3
comunitaria ed indipendente del Messico a trasmettere con il permesso
governativo – in un quadro più ampio, ossia le dinamiche di negoziazione
identitaria che vedono al centro gli indigeni messicani.
Inquadrata la questione da questa prospettiva, ho pensato di organizzare la tesi
dividendola in tre capitoli, in cui si passa da un livello più generale al caso
specifico, che ho potuto osservare di persona.
Nel primo capitolo, infatti, ho ritenuto utile, ai fini della comprensione di
alcune dinamiche identitarie messicane e dell’interpretazione del caso
etnografico specifico di Radio Huayacocotla, sviluppare alcune riflessioni
teoriche preliminari.
In particolare, partendo dalla constatazione della complessità ed eterogeneità
di alcuni fenomeni culturali contemporanei e della crisi di una prospettiva
olistica ed oggettivante in antropologia, ho cercato di delineare il mio orizzonte
teorico, facendo riferimento a diversi autori che – generalizzando – si possono
collocare in una corrente antropologica critica.
Sulla base di questa prospettiva, ho poi approfondito l’analisi di alcune
categorie, individuate come centrali nell’analisi di alcune dinamiche identitarie
messicane che costituiscono l’oggetto principale del mio interesse, ossia i
concetti di “nazione”, “tradizione”, “memoria culturale”, “patrimonio
culturale”, e, soprattutto, “identità etnica”.
Ho approfondito la decostruzione e la revisione di questi concetti, da una
parte, per utilizzarli in modo consapevole nel corso dell’analisi, e, dall’altra,
poiché sono centrali in ambiti di interesse specifico di questo lavoro.
In particolare, la categoria di “nazione”, intesa, secondo la prospettiva di
Benedict Anderson (2000), come “comunità immaginata”, è funzionale alla
comprensione di alcune dinamiche culturali soggiacenti alla nascita della
nazione messicana ed alla costituizione della relazione tra stato-nazione e
popoli indigeni.
4
I concetti di “tradizione”, “memoria culturale” e “patrimonio culturale” ,
invece, sono centrali nelle rivendicazioni delle organizzazioni indigene
contemporanee, ed hanno costituito per secoli – dalla Conquista spagnola in
poi – ambiti di rifunzionalizzazione e reinvenzione delle culture e delle identità
native.
Infine, il concetto di “identità etnica” è fondamentale per comprendere le
dinamiche secondo cui si è costituita la relazione tra popoli indigeni e stato-
nazione messicano ed alcune negoziazioni identitarie e culturali
contemporanee: ho dunque approfondito particolarmente l’analisi di questo
concetto, avvicinandomi ad esso attraverso prospettive diverse, per mettere in
luce il carattere complesso e sfaccettato dei fenomeni legati all’identità.
Nel secondo capitolo, ho ristretto l’ambito di interesse, dedicandomi in modo
specifico alla realtà messicana, secondo un approccio storico, che ritengo
funzionale alla comprensione di alcuni aspetti contemporanei della realtà
messicana; inoltre, il riferimento al passato ha assunto in Messico un ruolo
importante, sia nella costruzione della nazione messicana, che nelle
rivendicazioni dei movimenti indigeni.
Dopo alcuni cenni essenziali sulle civiltà mesoamericane, dunque, – funzionali
solo a contestualizzare l’arrivo dei conquistadores spagnoli – ho sviluppato
alcune riflessioni sui tre secoli della Colonia, soffermandomi su alcuni processi
di ibridazione culturale e riattualizzazione delle tradizioni e delle memorie
native.
Infine ho dedicato un spazio più ampio alla nascita della nazione messicana
(1821) ed al Messico post- rivoluzionario
1
, mantenendo come filo conduttore la
relazione tra popoli indigeni e gruppi al potere, concentradomi, da un lato,
sulle politiche indigeniste governative e, dall’altro, sulla resistenza indigena, in
particolare sulle organizzazioni politiche indigene che si sviluppano a partire
dagli anni Settanta.
1
Faccio riferimento alla Rivoluzione del 1910.
5
Attraverso questi riferimenti, ho focalizzato l’attenzione su alcune dinamiche
di rivendicazione identitaria, da parte sia dello Stato messicano che dei
movimenti politici indigeni, per dipingere il quadro in cui collocare l’operato
di Radio Huayacocotla, che costituisce l’argomento principale del terzo
capitolo.
