4
come jouer, appunto, o to play, termini che sottolineano il lavoro dell’attore, e che la nostra
lingua non riporta. Il gioco del teatro che parte dal gioco della vita, da quell’altro da sé di cui
parlava Adorno
2
, per poi staccarsene e diventare trasfigurazione, arte, ricordo, poesia, a seconda
di quale sia il ‘giocatore’, e soprattutto a seconda che vi sia o meno una componente di “critica
della cultura” e dell’esistente.
Ma l’attore romano al romanzo della sua vita teatrale contribuì non poco, iniziando la genesi
del suo mito proprio a partire dalle autobiografie pubblicate nei tardi anni Trenta, dove
raccontava il suo percorso dal baraccone di piazza Pepe sino ai successi internazionali senza
usare false modestie e senza prendersi mai del tutto sul serio, allo stesso modo con cui ha sempre
agito anche sul palcoscenico. Le sue pubblicazioni ci raccontano la storia di un uomo e di un
artista irrequieto e oltre ogni modo cosciente della propria grandezza, deciso a lasciare dietro di
sé le tracce del proprio passato oltre l’effimero dell’evento teatrale
3
con uno sguardo sempre
rivolto al futuro. Lui stesso, in un’intervista con Enrico Franchi, ci rivela di aver sempre recitato
per il pubblico che aveva di fronte, ma anche, se non soprattutto, per qualcun altro:
-Io sono, sì, applaudito e mi fa piacere, ma quando recito, recito per qualcuno che so che mi
comprenderà
4
.
2
“Nella sua differenza dall’esistente l’opera d’arte si costituisce necessariamente in relazione a ciò che essa come opera
d’arte non è e che solo la rende opera d’arte. Si può osservare che a partire da un certo punto della storia si insiste
sull’aspetto non intenzionale dell’arte, intendendosi ciò come simpatia per le manifestazioni artistiche inferiori: così in
Wedekind che sbeffeggiava gli ‘artisti d’arte’, in Apollinaire, o forse anche nelle origini del cubismo. Tale insistenza
tradisce l’inconscia autocoscienza che ha l’arte della sua partecipazione a ciò che le è contrario; quella autocoscienza
motivò la svolta che l’arte fece verso la critica della cultura, sottraendosi all’illusione del suo esser puramente
spirituale”; T. W. Adorno, Teoria estetica, Torino, Einaudi, 1978, pp. 12 – 13.
3
In un capitoletto della sua ultima autobiografia, intitolato Perché scrivo, Petrolini afferma: “Io scrivo perché in fondo
sono convinto che, scomparso un attore, tutto scompare con lui, e siccome io amo la longevità penso che se io mi
defungo, quando si leggerà un mio libro sarò io a tornare… mi sembrerà di rivivere, anche da morto… E se fossi
convinto che quando parleranno di me io tornerò a sentire? Vi sembra poco anche se fosse un’illusione?…”; E.
Petrolini, Un po’ per celia, un po’ per non morir…, in: Id., Ettore Petrolini, Facezie autobiografie e memorie, cit., p.
260.
4
E. Franchi, Petrolini a lumi spenti, “Il dramma”, 1926, n. 3, pp. 38 - 40.
5
Nella stessa intervista Petrolini racconta l’episodio della sua permanenza nel riformatorio di
Alessandria, un momento della sua vita che certamente dovette influire molto sulla formazione del
suo temperamento ed anche sulle sue decisioni future:
Oggi, come vedi, c’erano i ragazzi del riformatorio…
-Come?
-Sì, non li hai visti?
Perché anch’io da ragazzo, sono stato in casa di correzione varie volte.
[…]
Mi par di sorprendere un attimo di commozione nel viso maschio di Petrolini, un attimo di
gentilezza che vale un tesoro.
-Come ti sei accorto di avere il temperamento d’attore?
-Mah! In quell’epoca non mi accorsi di nulla. Ora lo percepisco.
-Perché?
-Per un’infinità di cose avvenute nella mia infanzia
5
.
L’infanzia diventa allora per lui un momento fondamentale, in cui la coscienza di sé e degli
altri, seppur vista con gli occhi di un bambino, iniziò a formare la base critica che lo porterà nel
tempo a chiarire modi e motivi dell’arte teatrale e del suo essere attore in particolare. Come da
giovinetto, piangendo e soffrendo mestamente si fingeva parente di qualche morto nelle
processioni funebri per sentirsi un attore, per fare colpo su un pubblico coinvolto dalla sua
partecipazione sofferta, allo stesso modo da artista affermato egli richiamerà sempre la verità a
teatro. Come i partecipanti al funerale erano commossi dall’‘interpretazione’ di quel bambino
che sembrava inconsolabile, così la critica parigina lo elogerà per quel senso di verità, di
naturalezza che egli sapeva sprigionare perfino nel personaggio buffonesco di Sganarello del suo
Medico per forza. Ma come vedremo, proprio questa verità di cui fu intriso il suo teatro -punto
fondamentale della poetica di Petrolini- è da intendersi però sempre come verità (autenticità)
della finzione teatrale. Anche la sua frase “recito per qualcuno che so che mi comprenderà” è
importante, perché indica l’intenzione di superare gli spettatori presenti in sala nell’atto del
recitare, escludendo il fatto che il pubblico in quanto tale possa essere in grado di comprendere il
5
Ibidem.
