In copertina: Richard Hamilton, Just What Is It That Makes Today’s Homes So Different, So
Appealing? (1956)
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Introduzione
La presente tesi nasce con l’intento di approfondire alcuni aspetti della
percezione del corpo, dell’identità e del genere nel XX secolo. In particolare
si propone di indagare le relazioni esistenti tra tale percezione e l’influenza
che figure che chiameremo “degeneri” hanno avuto sull’immaginario
collettivo, sulla cultura pop contemporanea e sulle nozioni stesse di identità,
corporeità e alterità. Il metodo seguito si basa sull’analisi sociosemiotica e di
studi visuali di tali figure appartenenti al mondo della cultura, della moda, di
alcune scene giovanili, dei media, con particolare riferimento agli studi
condotti da Benjamin, Barthes, in riferimento alle nozioni di segno, moda,
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aura; di Calefato, Attimonelli, Giannone, Butler, in relazione alle nozioni di
corpo rivestito, scene urbane, performance, identità, punk, dandy, queer.
Nel primo capitolo sono stati analizzati i mutamenti avvenuti sia in campo
sociale che nel modo di rivestire il corpo nella prima metà del XX secolo.
Partendo dalla cosiddetta Grande Rinuncia dell’abito come ornamento da
parte dell’uomo, la cui ostentazione del prestigio è delegata alla donna,
costretta in corsetti e abiti che ne impediscono i movimenti, si giunge alla
liberazione del corpo femminile ad opera di stilisti come Poiret e Chanel,
pronti a cogliere lo spirito del tempo. Viene dunque dimostrato come gli abiti
rivestano una funzione essenziale nel produrre asimmetrie o equilibri tra
classi sociali, età e tra i generi maschile e femminile.
In seguito si passa all’analisi della figura del dandy (tra cui Brummell e
Wilde), una figura modernissima, che incarna il desiderio di fare del proprio
corpo un’opera d’arte, unica, che emerga dai tanti corpi moltiplicati dai
media, persi tra la folla indistinta, in una società che tende a uniformare e
fagocitare l’individualità. È stata poi trattata l’icona pop fantastica del
vampiro, forse la più importante della cultura di massa: la creatura onirica
metaforica e intellettuale, molto popolare e riprodotta dall’industria culturale
in quasi tutto il mondo. Attraverso l’analisi di alcuni film – dal Nosferatu di
Murnau (1922), passando per Dracula di Bram Stoker di Francis Ford
Coppola (1992) e giungendo alle più moderne figure di vampiro della saga di
Twilight (2008-2012) e della serie televisiva di True Blood (2008-2014) – si è
dimostrato come la mutazione letteraria e filmica del vampiro segua di pari
passo l’evoluzione della società contemporanea di cui ne è la metafora. Infatti
questa figura è espressione dei cambiamenti radicali cui è approdata la
nozione stessa di “diversità”. Il primo capitolo si chiude con le figure
degeneri della dandie e della femme fatale, espressioni di provocazione e
seduzione al femminile. A partire dagli ultimi decenni del XIX secolo alcune
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artiste e letterate aderiscono al dandismo attuando un crossing gender
provocatorio per l’epoca, sintomatico del desiderio di parità con l’uomo: tra
queste le scrittrici Virgina Woolf e George Sand, l’artista Claude Cahun, le
attrici Marlene Dietrich e Greta Garbo. Si tratta di figure che sfidano
apertamente i confini di genere e lo stereotipo femminile vigente. Il mito
misogino della femme fatale nasce, invece, come ammonimento per l’uomo a
non assoggettarsi al potere della donna, inconcepibile per una questione di
stereotipi e convenienze.
Sono state pertanto analizzate brevemente alcune opere letterarie in cui è
presente questo tipo di donna, per puntare l’attenzione su come il cinema
abbia trattato questa figura dalla moralità ambigua, carnefice e vittima al
tempo stesso. Da Lulù - Il vaso di Pandora (1929) di G. W. Pabst, in cui la
femme fatale è interpretata magistralmente da Louise Brooks, l’analisi
prosegue con l’Angelo azzurro (1930) di Josef von Sternberg, in cui
un’ambigua Marlene Dietrich trasuda un erotismo palpabile e altri film.
Figura per certi aspetti affine alla femme fatale è la dark lady, incarnazione
del male – e del fascino che questo esercita – che col tempo acquisirà
caratteristiche meno stereotipate e psicologicamente più complesse, come ad
esempio in Basic Instinct (1992) di Paul Verhoever, film che gioca
sull’ambiguità innanzitutto sessuale.