In questo, ho innanzi tutto approfondito l’analisi della nascita, dello sviluppo e
dell’attuale organizzazione del sistema di stazioni radio indigeniste dell’ ex
Instituto Nacional Indigenista (INI), oggi Comisión para el Desarrollo de los Pueblos
Indígenas (CDI), in quanto costituisce un termine di paragone con Radio
Huayacocotla, che si definisce ,per bocca dei suoi membri, una Radio
comunitaria, indigena ed indipendente, e di fatto non dipende né dall’INI, né dal
governo, ma è in mano alla società civile.
In questo capitolo, dunque, ho cercato di esporre questo esempio etnografico,
mantenendo una prospettiva antropologica e mettendo in luce in che modo la
Radio entri in dinamiche identitarie più ampie, inserite in concreti rapporti di
forza, sia a livello locale che statale: l’interesse di questo esempio è legato, oltre
alla sua peculiarità, proprio al fatto di rappresentare un osservatorio limitato di
dinamiche più ampie - luogo di relazione dinamica tra contesto locale e
nazionale - ed un palcoscenico di rivendicazioni-reinvenzioni culturali
complesse e sfaccettate che vedono oggi protagonisti, in tutto il Messico, i
popoli indigeni.
Sono diverse le persone che sento l’esigenza di ringraziare, a partire dalla mia
famiglia, ed in particolare i miei genitori, che, nonostante il timore
nell’immaginare la loro figlia “piccola” avventurarsi Oltreoceano, mi sono
sempre stati vicino e mi hanno sostenuto, nel rispetto delle mie scelte; e dal
mio professore, Alessandro Lupo, le cui lezioni, cinque anni fa, hanno fatto
nascere in me l’interesse per il Messico e per l’etnologia, e che, in questa fase
6
finale del mio percorso accademico, è stato indispensabile, con i suoi consigli e
la sua presenza costante, per portare a termine il mio lavoro.
Inoltre vorrei ringraziare gli amici che mi hanno ospitato a Città del Messico
per tutto il tempo in cui cercavo disperatamente di trovare “il mio terreno”,
rendendomi molto meno difficile la permanenza in quell’incredibile e
affascinante “mostro” che è la capitale messicana.
La mia gratitudine va anche, chiaramente, a tutti i membri del Proyecto Sierra
Norte de Veracruz e di Radio Huayacocotla, per la loro pazienza e la loro
disponibilità nei miei confronti, per l’affetto e la simpatia che mi hanno
dimostrato; in particolare vorrei ringraziare Alfredo, per avermi dato al
possibilità di iniziare la mia avventura a Huayacocotla, Lucresia [sic] per aver
condiviso con me la sua casa ed il suo tempo; Enrique, per i suoi preziosi
consigli e il suo aiuto costante; Eugenio, per la sua disponibilità e la sua
simpatia.
Infine, sono grata agli indigeni otomí, per avermi accolto nelle loro comunità,
per aver condiviso con me il loro cibo ed avermi offerto ospitalità nelle loro
case.
A tutte queste persone, ed a tutti coloro che avrei voluto nominare ma che ho
tralasciato per ragioni di spazio, va il mio sincero ringraziamento.
7
Cap. 1. L’ identità etnica: uno sguardo antropologico
Affrontando la questione dell’identità mi sono resa conto innanzi tutto di una
cosa, ossia che non si tratta di un ambito facilmente circoscrivibile, ma di
qualcosa di assolutamente fluido, che si “interseca” con differenti discorsi.
Questo mi ha portato a mettere da parte l’idea di una trattazione generale delle
problematiche relative all’identità ed a considerare il mio come uno dei
“discorsi” che attraversano questo ambito multiforme.
Come ho accennato nell’introduzione, il principale oggetto di interesse di
questa tesi è costituito da alcune particolari dinamiche identitarie messicane,
che vedono coinvolte principalmente gli indigeni, il governo e diversi altri
attori sociali, come la Chiesa, le ONG e, nel caso specifico che ho potuto
osservare nella mia ricerca sul terreno, i mezzi di comunicazione (in particolare
la radio).