6
suo teatro. La sua percezione, sia dell’arte che della realtà storica, non ammetteva vane illusioni
ed andava subito a collocarsi sotto il segno inevitabile della contraddizione e del
fraintendimento, anche nelle stagioni di maggiore successo
6
.
Ma questo aspetto della modernità, lo stoicismo di chi, seppur scettico, non può evitare di
agire nella contraddizione, è proprio uno fra i tanti insegnamenti che Petrolini ci ha lasciato. Per
questo la sua frase rivela anche altro e cioè che, lasciando aperta una porta che guardava al
futuro, Petrolini rivelava in maniera inequivocabile che quel pubblico, da lui per altro sempre
stimato, non rappresentava comunque il referente ultimo al quale era rivolto il suo teatro,
lasciando in questo modo alla storia e a chi sarebbe venuto dopo di lui il compito di ricondurre
nelle giuste proporzioni la portata del suo genio. La morte precoce, avvenuta nel 1936 all’età di
cinquantadue anni, e proprio pochi anni dopo la consacrazione ottenuta con le sue tournèe
internazionali, non ha certo agevolato questo mandato; nel corso degli anni, attorno a Petrolini si
è addensata una nebbia dalla quale la sua figura emerge a sprazzi, come un fantasma, sempre a
metà fra il grande attore di livello internazionale ed il ‘buffone’ di varietà che cantava
canzoncine romane.
Ma tornando alle date delle sue pubblicazioni, ecco che Ti à piaciato?, la sua prima in
assoluto, risale al 1915, anno nel quale egli fondò anche la sua nuova compagnia di rivista,
mentre la sua seconda pubblicazione Abbasso Petrolini!, del 1922, usciva intorno al periodo che
segnò per lui l’abbandono della rivista per fondare una compagnia di prosa. Quasi fossero
testamenti, ad ogni nuova ‘avventura’ teatrale corrispondeva grosso modo la pubblicazione di un
libro dove egli raccoglieva la produzione delle stagioni trascorse; dalla raccolta di battute del suo
6
Scriveva in proposito Silvio D’Amico: “Si sa che agli attori Shakespeare raccomandava, per bocca del principe
Amleto, di non indulgere in predilezioni banali del pubblicaccio: ‘Il giudizio dell’uomo di gusto deve, per voi, avere più
peso che quello d’un’intera platea’. Ma a chi dunque s’ha da rivolger l’attore: a un uomo, o a una folla? Ahimé, il
Teatro è difficile appunto per ciò, che dovrebbe conciliare tutt’e due le esigenze: quelle del pubblico, e quelle dell’arte.
Scriveva anni addietro un nostro critico: ‘Il grande teatro di domani sarà quello che piacerà, insieme, a me e al mio
portiere’. E qui fu la vittoria di Petrolini: che ebbe per sé tutt’e due le conquiste: la folla, e gl’intelligenti, diciamo pure i
raffinati. Accuse a Petrolini (rare, ad esser sinceri) io ne ho intese fare soltanto da ‘borghesi’”; S. D’Amico, Maschera
di Petrolini, in: Bocca della verità, Brescia, Morcelliana, 1943, p. 244.
7
repertorio di varietà ad una serie molto importante di recensioni dei suoi anni di attività nel teatro
di rivista. Con una cura sconosciuta agli attori suoi contemporanei, ma anche agli attori in
generale, Petrolini crea dunque da sé la prima sezione critica del proprio teatro che a tutt’oggi
rappresenta una preziosa base di partenza con la quale un critico può impostare un lavoro di
studio e di ricerca nei suoi confronti
7
. Anche in questo caso Petrolini, visto con gli occhi di oggi,
sembra lanciare una sonda nel futuro assicurandosi, o forse meglio nutrendo la speranza, di
vedere riconosciuto il giusto valore alla sua arte. A questo scopo Petrolini si adoperò, anche negli
ultimi mesi di vita, affinché la sua autobiografia, Un po’ per celia, un po’ per non morir…
venisse pubblicata al più presto; dal 1932 in avanti, non a caso, si ritrova in lui un’angoscia e
una smania di pubblicare delle opere, al di là del loro valore (Un po’ per celia ad esempio è una
pubblicazione abbastanza scolorita rispetto ad un’altra autobiografia precedente che si intitolava
Modestia a parte…, come non particolarmente bella è quella postuma, Al mio pubblico) in modo
che rimanessero a testimonianza del proprio teatro e della poetica che frequentava
8
.
