materia di animali, saranno analizzati e commentati gli articoli più importanti, inerenti la specificità
dell'argomento di cui si tratta, della L. 281/91, legge quadro in materia di animali da affezione e
prevenzione del randagismo, del D. lgs.vo 116/92 sulla sperimentazione animale, nonchè la L.
413/93 sull'obiezione di coscienza in materia di sperimentazione sugli animali e la L. 473/93, che
introdusse la prima riforma dell'art. 727 c.p. Sarà inoltre illustrata l'interpretazione dell'art. 727 c.p.
da parte della giurisprudenza durante il decennio antecedente la riformulazione dello stesso,
avvenuta in seguito all'entrata in vigore della L. 189/04, recante modifiche al codice penale.
In chiusura seguiranno, nell’ambito delle note conclusive, alcune considerazioni personali,
scaturenti dall'analisi di quanto oggetto della trattazione di questo lavoro.
4
1. IL RAPPORTO UOMO/ANIMALE ATTRAVERSO I SECOLI
L'origine del rapporto uomo-animale si perde nella notte dei tempi ed è stato inizialmente un
rapporto del tipo “predatore/preda”: l'uomo vedeva nell'animale una delle fonti di sopravvivenza ed
al contempo, nei confronti di alcune specie, un pericolo da cui difendersi.
La caccia era l'attività che gli consentiva di approvigionarsi di carne per nutrirsi e di pellame
per ripararsi dal freddo.
Successivamente, imparò che alcuni di essi, come la capra, la mucca, la pecora, il maiale, il
bue, il cavallo, potevano essere addomesticati ed erano utili, oltre che per le loro carni ed il loro
pellame, alcuni per quello che fornivano (latte, lana), altri per lo svolgimento di attività
particolarmente gravose quali il lavoro nei campi ed il trasporto di materiali e persone.
Tra gli animali addomesticati, vi furono due specie che conquistarono un posto
“privilegiato” nel rapporto con l'essere umano: il cane, di natura “servile”, la cui addomesticazione
risale a circa 15 mila anni or sono ed il gatto, di natura più indipendente: il primo era utile per la
guardia e la caccia, il secondo liberava la sua dimora da topi, altri roditori e piccoli predatori, ma
entrambi possedevano una particolare intelligenza che permise l'instaurarsi di un rapporto più
stretto, che andava oltre al loro mero “utilizzo”: questi esseri, il cane ed il gatto, riconoscevano i
propri padroni, amavano stare in loro compagnia, gradivano ricevere manifestazioni di affetto, che
sapevano contraccambiare.
Tuttavia è innegabile che iI processo di addomesticazione fornì all'uomo un grande potere
sugli animali, cani e gatti inclusi, un potere di vita e di morte e, purtroppo, anche di tortura.
Infatti alcuni di essi assursero a simbolo di vizi e virtù. Così, nell'immaginario collettivo,
alla furbizia della volpe si contrappose la stupidità dell'asino, alla dolcezza della colomba il
(supposto) potere ingannatore del serpente; quest'ultimo, assieme al gatto, specialmente se nero,
venne associato alla figura del maligno ed entrambi come tali furono a lungo perseguitati.
Furono celebrati processi agli animali, eventi affatto rari, che si verificavano quando un
animale domestico, come ad esempio un bue, un maiale, un cavallo, arrecavano un danno grave ad
un uomo. Questi fatti erano classificati come crimini e gli animali colpevoli dei danni arrecati
venivano processati.
I processi agli animali, la cui celebrazione dall'antichità proseguì fino al XIX secolo, si
svolgevano con tanto di accusa e difesa, di giudice e boia e si concludevano quasi sempre con la
5
condanna e la morte del “reo”. Famosi restarono quelli celebrati nel 1394 a Mortaign1 e nel 1457 a
Savigny2, a carico rispettivamente di un maiale e di una scrofa, accusati di infanticidio, il primo con
l'aggravante di aver mangiato il bambino di venerdì, tradizionalmente giorno di digiuno!
