scarpette chiodate incarnano un parametro
esistenziale, espressione di un’identità in precario equilibrio
tra l’adattamento al vissuto e la proiezione in una dimensione
astratta, quella della simulazione del reale e del transfert
edonistico.
(...)
La comunità del football si propone come meta-network in grado di
interagire con altri network che parlino lo stesso linguaggio.
Quello del calore comunicativo e della centralità dell’essere
umano.
(...)
Ma il network calcistico si colloca in un disegno di più ampio
respiro. Date le distonie nelle transazioni societarie che frenano
il calore comunicativo, questa rete di attori e agenzie in
relazione può innestarsi su altri network, di frequenza variabile,
e connettere così i singoli nodi in una trama superiore di meta-
network.
Chi frequenta lo stadio si rende comunque partecipe di
un’esperienza di condivisione. Se si estende il fronte dei com-
partecipanti aumenta proporzionalmente il flusso di comunicazioni.
Il contrassegno identitario e la capillarità della diffusione
mediatizzata del messaggio, per quanto di intensità e contenuto
più debole rispetto al transfert stadiense, ne accelerano la
circolazione.
I tifosi non fanno certo comunità, ma rappresentano un network
analogico, che può facilitare la comprensione tra gli individui e
la saldatura tra network diversi.