La morte, oltre che gli occhi, chiude anche le labbra, ed il silenzio dell’uomo consegna alla
storia una possibilità che Petrolini certo non doveva considerare con indifferenza, e cioè quella di
essere ancora una volta frainteso, senza per giunta avere la possibilità di replicare, di difendersi,
come spesso faceva in vita, rispondendo senza remore ai critici ch’egli reputava in torto. E
questo atteggiamento, questo timore di Petrolini, è un punto importante, perché se è vero come è
vero che sono le opere d’arte, anche se effimere come quelle teatrali, a parlare per l’artista in
mancanza di documenti, ecco che forse in Petrolini la convinzione nella propria opera non era
poi così forte come ci si potrebbe aspettare. Per qualche motivo, che noi comunque definiamo
come errore, o limite culturale, Petrolini voleva esser sicuro di aver convinto non tanto il
7
Allo stesso modo Petrolini pubblicherà nel 1933 un libretto di recensioni dei suoi spettacoli londinesi dal titolo Ettore
Petrolini as Seen by the British press, con una prefazione di Dino Grandi.
8
L’autobiografia postuma, e pubblicata presso la casa editrice Ceschina di Milano dal figlio di Petrolini, Oreste, risale
al 1937, e raccoglie tutta una serie di frasi e di pensieri dell’attore romano che se non possiedono il brio e la prontezza
di spirito delle autobiografie precedenti, rimangono comunque a formare un documento molto interessante per
riscoprirne la poetica teatrale.
8
pubblico, ma la critica tutta, del proprio valore artistico, timoroso appunto che dopo la morte la
sua carriera d’attore e di autore potesse cadere nel vuoto. Ma questa è solo una possibilità,
un’ipotesi, perché all’attore romano i riconoscimenti in vita non sono mai mancati, sia in patria
che all’estero; ma è solo sulla base di un errore culturale, probabilmente dovuto alla sua carriera
di autodidatta in un teatro che si avvaleva sempre più di figure eterogenee ed esterne, come
scrittori, filosofi, poeti, persone appunto di cultura e dagli studi regolari ed approfonditi, è solo
partendo allora dalla voglia di colmare questo gap culturale che si può spiegare la sua rinuncia al
varietà e al teatro di rivista per prendere parte al più stimato e recensito teatro di prosa.
Ecco che le date ci soccorrono. Se il passaggio dal varietà al teatro di rivista ha una data
piuttosto precisa, riportata da tutte le fonti in maniera unanime, per il passaggio al teatro di prosa
non vale lo stesso discorso; a seconda delle fonti questa data varia, sino a ricoprire gli estremi fra
il tardo 1921 ed il tardo 1924. Non che questo fatto rappresenti in sé un problema fondamentale;
soltanto, per la precisione, occorrerà scegliere una data convenzionale, tenendo presente alcuni
momenti. L’anno 1921, ad esempio, rappresentò per Petrolini un anno importante, di transizione,
con la lunga tournèe in Sud America, la terza della sua carriera dopo quelle del 1907 e del 1909,
dove propose al pubblico d’oltreoceano le sue macchiette ed alcuni atti unici, e dove rielaborò,
da una commedia di due autori argentini, De Rosa e Discepolo, quello che diventerà uno dei
personaggi più amati in assoluto, Mustafà. Del grande successo ottenuto l’attore riportò ancora
una volta alcuni articoli nel suo libro Abbasso Petrolini!.
Trascorso il 1921, è nell’anno seguente che Petrolini portò al successo le prime commedie
drammatiche, sin lì proposte sporadicamente, come il Cortile (1918) di Fausto Maria Martini o
Un garofano (1920) di Ugo Ojetti, o il nuovissimo Notturno di Guelfo Civinini, ed è soprattutto
nel 1922 che si ha la prima della riduzione molièriana del Medico per forza che rimarrà sino alla
fine uno dei cavalli di battaglia dell’attore, celebrato anche alla Commedie française nel 1933.
Ma qui sorge un problema: “L’arte drammatica”, rivista teatrale che faceva anche da agenzia per
9
le compagnie, nella sezione dedicata ai movimenti dei capocomici sia nella stagione comica
1922 – 1923, ma anche in quella 1923 – 1924, continuava a riportare Petrolini nell’elenco delle
compagnie di rivista; soltanto con il numero del 6 settembre 1924 Petrolini risulterà nel novero
dei capocomici appartenenti al teatro di prosa. A cosa sia dovuto questo ritardo, visto che tutte le
fonti fanno risalire il suo passaggio al teatro di prosa nella stagione a cavallo fra il 1922 e il
1923, non è possibile rispondere, a meno di prendere questa data come quella reale e
considerando quindi “L’arte drammatica” come fonte principale.