Nel secondo capitolo vengono dapprima analizzati i cambiamenti sociali e
culturali avvenuti negli anni Sessanta e Settanta, anni caratterizzati da quello
che potremmo definire il dispotismo della giovinezza. Sono anni
rivoluzionari, gli anni delle contestazioni giovanili, dei reggiseni al rogo e
delle rivendicazioni da parte delle comunità gay. Cambia radicalmente il
modo di percepire il corpo e lo stesso genere, al punto che i modelli nel
vestire non vengono più dalla haute couture né dalle star di Hollywood, bensì
dagli idoli della musica rock e pop (Elvis Presley, i Beatles, i Rolling Stones).
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Vengono qui prese in esame alcune tra le scene giovanili che più hanno
influenzato la moda, la cultura e la stessa società di massa, come quella dei
mods inglesi, i quali decretano la fine di tabù che separano i generi maschile e
femminile proponendo uno stile unisex, degli hippy e dei punk. L’analisi si
concentra su queste due ultime scene. Quella degli hippy può essere definita
la scena giovanile più visionaria, utopica e più sfruttata culturalmente della
storia. Alla base c’è un richiamo al rapporto diretto con la natura, in una
nuova visione del corpo, ravvisabile nella nudità ostentata, nell’ambiguità di
genere, nel sesso libero da vincoli, nell’uso di droghe assunte per espandere la
percezione. Rifiutando concetti come ordine, stile, eleganza, gli hippy fanno
tendenza col fai-da-te elevato a forma d’arte e con abiti colorati ed etnici,
spesso unisex, jeans a vita bassa e a zampa di elefante. I capelli lunghi nei
maschi contribuiscono a confondere ancor più i confini di genere. Gli hippy
anticipano una serie di elementi che rappresenteranno un must della cultura
pop contemporanea: organizzazione di concerti, ambientalismo, abitudini
alimentari alternative, il vintage nell’abbigliamento. L’utopia hippy sarà
celebrata nel grande raduno di Woodstock a cui Michael Wadleigh ha
dedicato il film documentario Woodstock – tre giorni di pace, amore e musica
(1970).
Verso la metà degli anni Settanta, a causa della sopraggiunta fragilità
dell’economia occidentale a cui si aggiungono la disoccupazione dilagante e
il terrorismo internazionale, si assiste ad una risposta nichilista a tutto campo
da parte di una larga fascia del mondo giovanile. Entrano in scena i punk,
emblemi estremisti della disillusione e della fine di ogni utopia. Lo stile di
scena delle star punk è scatenato, esorbitante. I giovani ne mutuano modi di
essere e stile. Un look – alla cui creazione hanno contribuito maggiormente la
stilista Vivienne Westwood e il compagno Malcolm McLaren – che rimanda
ad alterazioni visive ed emozionali, che può essere visto come una forma di
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radicale dissidenza nei confronti della società che ha portato l’individuo a
massificarsi. Si può vedere il corpo punk come contenitore di un dis-essere
annichilito o, al contrario, come il tentativo di esasperare il corpo per farlo
emergere e diventare soggetto e oggetto di infinite combinazioni, un corpo
pop esasperato.
Il terzo capitolo prosegue con l’analisi dei mutamenti socio-culturali avvenuti
tra gli anni Ottanta e la fine del XX secolo. Come nei capitoli precedenti, si
privilegia dapprima la descrizione degli elementi fondamentali delle
evoluzioni della moda in rapporto al contesto storico e sociale, periodo in cui
il mito intramontabile della giovinezza trova le sue espressioni più tangibili
nel corpo magro e sano e nella ricerca della forma fuggevole e artefatta di
questo, attraverso l’adozione di stili diversi, reinterpretati, mescolati. Si
analizza in particolare il power dressing degli anni Ottanta che fa acquisire
alle donne in carriera un’immagine di autoritarismo e di ambiguità sessuale:
un look costituito da tailleur di taglio maschile con spalle squadrate,
arricchito da accessori femminili. Un nuovo modo di concepire il corpo
femminile che approda anche al cinema, come ad esempio in Blade runner
(1982) di Ridley Scott. La protagonista incarna la fantasia erotica maschile
riguardo al ruolo della nuova donna, affascinante e sexy, ma forte e dura
come un uomo.
