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Le difficoltà, inoltre, aumentano sensibilmente se si tiene nel
giusto conto che lo stile di scrittura di Bergson (unico filosofo in
grado di ricevere il premio Nobel per la letteratura) si presenta,
sovente, particolarmente fiorito e non raramente ricco di preziosismi
letterari, che – se per un verso arricchiscono non poco il patrimonio
estetico dei testi – per un altro ne rendono certamente più laborioso
lo sforzo di comprensione ad opera della critica filosofica.
Comunque, le molteplici e differenziate riflessioni bergsoniane
vantano – a mio avviso – un utilissimo punto di accumulazione: la
nozione di durée.
Tale concetto rappresenta, infatti, il nucleo più autentico della
teoresi bergsoniana, a partire dalla prima fondamentale opera, Il
Saggio sui dati immediati della coscienza, fino all’ultimo
capolavoro, in ordine cronologico, Le due Fonti della morale e della
religione, passando attraverso il saggio forse più felice, Materia e
Memoria, e l’opera sicuramente più nota al grande pubblico,
L’evoluzione creatrice.
Lungo questo itinerario bergsoniano – che, evidentemente,
coincide con la linea di sviluppo del presente lavoro di tesi – la
nozione di durée si confronta, e felicemente si contamina, con le
acquisizioni più recenti delle scienze sperimentali, secondo un
modello interdisciplinare di ricerca filosofica, che si fonda su un
non-irrilevante sincretismo culturale.
Giammai la speculazione di Henry Bergson si riduce, infatti, ad
una mera filosofia del tempo.
7
La durée, che pure rappresenta una maniera soggettiva e
personalissima di considerazione del flusso temporale, contribuisce,
nell’impianto complessivo delle idee bergsoniane, a fondare la
credibile ipotesi teoretica di un rinnovato modello scientifico e,
soprattutto, di una riformata morale, sia pubblica che privata.
A partire dalle riflessioni sull’idea di tempo non-spazializzato e
non-matematizzato, il filosofo francese traccia un percorso, tanto
articolato quanto invero seducente, mirato a conferire finalmente la
giusta dignità filosofica alla complessa nozione di ‘vissuto’, che fino
a quel momento storico era stata pressoché bandita dal pensiero
europeo, in nome o dell’idealismo ateo tedesco o più sovente del
positivismo scientista di provenienza francese.
Bergson inaugura, così, nuove e prolifiche prospettive per la
filosofia occidentale, gravide però di una radice antichissima ed
altrettanto nobile: la cultura biblica e giudaico-cristiana.
Quest’ultima, infatti, condiziona non solo i risultati degli studi
e delle ricerche dell’intellettuale francese, ma anche – ed in modo
più precipuo – le sue radicali scelte di vita, in particolare in materia
di fede.
Il tema del ‘vissuto’ fa continuamente i conti, nel sistema
bergsoniano, con l’unico composito modello culturale che aveva
messo seriamente in crisi il ponderalismo della scienza moderna:
l’evoluzionismo.
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Da quest’ultimo filone della tradizione scientifica, in effetti,
Bergson recepisce non tanto il significato meramente biologistico
della dottrina lamarkiana o darwiniana, quanto le connesse valenze
sociologiche e psicologiche, care anche ai più importanti
rappresentanti delle scienze politiche europee di fine Ottocento e di
inizio Novecento, Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto su tutti.
Ed è proprio il rapporto non poco problematico tra filosofia
della durée ed etica comunitarista, per lo più di ascendenza
cristiano-liberale, che la presente tesi di dottorato si propone di
indagare, esplorandone i presupposti culturali e religiosi, ed
evidenziandone i possibili limiti e le eventuali aporie.
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Capitolo I
~ PARAGRAFO I ~
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– Che cos’è la durata?
– Autocoscienza e metafisica positiva
– Le caratteristiche morfologico-espositive della riflessione di
Henry Bergson
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La durata – e le molteplici possibilità teoretiche relative ai
modi della sua intellezione – rappresenta il concetto primario
intorno al quale ruota l’insieme delle riflessioni di Henry Bergson.
Il pensiero del filosofo francese si presenta, ad un esame
complessivo della vasta produzione saggistica e pubblicistica,
lasciataci in eredità, variegato, frammentario, talora apparentemente
incompleto e privo di una classica articolazione argomentativa, pure
a fronte di uno stile di scrittura intenso, avvincente, vivido e,
letterariamente, esaltante.
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Contrariamente ad altri autori della storia della filosofia
occidentale, per i quali è possibile, in buona approssimazione,
stabilire un nesso stretto fra singole opere e determinati concetti o
problematiche ivi discusse o ad essi afferenti, per Bergson, invece,
non si può isolare il tema della durata in riferimento, soltanto, a
questo o a quel saggio.