Anche in questo caso però questa data, settembre 1924, almeno in apparenza, risulterebbe
errata; all’inizio del 1923, infatti, Petrolini portò in scena un atto unico ripreso da Lumìe di
Sicilia, di Pirandello, e cioè quell’Agro de limone che gli varrà, anche se non subito
9
, il plauso
unanime di pubblico e critica; ma nello stesso anno Petrolini portò in scena anche altri lavori
piuttosto noti, come Il Ghetanaccio, elaborato insieme a Jandolo, o L’Illusionista, dall’omonima
commedia di Sacha Guitry. Oltre a tutte queste novità drammatiche, sempre nel 1923, egli portò
alla definitiva consacrazione quel Medico per forza presentato al pubblico l’anno precedente;
infine, il 14 aprile 1924, a Bologna, Petrolini mise in scena per la prima volta il suo Gastone in
due atti, opera che inaugura la sua comparsa nei cartelloni di prosa come autore di commedie.
Proprio in base a questi lavori e a queste prime molto importanti la data riportata dall’“Arte
drammatica” appare tardiva, e per questo motivo prima si parlava di trovare una data
9
Per descrivere il clima con il quale vengono accolte le sue prime novità è interessante leggere il commento di Vice e
Nicolai, piuttosto ‘cauto’, riportato proprio dall’“Arte drammatica”, rivista che da lì a qualche anno farà di Petrolini uno
dei propri beniamini: “Petrolini spopola: il suo repertorio si è ora arricchito di interpretazioni d’arte degne di nota: fra
queste il Cieco di F. M. Martini, il Garofano di Ojetti ed altre. Questo singolarissimo attore, che sa, quando vuole,
essere un artista, dopo aver dato la misura della sua esuberanza di comicità, sta ora provando luminosamente di sapere
anche impressionare, e commuovere”; Vice e Nicolai, Nazionale, “L’arte drammatica”, 17 giugno 1922, p. 2. A parte
l’errore nel riportare il titolo del Cortile, è singolare come gli autori con la frase “il suo repertorio si è ora arricchito di
interpretazioni d’arte degne di nota” sostengano implicitamente che la sua attività teatrale sia stata sino ad allora,
appunto, non particolarmente degna di nota, fatto confermato anche dal commento sulle sue qualità recitative:
“Singolarissimo attore, che sa, quando vuole, essere un artista”. Come si può notare anche qui è implicito nel discorso
che a Petrolini la possibilità di essere un artista non viene ancora riconosciuta se non come exploit, nei momenti cioè in
cui questo “dopo aver dato la misura della sua esuberanza di comicità” si dimostri capace di essere anche un attore
drammatico, in grado di “impressionare, e commuovere”. Tutti gli articoli di simile tenore, e sono parecchi,
compongono a nostro avviso la base di quel limite culturale, o di quel sentimento di sfida -ma il senso non cambia- che
porterà Petrolini ad elaborare un teatro di prosa che tenesse conto delle richieste della critica, disposta a fare di lui un
grande artista soltanto a partire dalla messa in scena di lavori drammatici.
10
convenzionale, che possa in qualche modo essere posta come spartiacque fra i due periodi
teatrali di Petrolini; in questa direzione la data sarebbe a nostro avviso quella del gennaio 1923,
prima di Agro de limone, presentato a Milano insieme al Medico per forza e all’atto drammatico
E’ arrivato l’accordatore di Paola Riccora. A ciò si aggiunga anche il fatto della già citata
pubblicazione, verso il finire del 1922, di quell’Abbasso Petrolini! che rappresenta a tutti gli
effetti la summa critica delle sue stagioni nel teatro di rivista, risultando in questo modo il ponte
ideale verso il teatro di prosa, laddove al contempo lo studio e la realizzazione di un repertorio
drammatico veniva elaborato sino almeno dal 1920. In questo modo, nel 1923, Petrolini si
presenta al pubblico di prosa -che però ovviamente è in sostanza lo stesso di quello del teatro di
rivista- ed alla critica più illustre con una serie di spettacoli variegati e di spessore, dove
compaiono, oltre ai drammi e ad un autore come Pirandello, anche diversi atti unici comici e
farseschi, e fra gli altri proprio quel Medico per forza che ripropone il teatro classico delle
commedie di Molière: un repertorio che per noi esprime al meglio la produzione petroliniana
degli anni Venti e che proprio per queste concomitanze ci fa scegliere le prime milanesi del 1923
come data ideale del suo passaggio al teatro di prosa, anche se eventualmente in anticipo o in
ritardo rispetto a quella reale
10
.
