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1.2 L’ECOLOGIA DEL PAESAGGIO
L’ecologia del paesaggio studia lo sviluppo e le dinamiche dell’eterogeneità spaziale, la sua
gestione, l’influenza che essa esercita sui processi biotici ed abiotici, e le interazioni fra paesaggi
(Turner, 1989).
Il paesaggio è definito da Whittaker (1975) come un contesto spaziale per le comunità o gli
ecosistemi, ovvero come un gradiente geografico in grado di influire sulle strutture e sui processi
ecologici a livello di organismi, popolazioni e comunità. Forman (1997) ne parla come di un
mosaico formato da un raggruppamento di ecosistemi che si ripetono nello spazio con forma
similare e a scale differenti, con dei confini identificabili.
Il paesaggio si compone di un insieme di patches, frammenti di habitat inseriti in una matrice,
definita come l’uso del suolo prevalente in un’area (Farina, 2001). Ogni patch è funzione-specifica,
per cui ogni specie considera la patch secondo la funzione che svolge nella propria nicchia (habitat,
roost, dormitorio, stepping-stone, ...), ed è specie-specifica, ovvero ogni specie vede le patches alla
propria grana di risoluzione e quindi ne identifica di differenti rispetto ad altre specie (Farina,
2001).
La matrice è caratterizzata a sua volta da un’alta copertura sul territorio e dalla capacità di controllo
delle dinamiche fra patches, dipendente sia dalla sua composizione che dalla sua permeabilità
(Forman e Godron 1986).
Lo studio di un ecosistema richiede quindi l’utilizzo di una specifica scala che consideri gli
ambienti circostanti il sistema (Urban et al., 1987). Mitsch (1992) afferma che il monitoraggio delle
aree umide deve operare a diverse scale di paesaggio, in modo da evidenziare la differente
funzionalità di questi ecosistemi.
Tuttavia, studi che utilizzano una grana troppo ampia tendono a far perdere l’informazione relativa
agli ecosistemi più rari del paesaggio e a far diminuire la percezione della sua variabilità (Turner et
al. 1989; Wiens 1989). Viceversa, una grana troppo stretta influisce sulla percezione di una
maggiore eterogeneità degli habitat e quindi una eccessiva variabilità negli ecosistemi (Wiens
1989).
Bailey (1987) stabilisce quindi 3 scale principali per mappare gli ecosistemi: macroscala
(regionale), definita dal clima, mesoscala (a livello di mosaico paesistico), definita dalla forma del
terreno, e microscala (a livello di elementi del paesaggio), definita dalle caratteristiche della
vegetazione (per gli uccelli, cfr. Böhning-Gaese, 1997).
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Noss ed Harris (1986) sottolineano l’importanza di ampliare la scala degli studi dal contenuto di un
sito al suo contesto, poiché i terreni di confine possono avere effetti significativi sulla composizione
delle specie all’interno di un’isola di habitat (Harris 1984).
Effettuare studi al livello di paesaggio ha profonde implicazioni in termini di conservazione della
biodiversità e gestione delle aree naturali protette (Franklin, 1993).
1.3 IL CONCETTO DI DISTURBO
Il disturbo viene definito da Farina (2001) come un processo di natura biotica o abiotica, di origine
naturale o antropica, in grado di destabilizzare i sistemi naturali a qualsiasi livello gerarchico.
Secondo White e Pickett (1985), il disturbo è un evento discreto nel tempo e nello spazio che altera
la struttura di ecosistemi, comunità, popolazioni, modificando il substrato e l’ambiente fisico.
Il disturbo non determina un’alterazione necessariamente negativa, in quanto per definizione esso
non distrugge, ma modifica il contesto. Secondo la teoria del disturbo intermedio di Hobbs e
Huenneke (1992), infatti, la diversità di specie in una patch è più elevata quando il disturbo mostra
frequenza ed intensità intermedie nell’ambito del proprio range di variazione.
L’intensità, la durata e la frequenza di un disturbo, ovvero le sue caratteristiche misurabili, possono
segnare il limite fra disturbi naturali ed antropici (“regime di disturbo”; Hobb s e Huenneke, 1992).