La tematica dell’identità è, come si vede, centrale e mi sembrava necessario
fornire un quadro teorico, chiarire alcuni concetti ed esplicitare alcune
prospettive per contestualizzare sia le mie riflessioni sul Messico che la ricerca
sulla radio comunitaria di Huayacocotla, nello stato di Veracruz.
Ma mi sono scontrata col carattere realmente proteiforme e incredibilmente
vasto di questo argomento, tanto da non riuscire a proporre uno schema
ordinato ed esaustivo di teorie, ambiti, utilizzazioni del concetto di identità.
Se questo è l’aspetto negativo di una presa di coscienza personale riguardo alla
complessità o flessibilità di un argomento, c’è sempre l’altra faccia della
medaglia e l’aspetto positivo insito in una presa di coscienza, ossia la
consapevolezza. Nel mio caso, la consapevolezza che effettivamente non è
necessario costringere in uno schema rigido qualcosa che nella realtà si
presenta in forme fluide e dinamiche.
8
In altre parole, ho seguito le diverse connessioni a cui mi hanno portato le
letture relative all’identità, in rapporto alla mia riflessione personale sul
Messico. Questo significa che inevitabilmente la mia sarà una trattazione
parziale e che il percorso che ho scelto – gli autori a cui farò riferimento, gli
aspetti della questione su cui mi sono soffermata di più – è in qualche modo
arbitrario, o meglio contiene quella dose di arbitrarietà che credo sia
ineliminabile se si cerca di utilizzare euristicamente un concetto – in questo
caso quello di identità – senza pretendere di poter dire tutto sullo stesso.
Il mio “viaggio attraverso l’identità” inizia da una constatazione : la grande
attualità di questo tema nel mondo contemporaneo e nel dibattito
antropologico.
Innanzi tutto, quindi, cercherò di evidenziare alcune caratteristiche della realtà
attuale che hanno contribuito a rendere così inflazionato un tema che fino a
pochi decenni fa non era affatto centrale, né in ambito scientifico, né nel
discorso quotidiano.
In secondo luogo sposterò la mia attenzione sul ruolo dell’antropologia in
relazione alle definizioni identitarie e più in generale alla creazione di
categorie. Partendo dall’idea base che l’identità è qualcosa che ha a che fare
con un “io” o un “noi” che si definisce in relazione ad un “altro”, una
questione che mi è sembrata estremamente rilevante – probabilmente perché
mi sento personalmente coinvolta - è l’implicazione dell’antropologia in questo
tipo di dinamiche, chiaramente a livello collettivo .
Se da una parte l’antropologia partecipa - e storicamente ha partecipato - alla
costruzione di “etnie” o “culture”, dall’altra è in corso dagli anni Ottanta una
revisione critica e decostruzione di alcune categorie fondamentali ed un lavoro
riflessivo e critico nei confronti dello stesso “sguardo antropologico”.
Semplificando al massimo, si può dire che ci si è resi conto che alcuni concetti
che venivano considerati come realtà oggettive – appunto la “tradizione”,
l’“etnia”, la stessa “cultura” – potevano essere considerati tutt’al più come
9
strumenti euristici, funzionali
2
solo se spogliati dalle pretese di oggettivismo
ed essenzialismo: si può parlare di “tradizione”, ma tenendo conto che essa
non è mai qualcosa di neutro ed autentico, ma che anzi può essere
completamente inventato – come ad esempio ci mettono in guardia Hobsbawm
e Ranger (1987).
Mi è sembrato utile in questa sede seguire la decostruzione di alcune di queste
categorie, in quanto connesse in vari modi all’oggetto specifico della mia tesi,
ed in particolare ho prestato attenzione al dibattito relativo all’identità etnica,
in quanto più degli altri concetti si avvicina a quello che è il nodo della mia
ricerca.
2
In realtà nell’ambito delle discipline antropologiche il processo non è stato – e non è – così lineare, e
non tutti sono d’accordo sulla validità di alcune categorie. Cfr. ad esempio la prospettiva di Lila Abu-
Lughod riportata da Dei (2002).