E proprio a proposito di questi lavori drammatici è quanto scrive lo stesso Petrolini a darci
l’impressione che egli avesse in qualche modo ceduto di fronte alle posizioni della critica; il
passaggio al teatro di prosa assume allora, in questa luce, i connotati di un compromesso, che se
da una parte nulla toglie al valore dell’attore, dall’altro risulta alla fine il motivo principale
dell’abbandono di un mondo, quello del varietà e della rivista, vissuto da Petrolini come un
10
A proposito dei suoi nuovi lavori drammatici e sulla data convenzionale di cui stiamo discutendo è importante
sottolineare un articolo apparso sull’“Arte drammatica” che ribadisce il fatto che Petrolini, almeno per chi lo scrisse,
fondò una compagnia drammatica a tutti gli effetti soltanto nel 1924, seppur già metteva in scena lavori drammatici da
tempo: “Piace enormemente Petrolini e non solo come macchiettista ma piace anche come artista drammatico. Quando
l’anno scorso il collega De Angelis dell’Ambrosiano venne fuori ad augurarsi una compagnia drammatica vera e propria
diretta da Petrolini, abbiamo quasi dato del matto al De Angelis: ora bisogna convenire che la profezia può anche
avverarsi perché Petrolini à qualità d’attore drammatico. Il collega De Angelis arrischia d’acquisire fama d’autentico
profeta”; PES [Enrico Polese Santarnecchi], Petrolini al Filo, “L’arte drammatica”, 20 settembre 1924, p. 3.
11
limite e come origine di una scarsa attenzione da parte della critica
11
. In questo compromesso
l’attore conserverà tuttavia sempre, vicino ai vari atti drammatici, le macchiette tanto amate, e
non solo per le richieste del pubblico, ma anche e soprattutto per l’intima convinzione che
proprio quel teatro di varietà che aveva abbandonato conservasse un suo valore irraggiungibile
per il teatro di prosa. Ma andiamo per ordine; in Un po’ per celia un po’ per non morir…,
Petrolini descrive a distanza di molti anni il suo abbandono del varietà:
Io credo che non vi sia attore che abbia amato come me il varietà, ma cambiai il genere non
appena lo vidi alleato col vincitore: il cinematografo.
Oggi, il povero varietà, dopo la disfatta, insiste tentando degli accomodamenti con la rivista,
l’operetta, la commediola, ma senza risultato -e tanto per tirare innanzi alla meglio è costretto a
vivere sempre con l’oppressore, giacché è dimostrato che uno spettacolo cinematografico può
vivere benissimo da solo- ma non più il varietà che unito all’operetta, alla rivista, ed alla piccola
compagnia dialettale, deve adattarsi a funzionare da avanspettacolo.
E così, senza abbandonare il mio numero -a solo che eseguo tuttora- cominciai a
rappresentare qualche atto unico, e con questo nuovo genere partii ancora per il Sud America
scritturato da Walter Morocchi. […]
Confesso che le recite in Sud America non avevano soddisfatto in pieno il mio amor proprio
di artista. Pure essendo lusingatissimo, desideravo di più: volevo riconosciuto il mio successo
dalle grandi capitali d’Europa
12
.
Da questo breve pezzo emerge un fatto singolare; a parte la legittima pretesa di Petrolini di
vedersi apprezzato anche nelle grandi capitali europee, dopo il suo distacco dal varietà il
conseguente periodo in cui frequentò il teatro di rivista sembra avere nel suo racconto una durata
minima, mentre, come abbiamo visto, tenendo buona la data convenzionale che abbiamo scelto,
questa compagnia di rivista operò per la bellezza di otto anni, che in quell’epoca di grandi
trasformazioni delle correnti artistiche non sono certo da considerarsi pochi. Petrolini, al di là del
suo discorso che non è puntuale in quanto ripercorre la carriera a grandi linee, sembra quasi voler
rimuovere proprio quel periodo di mezzo, in maniera inconscia, forse, facendo succedere al
11
È quanto scriveva anche Silvio D’Amico: “Ricordiamocelo, Petrolini venne al teatro dal ‘Varietà’, che la critica di
solito non frequenta (e per questo il pubblico s’accorse di lui prima che se n’accorgessero i giornali); mosse cioè, per
così dire, dallo sgorbio e dallo scarabocchio”; S. D’Amico, Tramonto del grande attore, Milano, Mondadori, 1929, p.
118.