Ampio spazio è poi dedicato all’ambiguità di genere nella performance
musicale, dalle figure esorbitanti del glam rock degli anni Settanta alle icone
più recenti, in cui l’androginia e il travestitismo diventano il luogo fisico e
immaginario di molteplici possibilità identitarie: da Marc Bolan, a David
Bowie (scomparso a gennaio 2016), da Madonna a Lady Gaga. La scena
musicale si inserisce nella sfera pubblica, di cui la performance e l’identità
stessa delle star si costituiscono come vettori di aggregazione, condivisione di
gusti e di stili di vita, quando non se ne adottano anche gli aspetti della
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personalità e della sessualità. Si tratta, dunque, di figure che, insieme alle
altre trattate, possono essere non solo considerate alle origini della cultura
pop contemporanea, ma che hanno anche contribuito a cambiare la percezione
del corpo e a rendere obsoleta la tradizionale dicotomia dei generi. La ricerca
si chiude precipuamente con delle riflessioni sul genere, sempre più aperto a
nuove sperimentazioni e speculazioni e percepito ormai come costruzione
sociale – come sostengono diversi studi sociologici nati a partire proprio dagli
anni Settanta, come quelli di Judith Butler e di Teresa De Lauretis – e dunque
una categoria aperta a possibilità plurime, non sempre riconducibili al
binarismo tradizionale. Il corpo, dunque, può sfuggire ai canoni tradizionali
ed essere anche queer, inteso come corpo che si proietta verso forme e
identità che non hanno avuto ancora una collocazione.
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Premessa teorica
Il corpo, luogo della nascita e della morte, il corpo nudo e rivestito, amato e
odiato, umiliato ed esaltato, moltiplicato dalla fotografia e dai media,
contaminato nel genere, parla dell'individuo in quanto Io creatore e portatore
di un'identità. Nel 1921 Ludwig Wittgenstein all’interno del suo Tractatus
logico-philosophicus (2009) propone una metafora secondo la quale così
come il linguaggio travestirebbe i pensieri così l'abito travestirebbe il corpo.
Linguaggio e abito altro non sarebbero che sistemi di segni tramite cui ciò che
vale non è tanto ciò che è sotto, bensì la stessa superficie, la forma che il
pensiero e il corpo assumono. Infatti come linguaggio anche il vestire
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funziona secondo una forma di sintassi. L'abito è la forma del “corpo
rivestito” (CALEFATO 1986) che parla un suo linguaggio secondo regole
codificate, rende significante il corpo, fonda l'esistenza del soggetto e lo
valorizza, non nasconde e non mostra: parla e allude, perché l'uomo non ha
inventato il vestito solo come protezione, per pudore, per ornamento, ma gli
ha dato una funzione importantissima, quella di significazione appunto.
“Indossare un vestito è fondamentalmente un atto di significazione, al di là
dei motivi di pudore, di ornamento e di protezione, è un atto profondamente
sociale, installato nel cuore stesso della dialettica delle società” (BARTHES
2006, p. 83). Non è possibile perciò parlare del corpo senza porre il problema
dell'abito, giacché il rivestirsi è il momento in cui il corpo diventa
significante; l'abito crea il corpo – già di per sé portatore di senso dal
momento che è colmo di significati e valori: tatuaggi, incisioni, pitturazione,
rughe, cicatrici – adattandolo però al mondo che lo circonda.
Il corpo parla attraverso le innumerevoli maschere: gli indumenti.
Metamorfosi e mutevolezza continua, dovute a rivestimenti che lo mettono in
rapporto con la realtà circostante ed altri corpi. Per quanto riguarda
l'abbigliamento tradizionale questo rapporto è piuttosto statico e ripetitivo,
mentre viene accelerato dalla moda. La moda impone variazioni repentine che
guardano ora al passato, ora ad un futuro immaginifico, la moda ora libera (o
annulla) il corpo rivestendolo semplicemente, ora lo espone a deformazioni
per pura funzione estetica, la quale allorché domina sulle altre, non è solo per
significare la bellezza, dal momento che tra l'immagine del corpo che ne
risulta e l'abito indossato si crea una relazione immotivata, un surplus fine a
se stesso: l'irragionevolezza della moda.