10
1.1. Un “mondo in frammenti” ?
“In un mondo in frammenti come il nostro è
proprio a questi frammenti che dobbiamo prestare
attenzione”
Clifford Geertz (1999, p.17)
“In un mondo in cui troppe voci parlano tutte in
una volta, in un mondo in cui il sincretismo e
l’invenzione parodistica stanno diventando la
regola, e non l’eccezione, in un mondo
multinazionale e urbano di transitorietà
istituzionalizzata – dove abiti americani
confezionati in Corea sono indossati da giovani
russi, dove le “radici” di qualcuno sono state in
qualche misura recise -, in un simile mondo diventa
sempre più difficile vincolare l’identità e il
significato dell’uomo a una “cultura” o a un
“linguaggio” coerenti.”
James Clifford (1993, p.118)
Nella presentazione del libro di Amselle “Logiche meticce”, Marco Aime (1999)
fa notare, seguendo Hobsbawm, quanto sia recente la comparsa di termini
come “identità” o “etnicità”: ancora nel 1968 la voce “identità” non era
presente nell’ International Enciclopedia of Social Sciences e nei primi anni
Settanta “etnicità” compare nell’ Oxford English Dictionary come “parola rara
associata a paganesimo e superstizioni pagane” (p. 19).
Oggi le questioni legate all’identità sono al centro non solo del dibattito
antropologico, ma sono una presenza quotidiana anche nel vocabolario dei
mass media e diffuse nel senso comune: si assiste a rivendicazioni etniche,
regionali e locali, in un fiorire di nuovi e vecchi separatismi e di richiami alla
purezza ed all’autenticità, in forma più o meno velata.
Tanto per fare un esempio estremamente recente e vicino a noi, durante la
campagna elettorale per le ultime elezioni al parlamento europeo (giugno 2004)
11
mi sono imbattuta in un manifesto di propaganda elettorale in cui, sopra la
foto dell’on. Alessandra Mussolini, tuonava la scritta : “L’Europa agli
Europei”.
Al di là del fatto che riesce difficile trovare un senso per questa affermazione (
chi sono “gli europei”? Una razza? Dove risiede la loro omogeneità? ), non si
può fare a meno di chiedersi come mai sia possibile che un politico decida di
adottare uno slogan propagandistico che fa riferimento ad una identità, reale o
immaginata che sia, piuttosto che ad un programma sociale o economico.
3
Come fa notare Aime, anche se spesso le identità vengono attivate dalle élites
allo scopo di mantenere determinati privilegi o comunque assumono peso in
situazioni di conflitto e di rapporti di forza specifici, perché una definizione
identitaria “attecchisca” è necessario che sia presente un bisogno di identità dal
basso.
Nel caso specifico si è portati a domandarsi: gli italiani sentono la necessità di
essere rappresentati da qualcuno che garantisca loro che l’Europa resterà agli
europei?
Si può controbattere che la maggioranza degli italiani non ha votato per
Alessandra Mussolini, ma non credo che questo ci autorizzi a minimizzare le
implicazioni di questo tipo di scelte retoriche, anche perché non si tratta di un
caso isolato.
Un altro esempio ci viene sempre dalla nostra classe politica, questa volta da
un altro partito, la Lega Nord, che fa riferimento ad un’altra identità inventata,
ossia la Padania. In questo caso è un progetto politico mirato alla gestione
separata delle risorse che sta alla base della invenzione o rifunzionalizzazione
di tradizioni “culturali” per creare un’identità regionale che permetta di
3
E’ evidente il richiamo allo slogan fascista “L’Italia agli italiani”, ma questo non rende meno
problematica la scelta di “riesumare” questa retorica nell’ambito di un partito politico.
12
mantenere determinati privilegi
4
, anche attraverso operazioni apertamente
connotate in chiave razzista.
Non voglio perdermi in esempi, anche perché si potrebbero moltiplicare
all’infinito se dall’ambito ristretto dell’Italia spostassimo l’attenzione a livello
europeo e globale; questo voleva essere solo uno spunto di riflessione
preliminare su alcuni elementi, ossia:
- L’identità è un tema estremamente attuale non solo nell’ambito teorico delle
scienze sociali, ma diffuso anche nel discorso politico e più in generale sociale,
quando consideriamo, ad esempio, l’uso di questo concetto nell’ambito delle
problematiche relative al “multiculturalismo” ed all’immigrazione.
- Il campo concettuale dell’identità non è mai neutro, in quanto
strutturalmente relazionale: la definizione del “noi” passa sempre per la
stigmatizzazione di un “altro” diverso, e questo sempre nell’ambito di rapporti
di forza, dove chi ha il potere è chi definisce (se l’Europa va agli europei, che
fine fanno “gli altri”? E ancora prima: chi sono “gli altri”?).
- Gli antropologi sono storicamente e strutturalmente implicati nella
definizione – mai neutra – dell’alterità, e si sono trovati di fronte alla necessità
di prendere coscienza di questa condizione, che non lascia spazio alla
produzione di un sapere “oggettivo”.
Avrò modo , nel corso di questo capitolo, di occuparmi del ruolo
dell’antropologia e del processo di revisione critica che ha portato ad uno
“slittamento riflessivo” dello sguardo antropologico; per il momento, però,
vorrei focalizzare l’attenzione su alcuni aspetti della realtà contemporanea
all’origine di questi sviluppi.
Diversi autori
5
, nell’ambito della revisione critica delle discipline
antropologiche, evidenziano il carattere per molti aspetti contradditorio e
4
Per un’analisi delle retoriche della lega cfr. Aime (1999: pp. 16-23) e Fabietti (1995: pp. 153-156).
5
Cfr. ad esempio Geertz (1999), Amselle (1999, 2001), Augé (1995), Barberi (2001), Clifford (1993,
1999) etc.
13
segmentato della realtà contemporanea; credo che si possano individuare
alcuni processi che storicamente hanno contribuito all’immagine di mondo
frammentato (per riprendere la citazione di Geertz che ho utilizzato in epigrafe
a questo paragrafo) ed alcune tematiche che sono in qualche modo centrali
nell’attuale dibattito relativo alla modernità, o surmordernità – come la chiama
Augé (1995) – ossia:
I. Il processo di decolonizzazione iniziato negli anni Cinquanta;
II. La fine della Guerra Fredda e dell’opposizione dei due blocchi USA-
URSS, con la caduta del muro di Berlino (1989);
III. I fenomeni attuali di migrazione o comunque gli spostamenti di
vaste popolazioni su scala mondiale;
IV. La globalizzazione economico-culturale e la relazione strutturale di
questa con la dimensione locale; il proliferare di localismi,
regionalismi, fondamentalismi.
Con la consapevolezza che ognuno di questi ambiti si connette con diverse
tematiche e che ogni punto potrebbe essere oggetto di un’ampia trattazione
monografica, cercherò di fornire un quadro senz’altro sommario, ma spero non
per questo inutile, della complessità della realtà contemporanea e della
ricchezza di approcci e prospettive, per contestualizzare la revisione critica di
alcune categorie antropologiche.
I. La decolonizzazione ed i “post-colonial studies”
Con “decolonizzazione” si intende il processo di smantellamento formale delle
colonie europee nel secondo dopoguerra, con la conseguente nascita di Stati
indipendenti in tutte le aree precedentemente sotto il controllo dei diversi
Imperi.
14
Questo processo storico è legato ad una decisa critica del colonialismo
sviluppatasi negli anni Cinquanta nell’ambito di diverse aree degli studi
sociali, che ha gettato le basi per lo sviluppo di un ripensamento critico
generale sull’ Occidente, alla luce dei rapporti storicamente intrattenuti da
questo con il resto del mondo.
In un recente saggio, Miguel Mellino (2001) ripercorre lo sviluppo della
corrente di studi post-coloniali
6
ed affronta alcuni nodi teorici relativi a questo
argomento.
In questa sede non avrebbe senso ripercorrere la nascita e lo sviluppo di questo
campo di studi, ma alcuni elementi credo che possano essere illuminanti per
comprendere un mutamento di prospettiva all’interno delle discipline
antropologiche.
L’aspetto che mi sembra importante per i fini limitati che mi sono proposta in
questa parte è la considerazione di Mellino che
“la critica postcoloniale ha come proprio oggetto la decostruzione del soggetto
imperialista occidentale, vale a dire quella visione secondo cui l’Europa
riteneva se stessa l’agente fondamentale di ogni sviluppo storico ed il cui
particolare percorso, fondato sulla nozione di progresso, costituiva il principale
parametro di giudizio nei confronti delle restanti culture del pianeta” (p. 73)
Ciò che viene esplicitato è il nesso tra sapere e potere: il colonialismo cessa di
essere considerato come un fenomeno meramente politico-economico e si
focalizza l’attenzione su come sia stata, al contrario, un’esperienza centrale
nella definizione dell’Occidente stesso attraverso la produzione di discorsi e
stereotipi sull’”altro”, che veniva conquistato, sottomesso e sfruttato.