12
E. Petrolini, Un po’ per celia un po’ per non morir…, cit., p. 234.
12
varietà il teatro di prosa il più velocemente possibile; con la sua frase “cominciai a rappresentare
qualche atto unico, e con questo nuovo genere partii ancora per il Sud America” Petrolini sembra
ignorare che di atti unici, dal 1915 al 1921, data della tournèe in questione, la sua compagnia di
rivista ne metterà in scena più di una decina, ed anzi, non solo atti unici -fra i quali i già citati del
Notturno e del Garofano- ma anche commedie in due atti, come 47 morto che parla (1916), di
D’Arborio, o come Cento de sti’ giorni (1921), commedia drammatica scritta con Durante, ed
inoltre anche una commedia in tre atti, Ottobrata (1918), riduzione da un canovaccio di
Tamburri. La struttura della compagnia, allargata appositamente per poter rappresentare anche
commedie di una certa lunghezza e complessità, è in fin dei conti paragonabile a quella di una
compagnia di prosa almeno dal 1918. Perché dunque questa sorta di svista, o di distrazione, nel
racconto di Petrolini se non per giungere senza indugi al periodo di prosa?
Anche questa, ben inteso, è un’ipostesi, ma è un’ipotesi che ci appare attendibile anche alla
luce di altri documenti. Chi ricercasse ad esempio delle recensioni sugli spettacoli di Petrolini
potrebbe chiaramente accertare il costante incremento dei ritagli rintracciabili proprio a partire
dal 1923; se nel 1922, infatti, gli articoli sono pochi e soprattutto piuttosto brevi, è proprio a
partire dall’anno successivo, con Il medico per forza, che i principali quotidiani iniziano ad
occuparsi di lui con interesse; ma anche qui, non immediatamente, e con una attenzione che varia
a seconda dei giornali e delle città. Se il suo Agro de limone non ottiene neanche un articolo alla
sua prima sul “Corriere della sera”, e ben pochi accenni sugli altri quotidiani milanesi, nel luglio
del 1923 sono i quotidiani romani a registrarne il successo con una serie di articoli che altrove
non trovano riscontri; ma anche in questo caso, niente a che vedere con la mole di articoli e con
la qualità dei recensori che l’attore potrà vantare a partire dal 1926 – 1927.
Insomma, Ettore Petrolini si affaccia al teatro di prosa -certamente più seguito e recensito
rispetto ad altri spettacoli, considerati forme artistiche minori- con un progetto ben impostato e
tramite la messa in scena di commedie adatte a farlo definire come attore di prosa a tutti gli
13
effetti. La critica storce un po’ il naso nei suoi confronti ritenendolo più che altro un attore
comico, seppur grande, ma comunque incompleto; la stessa critica gli richiede una sorta di
dimostrazione di qualità, delle prove d’attore nel genere drammatico e Petrolini gliele fornisce,
superando in questa prova, a detta della stessa critica, la maggior parte degli attori drammatici
suoi contemporanei
13
. Ed ecco cosa scrive Petrolini, ancora nel 1922, su Abbasso Petrolini!
parlando proprio del suo repertorio:
Voi vorrete certamente sapere perché nel mio repertorio figurano anche lavori drammatici.
È presto detto.
Interpreto lavori drammatici unicamente per mostrare che so interpretarli. Non perché io creda
così di raggiungere più alte e più ardue vette dell’arte.
In Italia vige, purtroppo, ancora lo stupido preconcetto che l’attore è soltanto artista quando si
produce nei lavori cosiddetti seri, o meglio, come dicono i critici, in quei lavori che fanno
pensare…
Vi giuro, che io penso molto di più, quando mi produco nel mio repertorio comico,
caricaturale, grottesco.
È nei ruoli drammatici che io sento meno il bisogno di ricorrere alle risorse della mia
personalità artistica. […]
Per fare l’attore drammatico occorre più che l’intelligenza una certa sensibilità, e, sembra un
paradosso, ho conosciuto delle mediocrità sensibilissime. […]
Ecco perché io credo che i successi da me riportati nella interpretazione dei lavori drammatici
poco abbiano aggiunto alla mia fama d’artista
14
.