Sembra, quasi, che l’ampia produzione letteraria del filosofo
francese, che si snoda nell’arco di circa quarant’anni, attraversando
momenti di fortuna anche particolarmente significativi ed
incrociandosi con il nascere e lo spegnersi di sistemi metafisici
fortemente strutturati ed articolati, rappresenti un continuo tentativo
da parte del suo autore di chiarimento, in primis a se stesso e quindi
al lettore non sprovveduto, del ‘quid’ della durata. Tutte le opere, e
non soltanto quelle che programmaticamente, anche nel titolo,
affrontano il tema del tempo, costituiscono una tappa fondamentale
nel percorso bergsoniano di spiegazione ed illustrazione della
portata, filosoficamente innovativa, della categoria della durata.
Anzi – leggendo Bergson, è opportuno abituarsi a paradossi
fecondi da un punto di vista intellettuale – le opere, che non hanno,
almeno apparentemente, un legame stretto con l’epistemologia e con
le tematiche stricto sensu scientifiche, sono quelle che, forse,
possono illuminare lo studioso ed aprire sentieri di ricerca gravidi di
risultati più ambiziosi.
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Bergson dissemina, in tutto il suo vasto corpus letterario,
tentativi di definizione della durata: si tratta di enunciati, talora
ripetitivi, che si arricchiscono, di volta in volta, di elementi tematici,
anche nuovi, tutti sicuramente necessari ed utili al certosino lavoro
di chiarimento del suo significato. Nessuna di tali definizioni, però,
rappresenta un momento definitivo e compiuto, quasi a far intendere
che la ricerca, ad un tempo intellettuale ed esistenziale, del σηµα
della durata, ineluttabilmente, si espone alla provvisorietà, alla
precarietà e all’incompletezza. Bergson ha, infatti, modo di
affermare che: “facciamo una tale fatica a distinguere tra la
successione nella vera durata e la giustapposizione nel tempo
spaziale, tra un’evoluzione ed uno svolgimento, fra la novità
radicale ed un riadattamento del preesistente, fra la creazione e la
semplice scelta, che non sapremmo chiarire questa distinzione per
troppi aspetti alla volta. (….) Facendo lo sforzo necessario per
abbracciare l’insieme, ci si accorge che si è nel reale, e non davanti
ad un’essenza matematica che potrebbe contenere l’insieme in una
semplice formula.”
(1)
Tesi analoga – circa le difficoltà insite nel lavoro di
individuazione di una definizione, di per sé, univoca e sufficiente a
rendere la poliedricità del concetto di durata – viene ribadita, assai
autorevolmente, da Pier Aldo Rovatti che, in un breve scritto
introduttivo ad un numero monografico di Aut Aut, così si esprime:
“la durée bergsoniana si presenta, al termine di questo itinerario,
come un luogo non riducibile a una definizione semplice, bensì
12
come un crocevia filosofico complesso ed esplosivo, ancora in gran
parte da esplorare.”
(2)
Noi, dal canto nostro, stando appena all’inizio di questa
perigliosa ‘esplorazione’, possiamo asserire che la durata afferisce
alla dimensione estetica della vita umana e non è, affatto,
indifferente all’elaborazione di un’articolata dottrina metafisico-
epistemologica. La nozione di ‘estetica’ va, qui, intesa
nell’accezione kantiana, soltanto, perché, con essa, condivide una
comune appartenenza semantico-disciplinare: indica, infatti, il piano
della riflessione avente a tema le forme ed i modi dell’intellezione
del tempo ed, attraverso questa, dello spazio. Bergson, per altro
verso, individua, nel merito, la filosofia kantiana come uno dei
principali ostacoli per l’emancipazione del pensiero speculativo
europeo. I giudizi del filosofo francese, al riguardo, indicano una
netta antitesi al criticismo, al presunto ‘relativismo’ gnoseologico,
che da esso discenderebbe, e profilano, sia pure per via negationis, i
primi, approssimativi orientamenti della sua speculazione. Le
osservazioni, mosse all’impianto teoretico ideato dall’autore delle
Critiche, sono efficacemente compendiate nel passo seguente. “A
fianco dell’associazionismo vi era il kantismo, la cui influenza,
spesso combinata del resto con la prima, era non meno potente e non
meno generale. Coloro che ripudiavano il positivismo di un Comte o
l’agnosticismo di uno Spencer, non osavano andare fino a contestare
la concezione kantiana della relatività della conoscenza. Kant aveva
stabilito, si diceva, che il nostro pensiero si esercita su una materia
13
dispersa inizialmente nello Spazio e nel Tempo, e preparata così
appositamente per l’uomo: la ‘cosa in sé’ ci sfugge. Per coglierla,
bisognerebbe avere una facoltà intuitiva che noi non possediamo.