C'è da dire che in questi comportamenti e superstizioni ebbe un ruolo molto importante la
Chiesa, con la sua interpretazione della Bibbia, nella quale viene affermato il dominio assoluto
dell'uomo su tutto il creato.
Solo in tempi molto più recenti una forte corrente nel pensiero cristiano ha portato alla
rilettura di diversi passi della Sacra Scrittura, convenendo che Dio avrebbe creato la terra e tutti gli
esseri viventi per il soddisfacimento dei bisogni primari dell'uomo, ma sostenendo che questi
doveva anche prendersene cura, tutelando l'integrità dell'ambiente e la sopravvivenza delle specie
vegetali ed animali.
In quell'epoca invece il potere ecclesiastico, con la sua grande influenza, valutava con
estremo rigore coloro che agivano al di fuori dei rigidi schemi imposti dalla autorità religiosa: essi
venivano considerati sospetti, soggetti a stretti controlli e spesso venivano accusati di sacrilegio o di
stregoneria, assieme ai loro animali.
Durante il Medioevo un numero impressionante di gatti, soprattutto neri, fu mandato al rogo
con le loro padrone, i primi accusati di essere l'incarnazione del demonio, le seconde di stregoneria.
Insomma, nel passaggio dallo stato selvatico a quello dell'addomesticamento un dato restò
invariato: l'animale poteva essere temuto o usato, amato o perseguitato ma restava sempre un
“oggetto”, una “cosa”, alla mercé dell'uomo, privo di qualsiasi diritto, soggetto soltanto a doveri.
1.1.DIRITTI DEGLI ANIMALI E FILOSOFIA DALL'ANTICHITA' AL XX SECOLO
Nella cultura occidentale, intorno al settecento, alcuni pensatori iniziarono a teorizzare di
“diritti degli animali”, intendendo con ciò l'estensione a tutte le specie animali di alcuni dei diritti
umani fondamentali, quali il diritto all'esistenza, alla libertà, alla considerazione e alle cure, a non
soffrire inutilmente.
A partire dalla metà dell'ottocento si diffusero atteggiamenti zoofili di una certa rilevanza: in
Inghilterra, dal 1824, nacque la Royal Society for the prevention of cruelty against animals, mentre
in Italia la prima associazione di protezione degli animali, l'Ente Nazionale Protezione Animali
(E.N.P.A.), sorse nel 1871, per iniziativa di Giuseppe Garibaldi e del suo medico, Timoteo Riboldi.
Al contrario, in tempi più remoti, nella civiltà greco-romana, tra i grandi pensatori e filosofi
1
Cfr. http://www.oltrelaspecie.org/filosofia.htm
2
Cfr. S. CASTIGNONE, Povere bestie, I diritti degli animali, Marsilio Editori S.p.A., Venezia, 1997, p. 23.
6
che affrontarono questa tematica, molti erano contrari a considerare gli animali come esseri
senzienti, in grado di provare dolore, paura, piacere, affezione; essi erano esseri viventi ma
venivano considerati privi di emozioni, creati per essere utilizzati a piacimento dall'uomo.
In quell'epoca dominava l'antropocentrismo, una corrente di pensiero tendente a considerare
l'uomo e tutto ciò che gli appartiene come centrale nell'Universo.
Questa centralità può essere attinente a diversi argomenti, a seconda che la si esamini dal
punto di vista religioso (allora teorizza che l'uomo è espressione immanente dello spirito ed alla
base dell'Universo), oppure come semplice opinione. Riguardo l'argomento di cui trattasi,
l'antropocentrismo postula la superiorità dell'essere umano rispetto al resto del mondo animale.
Così il filosofo greco Aristotele (384 a.C. - 322 a.C.), il quale, pur convenendo che
“alcuni animali inferiori (cioè non umani) hanno in comune con l'uomo alcune caratteristiche”3,
quali la capacità di riprodursi, di nutrirsi, di essere coscienti del mondo che li circonda mediante i
sensi, di sentire, ricordare, apprendere, riteneva le “bestie” semplici strumenti al servizio del'uomo,
unico essere vivente dotato di intelligenza, di autodeterminazione attraverso la ragione, ed era
quindi nella natura delle cose che egli fosse gerarchicamente superiore a tutti gli altri esseri viventi
del creato, che poteva sfruttare a proprio gradimento.
Aristotele sosteneva che “le piante esistono per gli animali e gli animali esistono per l'uomo
(...). Poichè la natura non fa nulla che sia imperfetto o inutile, ne consegue che ha fatto gli animali
per l'uomo”4. Ovviamente era favorevole alla pratica della vivisezione.
Facendo un notevole salto nel tempo, della stessa opinione era il teologo e filosofo italiano
Tommaso d'Aquino (1225 - 1274), il quale, coniugando il pensiero aristotelico con le Sacre
Scritture, scriveva che “nella gerarchia degli esseri quelli meno perfetti sono fatti per quelli più
perfetti... così gli esseri che sono solo viventi, cioè le piante, sono fatte ordinariamente per gli
animali; e gli animali sono fatti per l'uomo” e quando nella Sacra Scrittura “si incontrano parole che
proibiscono di commettere crudeltà contro gli animali… questo si fa per vari motivi: o per
rimuovere l'anima dell'uomo dall'esercitare crudeltà sugli uomini, perché esercitandola sugli animali
potrebbe poi passare agli uomini; oppure perché la lesione fatta agli animali si risolve in danno
temporale per chi la fa come di altri...”5.
Tuttavia il pensiero di Tommaso d'Aquino, pur essendo sostanzialmente sfavorevole agli
animali, fu di fondamentale importanza nei secoli a venire perchè costituì la base della “tesi della
crudeltà”, o, sarebbe più corretto, della “tesi della non crudeltà”, fondamento della teoria dei doveri
indiretti, di cui si tratterà più avanti.
Di tutt'altro parere l'allievo prediletto di Aristotele, il filosofo greco Teofrasto (372 a.C. -
3
ARISTOTELE, Parti degli animali, Laterza, Bari, 1966, libro I, cap. I, p. 10.
4
ARISTOTELE, Politica, Laterza, Bari, 1973, I, 8, 1256 b.
7
287 a.C.), che si discostò dalla dottrina del suo maestro, polemizzando contro i sacrifici degli
animali e sostenendo che tra gli uomini e gli animali, essendo parte di una stessa koinomia,
comunità, doveva esistere un rapporto basato sulla giustizia. Sacrificando gli animali, esseri viventi,
si commetteva al contrario un'ingiustizia, perchè veniva loro rubata la vita.
Particolarmente interessante il pensiero di un'altro filosofo greco, Plutarco (47 d.C. - 127
d.C.), il quale abbraccia una concezione filosofica controcorrente rispetto a quella greca dominante,
basata sull'antropocentrismo, secondo la quale, mentre tra gli esseri razionali, ossia gli uomini,
esiste la base per regolarne i rapporti con norme giuridiche, questa base non sussiste nel rapporto tra
gli uomini e gli animali, essendo questi ultimi esseri irrazionali, pertanto l'uomo può servirsi di essi
senza commettere ingiustizia.
Plutarco, al contrario, è un convinto assertore del diritto degli animali a non dover patire a
causa della sopraffazione umana. Tre racconti contenuti nei suoi Moralia 6 , scritti dedicati a
tematiche diverse (dalla filosofia alla religione, dalla storia alla scienza, alla letteratura, alla
politica), pur affrontando il tema secondo differenti prospettive, hanno in comune la pietà per la
sofferenza inflitta senza colpa. Nella sua opera egli manifesta la convinzione che anche gli animali
agiscono con razionalità, senso morale e giustizia.
La visione antropocentrica ritorna nella Francia del XVII secolo col matematico e filosofo
francese René Descartes (1596 - 1650), che può essere considerato a tutti gli effetti il filosofo
“nemico numero uno” degli animali, con la sua teoria dell'animale-macchina.