Non si può non condividere il pensiero di Petrolini. Ma c’è qualcosa in quel che dice che a
nostro avviso non torna: la prima affermazione, ad esempio, dove evidenzia il suo repertorio, si
ricollega a quanto da noi scritto in precedenza sul suo atteggiamento evasivo nei riguardi del
periodo post varietà, rivelandoci, appunto, che a partire da alcune stagioni precedenti al 1922, e
quindi nel periodo centrale in cui frequentava il teatro di rivista, l’attore romano metteva già in
13
Ancora sull’“Arte drammatica” si ritrova un commento di Polese che avanza un dubbio sulla scelta di Petrolini, un
dubbio aperto a tutt’oggi che però lo stesso Polese risolveva in seno alla bravura dell’attore: “Il geniale artista romano,
tanto celebrato per la sua fama comica, da qualche anno ci tiene a dimostrare ai pubblici come egli non solo sappia fare
ridere, ma anche commuovere. Sere or sono lo intesi nel Cortile ed è indubbio vi à recitato con toccante umanità ed alla
fine del breve atto unico gli applausi fragorosi del pubblico erano giustificati. Ma subito dopo Petrolini à dato due o tre
delle sue geniali macchiette ed il successo è diventato entusiasmo e dovettero spegnere i lumi perché il pubblico uscisse
dalla platea e dalle gallerie. Nel genere serio Petrolini è bravo, in quello comico è grande. Gli conviene proprio tanto
favorire il primo per il secondo? In ogni modo in tutti e due i generi è un artista valoroso ed egregio”; PES [Enrico
Polese Santarnecchi], Cronache dei teatri milanesi, “L’arte drammatica”, 20 ottobre 1923, p. 1.
14
E. Petrolini, Abbasso Petrolini!, in: Id., Ettore Petrolini, Facezie, autobiografie e memorie, cit., p. 138 – 139.
14
scena diversi atti drammatici. Ma quest’affermazione, in un certo senso, conferma la nostra
analisi. Perché infatti Petrolini passa al teatro di prosa, il che vuol dire a quel teatro drammatico,
“serio”, ‘pensoso’, al quale egli si opponeva, se alcuni lavori drammatici erano già stati messi in
scena dalla sua compagnia diversi anni prima? E perché Petrolini si affida a “lavori drammatici
unicamente per mostrare che s[a] interpretarli” quando questo significa allora farlo soltanto per
dare una dimostrazione di abilità? Una simile affermazione non corrisponde certamente al
Petrolini migliore né tanto meno alla sua poetica, che ha sempre visto nel grottesco l’unica forma
artistica da lui frequentata. Il fatto che egli affermi di trovare la messa in scena di lavori comici e
grotteschi non solo più soddisfacente da un punto di vista artistico, ma anche più complesso nella
pratica tecnica non sposta molto la questione. In fin dei conti con queste dichiarazioni Petrolini
dimostra proprio quello che in qualche modo vorrebbe occultare e cioè la sua adesione alle
richieste proprie di quella critica drammatica italiana, una adesione di certo né poetica né
ideologica, ma quantomeno, appunto, pratica, nel tentativo di assicurarsi una maggiore visibilità
e trovando occasione di fare parlare di sé anche e soprattutto (per la critica) come attore
drammatico, proprio perché in Italia, come scriveva, era in vigore fra i più “lo stupido
preconcetto che l’attore è soltanto artista quando si produce nei lavori cosiddetti seri”. Va per
altro precisato che nel suo libro Abbasso Petrolini! non mancano affatto articoli di critici famosi
che lo elogiavano proprio per il suo teatro grottesco portato avanti sino a quel momento. Ma
come egli confessava nel brano che abbiamo riportato da Modestia a parte…, le lusinghe ed il
successo di quelle sue stagioni teatrali “non avevano soddisfatto in pieno il [suo] amor proprio di
artista”, portandolo alla ricerca del successo nelle capitali del teatro europeo; per riuscirvi, però,
il primo passo era ottenere, dimostrando il proprio valore di attore ‘a tutto tondo’, il
riconoscimento pressoché unanime della critica italiana e riuscire a trovare l’appoggio, o quanto
15
meno il benestare, del governo fascista, come furono costretti a fare molti artisti ed intellettuali,
governo che proprio a partire dal 1922 inizierà la sua escalation totalitaria
15
.