6
Per l’ambiguità del termine “post-coloniale”, che - se inteso in maniera letterale - fa supporre la fine del
colonialismo, mentre questo continua ad articolarsi in ambito economico (neocolonialismo), cfr. sempre
Mellino (2001: pp. 59-60).
15
Questa è l’ottica di Edward Said in Orientalismo
7
, in cui l’autore sostiene che
attraverso la stigmatizzazione dell’altro come primitivo, arcaico o selvaggio,
l’Occidente si sia affermato come superiore.
Seguendo il lavoro di questo autore e di altri che condividono la stessa
prospettiva, come Homi K. Bhabha o Gayatri Spivak, Mellino ci mostra come il
pensiero postcoloniale si sia proposto come obiettivo la decostruzione di
categorie e presupposti alla base della moderna identità occidentale, in quanto
frutto della dominazione su vaste zone del resto del mondo.
Questi studi, dunque, hanno avuto il merito di minare i presupposti dell’idea
di Occidente, considerato precedentemente come un modello universale di
civiltà, di evidenziare il carattere niente affatto neutro insito nella definizione
dell’Altro – in quanto sempre inserita in concreti rapporti di forza – e di
sottolineare gli aspetti contingenti, legati al contesto storico, dei gruppi sociali
in generale, nonché il peso dell’ideologia e della rappresentazione nella
costituzione degli stessi.
8
II. Il mondo frammentato
Clifford Geertz, in Mondo globale, mondi locali (1999), analizza come la
configurazione globale abbia subito una trasformazione radicale a partire dal
1989 – anno della caduta del muro di Berlino – in quanto, alla contrapposizione
tra le due superpotenze USA / URSS con le relative aree di influenza (per usare
un eufemismo), è subentrata la proliferazione di tantissimi Stati: se da una
parte questo processo ha portato con sé elementi positivi, indubbiamente
presenti nella fine della minaccia di un conflitto atomico globale, dall’altra
7
Said, E., Orientalismo, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, cit. in Mellino (2001, p. 69).
8
Altri esiti e presupposti di questo approccio possono essere meno condivisibili, cfr. Amselle (2001).
16
anche solo il crollo dell’ Unione Sovietica ha causato una serie sconcertante di
divisioni ed instabilità, dando origine ad altrettanti fenomeni conseguenti.
Tra questi Geertz annovera: il rinnovarsi di nazionalismi in Europa, la nascita
di movimenti armati a sfondo etnico-religioso, vaste migrazioni di massa,
guerre civili a sfondo etnico.Tutti fenomeni che hanno
“ (…) rafforzato la sensazione di dispersione e di particolarismo, di complessità
e di mancanza di un centro. Le simmetrie del terrore delineatesi nell’era post-
bellica si sono dissolte e a noi, così sembra, non restano che i loro frammenti”
(p. 15)
Il profilo che si delinea a partire dal 1989 appare, secondo Geertz, come un
patchwork di identità politiche e culturali poste una a fianco all’altra, ognuna
identificata da un colore diverso.
Ma la realtà non è così semplice, le identità sono in costante mutamento, le
differenze esistono ma si sovrappongono in modi non ordinati, ed “esistono
solo sovrapposizioni di fili che si incrociano e si intrecciano, che iniziano là
dove altri fili si spezzano.“ (p. 25).
In questo contesto, secondo Geertz, la teoria politica ed una certa prospettiva
sostanzialista dell’antropologia non permettono di comprendere la realtà
contemporanea, in quanto finiscono in due vicoli ciechi: da una parte
l’elaborazione di teorie politiche estremamente astratte e generiche che non si
confrontano con una realtà che, proprio per essere multiforme e disomogenea,
sfugge ad una categorizzazione stabile; dall’altra, una “prospettiva
configurazionale (…) forzata, goffa e inattendibile” (p. 60) in antropologia ha
portato in un primo momento a classificare e dividere le culture sul modello di
un puzzle, e quando questo modello è risultato inadeguato si è abbandonata
l’idea di poter comprendere il reale o ci si è concentrati unicamente su un
livello “micro” di ricerca.