La presenza di disturbi di origine naturale in un ambiente determina uno stato che viene definito
naturalità, e che rappresenta una condizione dinamica di un ecosistema (Osborn, 1996).
Regimi di disturbo naturale possono essere rappresentati da fattori e processi di natura fisica,
chimica e biologica, che possono variare improvvisamente o secondo un gradiente, diversamente
percepibili a diverse scale e che influenzano la distribuzione spaziale delle specie sul territorio
(Wiens, 1976). A larga scala, questi processi creano un mosaico di situazioni in movimento
all’interno di una condizione globale stabile, che porta alla formazione di una
mosaicità/eterogeneità naturale di origine non antropica. Ne risulta che qualsiasi ambiente è di per
sè eterogeneo, ed è errato affermare che esistano ambiti naturali “omogenei” (cfr. Battisti, 2004).
Laddove i processi possono continuare ad esplicarsi, la diversità delle comunità persiste, mentre
negli ambienti frammentati anche un disturbo di origine naturale può rappresentare un pericolo
(Noss, 1983). Margules e Usher (1981) ritengono quindi che si possa parlare di disturbi di origine
naturale solo al di fuori della sfera di influenza umana, anche se in realtà affermano che sia più
esatto considerare diversi livelli di influenza, visto che pochi luoghi risultano ormai liberi da ogni
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attività umana. Di conseguenza, viene accettata come naturale una situazione in cui l’influenza
umana, anche se presente, non è misurabile (Freedman, 1989).
L’analisi dei disturbi in un mosaico di paesaggi può essere estremamente utile per valutare il ruolo
delle singole componenti e/o del sistema complessivo nel mantenere specie o comunità (Tews et al.,
2004).
1.4 FRAMMENTAZIONE ED EFFETTO MARGINE
Per frammentazione ambientale si intende quel processo dinamico di origine antropica attraverso il
quale una determinata tipologia ambientale subisce una suddivisione in frammenti più o meno
disgiunti e progressivamente più piccoli ed isolati (Bennett, 1999). Questo processo è stato definito
come la minaccia più seria alla biodiversità e la prima causa dei fenomeni di estinzione che si
verificano in questa epoca (Wilcox e Murphy, 1985).
Osborn (1996) identifica cinque conseguenze del processo di frammentazione: 1) la ridotta
possibilità di colonizzare l’habitat a causa dell’incremento dell’isolamento e della presenza di
barriere al movimento ed alla dispersione; 2) la perdita dell’eterogeneità naturale dell’habitat; 3) la
diminuzione delle interazioni tra i componenti dell’habitat; 4) la possibilità che si verifichino effetti
secondari derivati dalle nuove interazioni fra gli elementi o dall’impedimento delle interazioni
originali; e 5) l’effetto margine (edge effect), che riduce ulteriormente i frammenti.
Molte specie ornitiche utilizzano delle zone di transizione (ecotoni, zone di tensione fra due
ecosistemi) per nutrirsi, trovare riparo e/o attraversare una matrice inospitale (Farina, 2001).
Nell’ecotono si forma una comunità ecotonale caratteristica, composta sia da specie che
appartengono alle comunità delle due tipologie ambientali a contatto, sia da nuove specie adattate al
margine (edge species), abbondanti soprattutto in questo tipo di habitat (Odum, 1971).
Gli ecotoni si costituiscono infatti nel punto di incontro fra due patches, o fra una patches e la
matrice, dove i margini dei frammenti vengono a contatto. Il margine (edge) rappresenta il punto in
cui due comunità vegetali diverse si incontrano, o dove stadi successionali o condizioni
vegetazionali differenti all’interno della stessa comunità vegetale vengono a trovarsi in contatto
(Thomas et al., 1979).
Il processo di frammentazione tende ad incrementare l’effetto margine a scala di paesaggio
(Andrén, 1994). Per “effetto margine” (edge effect), si intende la presenza di effetti fisico-chimici
ed ecologici, provenienti dalla matrice, che si riscontrano nelle aree di contatto e limitrofe fra
tipologie ambientali differenti (cfr. Battisti, 2004).