Dalla nostra analisi risultava, al contrario, che una parte, almeno,
della realtà – la nostra persona – può essere afferrata nella sua
purezza naturale. I materiali della nostra conoscenza, infatti, non
sono stati creati, o frantumati e deformati, ad opera di un qualche
spirito maligno, il quale avrebbe successivamente gettato in un
recipiente artificiale – la nostra coscienza – una polvere psicologica.
La nostra persona ci appare così come è ‘in sé’ nel momento in cui
ci liberiamo dalle abitudini contratte per nostra maggiore comodità.
(….) Ciò che noi scartavamo, dunque, non era soltanto una teoria
psicologica, l’associazionismo, ma anche, e per una ragione analoga,
una filosofia generale come il kantismo e tutto ciò che vi si
ricollega. L’una e l’altra, quasi universalmente accettate nei loro
propositi generali, ci appaiono come impedimenta che ostacolano il
cammino della filosofia e della psicologia.”
(3)
Come si può arguire, l’elaborazione della teoria della durata,
resa possibile anche grazie al frequente ricorso a riferimenti
multidisciplinari, rappresenta un raffinato tentativo, da parte di
Bergson, di definizione di una dottrina, valida in sede psicologica,
gnoseologica e, soprattutto, storico-esistenziale, in grado di
descrivere, tematizzare la genesi e la morfologia della personalità e
del vissuto umano.
14
L’uomo, cogliendo il tempo alla maniera della durée
bergsoniana, realizza, in primis, una conoscenza intuitiva di se
stesso: riflessività ed immediatezza rappresentano sia il contenuto
che le proprietà formali dell’esperienza conoscitiva.
L’immediatezza – hanno insegnato consolidate tradizioni
filosofiche – afferisce, per sua definizione e per implicita semantica,
alla dimensione della datità: il dato, sensibile o intellettuale o
psicologico o matematico-quantitativo, è, per sua natura, tout court
evidente.
La sensazione del caldo o del freddo, il cogito cartesiano e la
percezione di una grandezza empirica, rappresentano, ad esempio,
pur nella propria specificità ed in ambiti teoretici profondamente
diversi fra loro, contenuti di un sapere intuitivo. La conoscenza, che
in termini rigorosamente bergsoniani ha come tema le evidenze
soggettive del vissuto ed, attraverso queste ultime, attribuisce valore
logico-concettuale ai riflessi sfumati del ‘sé’, pertiene all’originaria
datità della durata.
Allo scopo di leggere una prima, sia pur parziale, formulazione
di tale nozione, è opportuno ora confrontarsi, dunque, direttamente
con il testo di Bergson ed, in particolare, con la sua opera giovanile
di più rilevante significato filosofico, il Saggio sui dati immediati
della coscienza: “(…) la durata assolutamente pura è la forma che
assume la successione dei nostri stati di coscienza quando il nostro
io si lascia vivere, quando si astiene dallo stabilire una separazione
tra lo stato presente e gli stati anteriori.
15
Non gli occorre, per questo, di lasciarsi interamente assorbire
nella sensazione o nell’idea che passa, perché in tal caso, al
contrario, cesserebbe di durare. Non gli occorre neppure di
dimenticare gli stati anteriori: basta che ricordandosi di questi stati
non li giustapponga allo stato presente come un punto ad un altro
punto, ma li organizzi con quello, come succede quando ci
ricordiamo fuse, per così dire, insieme, le note di una melodia. Non
si può dire che, se queste note si succedono, noi le scorgiamo
tuttavia le une nelle altre, e che il loro insieme è paragonabile ad un
essere vivente le cui parti, benché distinte, si compenetrano per
l’effetto stesso della loro solidarietà? Prova ne è che se rompiamo la
misura insistendo più del ragionevole su una nota della melodia, non
è la sua lunghezza esagerata, in quanto lunghezza, che ci avvertirà
del nostro sbaglio, ma il cambiamento qualitativo che, così, si è
apportato all’insieme della frase musicale. Si può dunque concepire
la successione senza la distinzione, e come una reciproca
compenetrazione, una solidarietà, un’organizzazione intima di
elementi ognuno dei quali, rappresentativo del tutto, non se ne
distingue e non se ne isola che per un pensiero capace di astrarre.
Tale è senza dubbio la rappresentazione che si farebbe della durata
un essere identico e cangiante al tempo stesso, che non avesse
nessuna idea dello spazio. Ma abituati a quest’ultima idea,
ossessionati anzi da essa, la introduciamo a nostra insaputa nella
nostra rappresentazione della successione pura; giustapponiamo i
nostri stati di coscienza in modo da percepirli simultaneamente, non
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più l’uno nell’altro, ma l’uno accanto all’altro; in breve proiettiamo
il tempo nello spazio, esprimiamo la durata in estensione, e la
successione prende per noi la forma di una linea continua o di una
catena, le cui parti si toccano senza penetrarsi.”