Cartesio, erede della tradizione aristotelico-tomista, paragona gli animali alle macchine, e
dunque agli automi, li definisce “bruti privi di pensiero”7.
Le loro reazioni non sono conseguenza della sensibilità, ma hanno natura esclusivamente
meccanica; la risposta allo stimolo del dolore è inconsapevole, in quanto gli animali non sono dotati
di autocoscienza. In sostanza essi non avrebbero consapevolezza delle sensazioni che provano, non
essendo in grado di pensare.
Questa teoria, piuttosto contorta, è nata probabilmente a sostegno della divisione che
Descartes effettua tra la res extensa, la materia, e la res cogitans, lo spirito: dato che gli animali non
possiedono il pensiero, ovviamente vengono relegati nella res extensa e quindi considerati come
semplici meccanismi, da utilizzare dall'uomo a suo piacimento, anche per semplice divertimento.
Le conseguenze del pensiero cartesiano vengono riportate da Leonora Rosenfield (1909 -
1982) in una sua opera:
“ Gli scienziati (cartesiani) bastonavano i cani con la più assoluta indifferenza e si prendevano
gioco di coloro che provavano compassione di queste creature pensando che sentissero dolore.
5
S. CASTIGNONE, Povere Bestie, I diritti degli animali, Marsilio Editori S.p.A., Venezia, 1997, p. 30.
6
Cfr. PLUTARCO, Plutarch's Morals V1, Kessinger Publishing Co.,Kila, Arizona ( U.S.A.), 2006.
8
Dicevano che gli animali non sono altro che orologi, che i lamenti con cui reagiscono alle percosse
sono solo il rumore di una piccola molla che è stata sollecitata, e che nel loro corpo non c'è posto
per i sentimenti. Essi immobilizzavano quei poveri animali su delle tavole di legno inchiodando le
loro zampe e li vivisezionavano per poter osservare la circolazione del sangue che era allora oggetto
di vivaci controversie”8.
Tra la visione cartesiana e quella dei filosofi appartenenti al Movimento dei diritti degli
animali (che verrà illustrata più avanti), potremmo collocare la posizione del filosofo tedesco
Immanuel Kant (1724 - 1804), sostenitore della teoria dei “doveri indiretti”, accennata
precedentemente analizzando il pensiero tomista.
Per comprendere tale teoria si può fare l'esempio di una persona che prende a calci un gatto:
questi ha compiuto un atto sbagliato, non tanto nei confronti del gatto ma nei confronti del suo
padrone, in primis ledendo una sua proprietà ed inoltre arrecandogli un dispiacere in conseguenza di
questa azione. Il danneggiato è perciò il padrone dell'animale ed i doveri che ognuno ha nei
confronti dell'animale sono in realtà doveri indiretti verso il suo padrone.
La posizione kantiana, pur essendo meno rigida verso gli animali rispetto a quella cartesiana,
è comunque antropocentrica: egli vede l'uomo come un essere razionale, capace di discernere,
meritevole di rispetto e titolare di diritti. L'antitesi di questo essere è una cosa.
Tuttavia, nello scritto Dei doveri verso gli animali e gli spiriti non dichiara mai
esplicitamente quello che la sua teoria implicitamente sostiene, e cioè che gli animali sono cose. Al
massimo afferma che gli animali “non hanno consapevolezza di sè e che sono semplicemente dei
mezzi per uno scopo”, condannando comunque ogni crudeltà nei loro confronti. Tale condanna però
non è giustificata dal riconoscimento di un qualche diritto verso gli animali, ma dal timore che un
tale comportamento venga ripetuto nei confronti degli umani.
Infatti, scorrendo lo scritto sucitato, si legge “...e l'uomo essendo il fine, non vi sono verso
essi (gli animali) doveri diretti, ma solo doveri indiretti verso l'umanità. Poichè gli animali
possiedono una natura analoga a quella degli uomini, osservando dei doveri verso essi osserviamo
dei doveri verso l'umanità, promuovendo con ciò i doveri che la riguardano (...). Chi perciò facesse
uccidere il proprio cane, non agirebbe affatto contro i doveri riguardanti i cani, i quali sono
sprovvisti di giudizio, ma lederebbe nella loro intrinseca natura quella socialità e umanità che
occorre rispettare nella pratica dei doveri verso il genere umano. Per non distruggerla, l'uomo deve
mostrare bontà di cuore verso gli animali, perciò chi usa essere crudele verso di essi è altrettanto
insensibile verso gli uomini”9.
7
R. DESCARTES, Gli animali sono macchine, in Discorso sul metodo, SEI, Torino, 1978, pp. 88-93.
8
L. ROSENFIELD Choen, From Beast-Machine to Men-Machine, Columbia University Press, New York,
1988.
9
I. KANT, Dei doveri verso gli animali e gli spiriti, in Lezioni di etica, Laterza, Bari, 1971, pp. 273-274.
9
Kant concorda con la concezione tomistica nel condannare la crudeltà verso l'animale, in
quanto chi è crudele verso le bestie potrebbe essere più propenso ad incrudelirsi anche verso le
persone.
Non bisogna pensare però che questa posizione porti ad aborrire la vivisezione: essa è sì una
pratica crudele, ma finalizzata ad ottenere futuri vantaggi per l'uomo. Dunque l'avversione alla
crudeltà verso gli animali incontra il limite dell'utilità per l'essere umano.
Contemporaneo di Kant è lo scozzese David Hume (1711 – 1776), il quale fu tra i filosofi
che si discostarono dal razionalismo per abbracciare una corrente di pensiero basata sulla sensibilità
e sulle emozioni, anziché sulla pura ragione.
Si passò dunque da una visione dell'animale come essere diverso, inferiore, soggetto
all'uomo, a quella di una unica natura tra animali ed uomini.
Hume sostiene esplicitamente l'esistenza della “ragione degli animali”: “sembra evidente
che gli animali, al pari dell'uomo, imparino molte cose dall'esperienza e inferiscano che gli stessi
eventi derivino sempre dalle stesse cause”10.
Con ciò non è che egli parifichi la ragione umana a quella animale, ma asserisce che
quest'ultimo è in grado di imparare, tramite semplici processi mentali, di ricordare e collegare
atteggiamenti umani e loro comandi a specifiche situazioni (per questo molti animali possono essere
addestrati), di “fare esperienza” dalla commissione di determinati comportamenti, per non subìrne
le stesse conseguenze, o al contrario, per trarne gli stessi benefici.
C'è solo una differenza di complessità nell'eseguire le connessioni, ma il funzionamento di
base è lo stesso: così come l'uomo, anche l'animale dimostra di saper adattare i mezzi al fine,
guidato dalla ragione, e compie quelle azioni che tendono alla conservazione, propria e della specie,
al perseguire il piacere e all'evitare il dolore.
Il pensiero umano, fino alla seconda metà del XX secolo, aderisce prevalentemente
all'antropocentrismo, con poche eccezioni, come nel caso del filosofo, giurista ed economista
inglese, Jeremy Bentham (1748 - 1832), fondatore dell'utilitarismo moderno.
L'utilitarismo, dal latino utilis, utile, è una dottrina di natura etica, secondo la quale è “bene”
o “giusto” tutto quanto è finalizzato all'aumento della felicità degli esseri sensibili. Utilità pertanto è
la misura della felicità. Il concetto di “utilità” trovò in Bentham una formulazione compiuta,
giacchè egli la definì come ciò che produce vantaggio, massimizzando il piacere e rendendo
minimo il dolore: il principio di utilità benthamiano è inteso come la realizzazione della maggiore
felicità per il maggior numero di esseri coinvolti.
Le sue argomentazioni a favore del riconoscimento di molte libertà, dalla libertà personale
ed economica alla libertà di parola, all'abolizione della schiavitù e delle punizioni fisiche, si
10