Quando si parla di abito e abbigliamento moderno non si può prescindere dal
relazionarsi al concetto di performance e di teatralità. Se l'ormai classico
modello di Goffman (1969) spiega l'interazione sociale come
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rappresentazione – ossia interpretazione quotidiana di ruoli, assunzione di
facce, differenti a seconda della situazione e del pubblico a cui sono rivolti –
si può affermare che l'abbigliamento sia l'elemento fondamentale di qualsiasi
rappresentazione: gli abiti caratterizzano, distinguono, trasformano,
identificano.
È durante il Rinascimento che si delinea una dimensione sociale della
soggettività: durante questo periodo infatti abbiamo numerosi testi sul
comportamento e sulle buone maniere. Il corpo rivestito: tra teatralità e
dissimulazione, tra mascherata e ostentazione, tra innumerevoli modi di
apparire ed essere. Studi recenti focalizzano l'attenzione sulla teatralità come
modus di produzione di segni, come modello culturale trasversale che tocca
svariati ambiti della comunicazione. Tuttavia è il concetto di performance che
definisce in maniera più precisa il rapporto tra rappresentazioni reali e fittizie
(ad esempio, la finzione cinematografica). Parlare di performance anziché di
rappresentazione convoglia maggiormente l'attenzione sul coinvolgimento
corporeo di chi la esegue. Ogni performance, infatti, implica la presenza di un
pubblico che ne è allo stesso tempo interprete e costruttore ed è quindi legata
anche allo spazio in cui si realizza. Le pratiche vestimentarie possono essere
considerate una vera e propria esibizione: “l'abito è [...] fattore performante di
una serie di rituali che scandiscono la nostra vita” (CALEFATO 2007, p. 14).
E la moda ne è l'interprete e il vettore.
Interessante è l'analisi che fa Simmel sulla moda. Ne La moda (SIMMEL
2013) egli osserva come due siano le condizioni necessarie perché nasca e si
sviluppi la moda: il bisogno di conformità e quello di distinzione. Essa non fa
altro che esprimere la tensione tra desiderio di far parte integrante di un
gruppo e allo stesso tempo di affermare la propria individualità. La
coesistenza di questi due impulsi contrastanti si traduce in una dimensione
sociale, la quale non fa altro che delimitare un gruppo rispetto all'esterno. Una
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sorta di meccanismo, quindi, che coopera alla definizione di gruppi sociali e
al loro mantenimento, pur con tutta la sua effimera vita. Difatti, il fascino
della moda consiste proprio in una morte annunciata già al momento della sua
nascita.
L'essenza della moda consiste nell'appartenere sempre e soltanto a una parte del
gruppo. [...] Non appena si è completamente diffusa, non appena cioè tutti, senza
eccezione, fanno ciò che originariamente facevano solo alcuni, come avviene per
alcuni elementi dell'abbigliamento e per alcune forme di convenienza sociale, non la
si definisce più moda. Ogni crescita la conduce alla morte perché elimina la
diversità (SIMMEL 2013, p. 28).
Ciò che conta è la sua funzione: contribuire in un processo di reciprocità
all'articolarsi della società in classi, ceti, gruppi e professioni di cui è la
conseguenza. Oggi, tuttavia, non si parla più di classi sociali o di ceti, ma
piuttosto di stili di vita, di tribù (MAFFESOLI 1988), di scene urbane
(ATTIMONELLI 2011b), fermo restando il bisogno di appoggiarsi ad un
modello sociale e quello di differenziazione individuale.
L'analisi di Simmel poggia inoltre sull'individuazione di due diversi tipi di
società: quelle primitive e quelle cosiddette civilizzate. Nelle prime la spinta a
conformarsi è superiore a quella della differenziazione, perché l'individualità
è assoggettata ai valori e alle tradizioni della collettività: ogni identità si
identifica con quella del gruppo di appartenenza. Di conseguenza, si assiste a
pochi cambiamenti nel modo di vestire, in quanto il desiderio di esprimersi
non si incontra con i bisogni collettivi. Nelle società cosiddette civilizzate,
composte da numerosi gruppi sociali e da una struttura complessa, il desiderio
di affermare ed esprimere l'io viene addirittura incoraggiato dalla stessa
società. Moda è, quindi, coesione di quanti si trovano in un dato gruppo e
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chiusura verso l'esterno, sebbene il suo maggior fascino consista nel contrasto
tra diffusione e caducità – Calefato citando Simmel parla di “diritto
all'infedeltà nei suoi confronti” (CALEFATO 1986, p. 31): tutto l'incanto
poggia sull'alternanza tra queste due dimensioni, tra abbondanza, eccentricità
e l'intrinseca inutilità della moda.