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L’effetto margine è la conseguenza più significativa della frammentazione (Zheng e Chen, 2000).
Esso si esplica direttamente con un aumento nella superficie delle zone ecotonali, a discapito della
superficie interna della patch (Farina, 2001).
Il frammento residuo risulta quindi ulteriormente suddivisibile in un settore interno, dove gli effetti
della matrice hanno scarso o nessun effetto (nucleo, core o interior area) ed in cui vivono le
interior species, ed un settore marginale più ampio di quello originale, dove l’effetto della matrice è
prevalente ed in cui vivono le edge species (Sisk et al., 1997; Bennett, 1999). Come conseguenza
dell’effetto margine, le edge species sono rappresentate sempre più spesso da specie generaliste
caratteristiche degli habitat disturbati della matrice, quali terreni agricoli, ambienti urbani e
suburbani (Harris 1988; Noss, 1983).
La forma e la dimensione di una patch influiscono sulla comunità che vi abita e sulla funzionalità
dell’area come habitat sfruttabile (in riferimento alle aree umide: Harris, 1988), poiché l’effetto
margine si esplica soprattutto in presenza di un basso rapporto area/perimetro, quando i frammenti
sono piccoli o dai margini irregolari (Thomas et al., 1979).
Findlay e Houlahan (1997) affermano che l’urbanizzazione in particolare determini un forte
aumento del margine delle patches ed influenzi fortemente le comunità ornitiche. Di particolare
impatto negativo è la costruzione di strade, poiché crea disturbo allo spostamento degli individui,
incrementa la mortalità dovuta agli incidenti e soprattutto facilita l’accesso di ulteriori elementi di
disturbo negli habitat (Findlay e Houlahan 1997). Questi effetti sono particolarmente forti nelle aree
umide (cfr. paragrafo “Aree umide residuali”).
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1.5 ETEROGENEITÀ E DIVERSITÀ DI SPECIE
Il processo di frammentazione interviene sull’eterogeneità naturale, collocando in posizione
adiacente patches differenti strutturalmente e funzionalmente fra loro (Farina, 2001).
Diversi studi affermano, senza distinguere fra eterogeneità naturale o antropogenica, che la presenza
di differenti microhabitat in un dato ambiente abbia un effetto positivo sulla biodiversità,
specialmente per quanto riguarda la fauna ornitica (cfr. Tews et al., 2004).
A tal proposito, l’ “ipotesi dell’eterogeneità degli habitat” è restata a lungo una pietra miliare
dell’ecologia del paesaggio (Simpson, 1949; MacArthur e Wilson, 1967). Essa assume che habitat
strutturalmente complessi possano fornire più nicchie e diverse vie di sfruttamento delle risorse
ambientali, incrementando la diversità di specie.
Noss e Harris (1986) ridimensionano queste affermazioni sostenendo la necessità di focalizzare
l’attenzione più sulla qualità della diversità di specie che sui suoi alti valori. La diversità delle
specie, infatti, può essere incrementata dall’effetto margine, ma le specie sopraggiunte sono
tipicamente comuni e la diversità regionale resta inalterata (Noss 1983).
A seconda del gruppo tassonomico considerato, della scala spaziale e dei parametri strutturali della
vegetazione, la diversità di specie può sia diminuire che aumentare con l’incremento
dell’eterogeneità dell’habitat (cfr. Tews et al., 2004).
Questo effetto dipende dal fatto che non tutte le specie sono influenzate allo stesso modo dalle
variazioni strutturali del paesaggio, ma alcune (le edge species) le percepiscono come un
incremento della naturale complessità dell’habitat, altre (le interior species) dell’eterogeneità
antropogenica (Andrén, 1994).
L’effetto dell’eterogeneità dell’habitat sulla diversità di specie dipende, oltre che dall’ecologia della
specie, anche dal modo in cui questi due parametri vengono misurati, e dalla scala utilizzata
(Grimm e Wissel, 1997).
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1.6 AREE UMIDE RESIDUALI
Secondo Gopal e Junk (2000), le aree umide rappresentano i più fragili e minacciati ecosistemi sulla
Terra, poiché subiscono l’impatto di tutte le attività umane, sia sulla terra che in acqua.
Spesso questi ecosistemi sopravvivono in poche patches inserite in una matrice inospitale, in modo
tale che la maggior parte delle popolazioni locali siano piccole, isolate e quindi in pericolo di
estinzione (cfr. Gibbs, 1993). Molte specie legate alle aree umide, di conseguenza, esistono sotto
forma di numerose popolazioni locali, la cui sopravvivenza è soggetta alla possibilità di migrare da
una area umida all’altra, ovvero sottoforma di metapopolazioni (Hanski e Gilpin, 1991).
Resta comunque minima la nostra attuale conoscenza su come queste aree umide residuali,
essenziali per la sopravvivenza di queste metapopolazioni, siano alterate dal loro crescente tasso di
distruzione (Semlitsch e Bodie 1998). È noto tuttavia che le aree umide di piccole dimensioni
svolgono un ruolo determinante come sorgente di potenziali nuovi colonizzatori verso quelle aree le
cui popolazioni locali sono andate incontro ad estinzione. Questo discorso vale soprattutto per
tartarughe ed uccelli, e per quelle specie che abitano la patch con popolazioni poco dense ed a basso
tasso riproduttivo (Gibbs, 1993).
Nel corso dell’ultimo secolo, il numero e la dimensione delle aree umide in Europa è
drammaticamente diminuito, per cui si stima che solo un terzo di quelle esistenti all’inizio del XX
secolo sia ancora presente (Schultlink e Vliet, 1997). In particolare, i maggiori danni sono stati
subiti dalle aree umide (e la loro flora e fauna) nella fascia di clima temperato dei paesi
industrializzati.
L’urbanizzazione ne ha infatti determinato la trasformazione in terreni industriali, agricoli o
residenziali (Turner, 1991). Numerosi studi hanno dimostrato che la funzionalità delle aree umide, il
loro valore e l’integrità delle comunità ornitiche ad esse correlate sono fortemente compromesse
dall’urbanizzazione (Azous e Horner, 2001; Castelle et al., 1992a), definita dall’USEPA (1994) la
più forte minaccia nei confronti di tali ecosistemi.
Le aree umide in ambienti urbanizzati sono continuamente soggette a disturbi di origine antropica,
quali inquinamento, frammentazione, sfruttamento ad uso ricreativo e perdita diretta dell’habitat
(cfr. Grayson, 1999), che si riflettono nel progressivo degrado di ciò che ne rimane. Per molte
specie legate a questi ecosistemi, la perdita di habitat si traduce in una drastica diminuzione, se non
estinzione, delle popolazioni locali. Alcuni individui possono cercare di occupare habitat meno
adatti o di scarsa qualità, dove tuttavia il tasso riproduttivo si abbassa e la mortalità tende a crescere,
impedendo la ripresa della popolazione e quindi la sostenibilità nel corso degli anni (Pulliam e
Danielson, 1991).
Il degrado è dovuto fra l’altro all’effetto margine, ai cambiamenti nel regime idrico, all’aumento di
inquinanti (USEPA, 1994) e all’introduzione di specie alloctone e/o invasive.
Figura 1 - Principali cause di perdita e degrado delle aree umide
in Europa centrale ed orientale (modificato da Finlayson, 1992)
Le aree umide urbane, sebbene soggette a molti tipi di disturbo antropico, possono ancora esercitare
delle funzioni che rendono il loro recupero importante (Grayson et al., 1999).
Ad esempio, svolgono un ruolo di rilievo nella protezione contro le inondazioni, tamponando
l’eccesso delle acque meteoriche che vengono riassorbite dalla superficie impenetrabile del tessuto
urbano (OEP 1993).
Inoltre, forniscono habitat a specie selvatiche e pesci di importanza commerciale, ed hanno un forte
valore ricreativo, educativo ed estetico. Quest’ultima funzione svolge un ruolo particolarmente
importante in ambiente cittadino, dove pochi habitat naturali sono disponibili (cfr. Grayson, 1999).
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