(4)
Bergson ha, così, brillantemente descritto la durée e, con essa, i
concetti antitetici di successione e simultaneità, che rinviano,
rispettivamente, alle proprietà formali della durata reale e del tempo
spazializzato. Mentre la simultaneità prevede una coesistenza di tipo
paratattico fra istanti successivi di tempo (ciascuno di essi è
riducibile ad un oggetto materiale che, nello spazio fisico, giace
“accanto” ad altri, senza che vi sia forma alcuna di
implementazione), la successione, invece, individua un rapporto di
compenetrazione fra momenti plurimi, al punto che la molteplicità di
esistenze autonome lascia il posto ad una superiore ed olistica unità
– la durata, appunto – organicamente articolata e strutturalmente
composita.
Leggendo, dunque, ancora il testo di Bergson, “(…) la pura
durata potrebbe benissimo essere niente altro che una successione di
cambiamenti qualitativi che si fondono, si compenetrano, senza
contorni precisi, senza nessuna tendenza ad esteriorizzarsi gli uni
nei confronti degli altri, senza nessuna parentela con il numero:
sarebbe l’eterogeneità pura.”
(5)
Giova, inoltre, ricordare che Henry Bergson, nelle pagine
dell’Essai, precedenti a queste ultime riflessioni, aveva sostenuto
che l’unità numerica, ritenuta astratta dalle matematiche anche più
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avanzate, presuppone, invece, le categorie di spazio e di tempo. Lo
spazio è la condizione essenziale che rende possibile la sommabilità
o, comunque, qualsiasi altra procedura algoritmica: addizionare
‘1+1’ infatti presuppone, pitagoricamente, il raddoppiamento di un
qualsiasi oggetto spazializzato, fisicamente prefigurato (si
ricordano, ad esempio, i granellini di sabbia del matematico greco?).
L’operazione fra simboli logico-matematici segue (e non ne è,
assolutamente, autonoma) la figurazione, reale o immaginaria,
dell’estensione.
Altresì, la categoria di tempo è la condizione essenziale per la
numerabilità delle unità aritmetiche: per contare ‘1, 2, 3’ è
necessaria una dimensione – la durée – nella quale l’epifania del
termine successivo non cancella affatto l’antecedente, anche quando
quest’ultimo viene taciuto. La successione è possibile soltanto nel
tempo. In sintesi, sembra che il filosofo francese voglia dire, anche
se non ancora esplicitamente, che il ‘due’, come entità aritmetica e
concetto metafisico, è, soprattutto, memoria conservativa dell’
‘uno’.
In sostanza, quindi, il numero, come fattore di calcolo, si
compone nello spazio; come unità logica, in quanto successione di
istanti – che si protraggono fino a ‘comprendersi’ l’uno nell’altro –
si costituisce nel tempo. Lo spazio è la condizione di possibilità
dell’analisi, il tempo, invece, della sintesi. Rilevante è, così, il fatto
che Henry Bergson, non avendo ancora formulato, a questo punto
della sua opera, nel modo forse più compiuto, la definizione della
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durata ed avendola soltanto descritta attraverso la poeticissima
similitudine delle note della melodia, ne abbia già fornito una lucida
esemplificazione, mantenendosi sul piano di discussione meramente
trascendentale, che precede le riflessioni di derivazione psicologica
di Materia e Memoria e le osservazioni, di ascendenza biologica,
dell’Evoluzione Creatrice.
Trasferendo, dunque, questo insieme di riflessioni dal piano
logico-metafisico a quello psicologico-coscienziale, è opportuno
sottolineare come, nella prospettiva del filosofo francese, possa
innovativamente essere inteso quale dato un processo di
autointellezione – quello che si realizza per via della durata – che,
invece, comporta, per sua definizione, un iter continuativo, e perciò
mai puntuale, di ridefinizione, plastica ed emotiva, del ‘sé’. L’atto
del conoscere, ovvero del conoscersi, implica, bergsonianamente,
una ricostruzione dinamica delle proprie origini; si fonda su un’idea
di tempo che prevede l’attualizzarsi del passato in una sintesi
storica, sempre viva e rinnovata, comprensiva, anche, delle istanze
del presente. Questo processo, che coinvolge l’uomo, si allarga
progressivamente alle altre forme di vita, fino ad implicare la natura
nella sua globalità: l’evoluzione, lontana dalle idee positivistiche e
spenceriane, si configura come l’estensione al mondo biologico
dello schema vitalistico della durata, quasi a far intendere l’esistenza
di un’ intima ed universale coscienzialità, tendenzialmente, agente in
tutti i viventi.