Questa continua tensione verso i riconoscimenti ufficiali è il nodo fondamentale che abbiamo
esposto all’inizio: il difetto culturale di Petrolini, se la nostra analisi è corretta, seppur potrà
sembrar strano, risiede nel fatto che l’attore, per un motivo o per l’altro, finisce con il
considerare i suoi lavori comici come teatralmente inferiori rispetto a quelli drammatici, seppur,
come affermava, “era proprio nei ruoli drammatici” che egli sentiva meno “il bisogno di
ricorrere alle risorse della [sua] personalità artistica”. È, questa, una indubitabile empasse del
nostro attore che, lo ripetiamo, se nel brano appena citato ha tutti le ragioni dalla sua parte, come
dalla sua ha il passato del varietà che rappresentò all’epoca uno dei momenti artistici
maggiormente ricchi d’interesse e di fermento, nonostante queste ragioni dunque, Petrolini cade
in un cerchio di contraddizioni che sembrano voler nascondere una qualche reticenza
nell’affrontare apertamente l’argomento del suo cambio di repertorio. Ma tutto questo è dovuto,
come sottolinea Livio, al fatto che la critica, o meglio, una parte consistente di questa che vedeva
come figura di riferimento Silvio D’Amico, non accettava il presupposto grottesco di Petrolini,
spingendo l’attore a frequentare il genere drammatico visto come genere superiore in cui
risiedeva l’autentica arte teatrale
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. Procedendo in questa direzione anche la frase finale di
Petrolini dimostra l’incertezza del suo discorso; per chiudere definitivamente il ragionamento
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Scriveva Petrolini, continuando il suo racconto dopo i successi sudamericani del 1921, e compiendo ancora una volta
un salto temporale quantomeno inspiegabile, tenendo presente che la tournèe parigina alla quale accenna risale al 1933:
“Con l’avvento del Fascismo, uniformandomi al chiaro desiderio del nostro Duce, pieno di entusiasmo e di fiducia
tentai Parigi che ritenevo la più ardua fatica”; E. Petrolini, Un po’ per celia un po’ per non morir…cit., p. 234. Con
questo non si vuol comunque affermare che Petrolini fosse fascista; come molti artisti della sua generazione, alla ricerca
di uno spirito rivoluzionario per cambiare l’Italia post giolittiana, Petrolini aderì al fascismo del primo periodo, quello
che più si rifaceva a questo spirito, per poi rimanerne in qualche modo imprigionato. Come ogni aspetto che lo riguarda,
anche la sua adesione al fascismo non è semplice da ricostruire; noi lo definiremmo un fascista rivoluzionario, nel senso
appena esposto, all’inizio, ed un fascista oltre ogni modo scettico nel periodo successivo. Per un approfondimento sul
discorso rimandiamo al testo di A. Calò, nel capitolo intitolato Me ne fregio, in: Ettore Petrolini, Firenze, La Nuova
Italia, 1989, pp. 129 – 155.
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“[…] la critica non accetta il grottesco proprio come arte di crisi, come arte d’avanguardia, come arte riflessa e
critica: non può di conseguenza accettare il più grande dei grotteschi, Petrolini. Di qui il rifiuto di D’Amico che non
comprende e loda dell’attore grottesco il talento e non l’intelligenza: egli ebbe davvero molto talento, ma spicca nella
storia del teatro per la sua intelligenza che, come ci insegna egli stesso a comprendere, è la caratteristica che distingue le
‘mediocrità sensibilissime’ dai ‘fenomeni’”; G. Livio, La scena italiana. Materiali per una storia dello spettacolo dell’
Otto e Novecento, Milano, Mursia, 1989, p. 231.
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sulla superiorità del proprio teatro -per altro mai smentita dall’attore, fatto che ne dimostra tutta
la grandezza, ma anche tutta la complessità- rispetto a quello proposto dalla critica che
riconosceva, per citare Livio, il suo talento d’istrione a discapito della sua intelligenza, l’attore
romano ricorre a quella che è a tutti gli effetti una bugia: “io credo che i successi da me riportati
nella interpretazione dei lavori drammatici poco abbiano aggiunto alla mia fama d’artista”. Se
infatti queste “interpretazioni” poco o nulla potevano aggiungere alla sua arte, non risponde però
al vero l’affermazione di Petrolini, perché è proprio a partire dalla messa in scena di testi
drammatici come Un garofano o Notturno, o Agro de limone, che la critica tutta iniziò ad
elogiarlo come grande e vero artista del teatro, più interessante come attore drammatico che
come attore comico -e qui sta il limite della critica che non comprese il suo grottesco-
riscontrando ogni sera la completezza e la complessità del suo lavoro nella composizione del
repertorio come negli attori che formavano la compagnia.
All’ipotesi sin qui condotta occorre ora aggiungere un altro aspetto, e cioè quello del carattere
di Petrolini, il senso di sfida che lo ha sempre contraddistinto. Dotato di capacità critiche non
comuni e di una coscienza profonda del valore del proprio teatro, egli si è sempre scagliato, è il
caso di dire, contro ogni etichetta e contro chiunque volesse costringerlo all’interno di un
qualsivoglia ‘recinto’ di genere. Questo ha certamente influito sulla sua scelta del teatro di prosa:
come scritto in precedenza, Petrolini accetta una sorta di sfida ch’egli si sente lanciare, anche
perché convinto, come succederà, di poterla vincere e di poter dimostrare ancora una volta ciò
che egli conosce benissimo e cioè il proprio valore artistico.
A questo riguardo gli articoli non mancano. Iniziamo a leggerne qualcuno, partendo proprio
da quelli raccolti dallo stesso Petrolini nel suo libro più volte citato del 1922; il primo articolo, di
Lucio D’Ambra, registra proprio la “trasformazione” dell’attore nel momento cruciale di cui ci
stiamo occupando: