5
Magnifica è Petra, la città magica che ha percorso i millenni con i suoi straordinari
monumenti affioranti dalla montagna. Le sue dimensioni colpiscono e sconvolgono, le
strutture rupestri sono colossali e talvolta inquietanti. Qui i Nabatei hanno costruito
“dentro” la natura preesistente, non “sopra” o peggio “contro”. Le straordinarie
costruzioni sembrano spuntare spontaneamente dalla roccia con la quale sono state
realizzate; il vento, l’acqua e il sole, con lo scorrere del tempo, ne ritorneranno in
possesso totale e Petra tornerà a essere montagna dopo una lunga, dolce morte: anche
questo è il suo fascino sottile. Le rovine di Petra costituiscono uno dei complessi
monumentali più singolari e affascinanti del mondo antico, sia per l’eccezionale qualità
delle creazioni architettoniche, sia per la straordinaria posizione della città, tra colline
dirupate e strettissimi canaloni.
L’emozione è forte allorché si aggiunge, alla visione delle rovine, la scoperta di nuove
tracce del passato. Durante la stesura della tesi sono stata presa ed emozionata da notizie
riguardanti gli ultimi ritrovamenti che ho voluto ricordare per far comprendere ancor
più il pathos per le rovine che affiorano sempre più ricche e numerose.
Mozia, antica colonia fenicia fondata nell’VIII secolo a. C., è un luogo perduto nel
tempo ove è possibile ammirare e scoprire i resti di questo fazzoletto di terra. È qui che
è stato svelato l’ultimo enigma. Proseguiamo il viaggio con Tambora, città persa nella
giungla indonesiana ma che ora riemerge.
Il topos delle rovine sarà, poi, approfondito, nella prima parte, con i concetti di filosofi,
in particolar modo mediante le considerazioni di Georg Simmel e Wilhelm Dilthey.
L’idea che le rovine costituiscano un esempio alto di forma simbolica e culturale deriva
dal fatto che ogni manifestazione della vita non è l’espressione di una esperienza
immediata ma è l’espressione di una memoria a venire, di qualcosa che si ripete, che si
ripropone. A questo proposito, Dilthey osserva che ciò che più conta è l’esperienza
rivissuta: è possibile rivivere l’evento e, metodologicamente, comprendere quanto
accaduto. L’essenziale della vita sta sempre in un processo di riflessione continua e di
rielaborazione emotiva del senso o dei vari sensi del passato.
Simmel considera la rovina come un’opera a sé, ovvero non è ciò che sopravvive di
un’opera in via di decomposizione, ma è una forma completamente nuova, la cui
6
prestazione consiste nel permettere al fruitore la percezione di un diverso rapporto fra le
forze naturali e quello spirituali. Per Simmel non esistono epoche di decadenza: la
decadenza, di cui la rovina è la categoria principe, non obbliga soltanto a guardare con
tristezza verso un passato grande ma purtroppo irripetibile, ma ha la propria legittimità e
produce, anche se solo nella modalità del frammento e del torso, opere altrettanto valide
e significative di quelle del passato.
Nelle pagine che seguono cercheremo di analizzare questo argomento che ha
influenzato anche l’arte figurativa, alla quale abbiamo dedicato il secondo capitolo. In
questo ci siamo occupati del pittore Hubert Robert: una particolare libertà di fattura è
alla base della spontaneità dell’artista nella resa di quel che vede e sente. La sua
inventiva, che si sviluppa non solo a partire dallo studio delle rovine ma anche della
natura, in questa seconda metà del XVIII secolo è messa al servizio di una nuova
visione del paesaggio e del rinnovamento dell’arte dei giardini.
Nell’ultimo capitolo è stato affrontato invece il tema del frammento, offrendo
interessanti paralleli nei testi letterari e inoltrandoci nella papirologia, la scienza
prosperosa di frammenti.
La suddivisione del testo in tre sezioni rispetta questi tre punti di osservazione per il
gusto delle rovine.
Il rovinismo non si estingue, comunque, con l’immaginario sette-ottocentesco. Torna
nella contemporaneità e a questo proposito abbiamo fatto spesso riferimento al testo di
Marc Augé. L’etnologo ha ripensato alle rovine distinte dalle macerie che vanno smaltite
e rimosse. Nell’eterno presente della metropoli, il paesaggio naturale è sopravvivenza al
passato e riserva del futuro; nuova rovina sfuggita alla storia:
“Nell’arte e nell’architettura contemporanee la rovina non indicherebbe comunque più
l’incerto e problematico rapporto con il passato, a cui un artista come Piranesi anela,
bensì quello con il futuro (…). Le rovine sarebbero un segno di vita, qualcosa che si
oppone alla “fine della storia”, che è il destino verso cui si avvia la spettacolarizzazione
del mondo”.
In qualunque ambito si consideri l’evento rovinoso, i resti sono significativi solo per chi
abbia consapevolezza della temporalità, della storicità dell’uomo. Altrimenti la rovina
7
resta muta: non rivela nulla. Essa è tale solo negli occhi di chi la osserva, di chi il proprio
presente lo vive nel profondo, ovvero con la consapevolezza del passato e la
responsabilità del futuro. Solo a queste condizioni ciò che resta costituisce una rovina.
Altrimenti è maceria. La rovina è un racconto, la maceria un ingombro: la prima
risponde a una volontà di ricordare, la seconda al desiderio di eliminare il passato. E
dunque, quando chi osserva i resti di un evento rovinoso non è in grado o non ha voglia
di considerarli come una testimonianza, perché li ha già posti fuori del proprio passato,
della propria storia, allora per lui quelle rovine non sono altro che materiale d’ostacolo,
inutilizzabile e, se possibile, da rimuovere. Le macerie occupano solo uno spazio. Ecco
allora che si pensa ad una riedificazione o meglio una nuova edificazione che assuma
l’aspetto di una sostituzione. E certe frettolose rimozioni hanno solo il significato di
rottura col passato in modo che non sia più rappresentabile. Bisogna coniugare memoria
e oblio. Certo senza memoria non c’è identità. Talvolta essa rappresenta anche una
gabbia da cui non si riesce a fuggire
1
. E dunque, perdere la memoria è una tragedia che
non può produrre che tragedie; ma neppure si può ricordare tutto. Più che rimuovere il
passato occorre obliarlo
2
. Nel libro Lete. Arte e critica dell’oblio, Harald Weinrich sottolinea
come tutte le testimonianze letterarie insistano sul tema dell’impossibilità di separare
memoria e oblio, Mnemosine e Lete. Dunque all’arte della memoria deve corrispondere
l’arte dell’oblio.
1
Convegno “Rovine e macerie tra Pompei e Manhattan”, diretto dal Prof. G. Tortora, Napoli
16/11/2005.
2
J. L. Deotte, Oubliez! Les ruines, l’Europe, le musee, L’Harmattan, Paris 1994.
8
CAPITOLO I
ESTETICA DELLE ROVINE
1.1. Il tempo e le rovine
“La rovina crea una forma presente di una vita passata”
1
: chi non è attratto da essa?
La rovina rende eterno il tempo e s’addensa nello spazio. Essa è memoria, testimonianza
di un passato infinito, ma anche segno di resistenza: la forza di esserci per sempre! E
non finisce mai, nemmeno nell’estensione dello spazio presente. Affine a ciò è
l’opinione di Marc Augé, etnologo francese, secondo il quale esiste una connessione tra
le rovine e la possibilità di sentire il tempo
2
. È Lévi-Strauss che ha intuito la stretta
parentela esistente fra il ricordo e la rovina
3
. Circa l’analogia tra il ricordo e la rovina c’è
da dire che il ricordo si costruisce a distanza come un’opera d’arte, ma come un’opera
d’arte già lontana che abbia acquistato di colpo lo statuto di rovina perché il ricordo, per
quanto possa essere esatto nei suoi particolari, non è mai stato la verità di nessuno
4
.
Ma cos’è la rovina? La rovina è per definizione l’opera d’arte incompiuta ma dalla quale
si può trarre insegnamento ed emozione. L’emozione che le rovine producono è
certamente provocata dal senso di caducità che esse ispirano, dal confronto tra la
mortalità delle cose e quella degli uomini. Ma essa è immersa anche nel paesaggio che
ospita le rovine.
1
G. Simmel, Die Ruine in Philosophische Kultur. Gesammelte Essays, Klinkhardt, Leipzig 1911; ripubbl. presso
K.Wagenbach, 1983. La traduzione è di Gianni Carchia in Rivista di Estetica, 8, 1981, anno XXI, p. 127.
2
A. Roberti, Delle rovine. Divagazioni su un’esperienza enigmatica in P. Di Giosia Il silenzio, Emmegrafica,
Teramo 2004, p. 12.
3
M. Augé, Le temps en ruines, Ed. Galilée, Paris 2003. La traduzione è tratta da Rovine e macerie, Bollati
Boringhieri, Torino 2004, p. 11.
4
Ibid., p. 10.
9
È sublime passeggiare tra pietre, colonne, resti di arcate, il tutto magari immerso nel
giardino, tra i cespugli. Camus, ad esempio, prova felicità a Tipasa nello splendore della
primavera e ciò deriva dall’esperienza di un paesaggio in cui le rovine di una città
romana, a una sessantina di chilometri da Algeri, si mescolano così intensamente alla
natura che sembrano fondersi con essa, appartenervi
5
. Come, ancora, le rovine di
Pompei e Ercolano, inserite nella natura circostante, che sottolineano il sentimento di
caducità delle cose umane. I resti di queste città riportati alla luce accentuano questo
sentimento, perché ad esso si somma l’impressione determinata dalla presenza
incombente del Vesuvio che ricorda l’opera della natura che distrugge e ricostruisce
incessantemente, perpetuando in eterno l’alternarsi della vita e della morte: ne furono
cantori Leopardi e Dickens. Questo sentimento appartiene a coloro che visitano Pompei
ancor più che a quelli che si recano a Ercolano: Pompei, infatti, è immersa in un
paesaggio che appare in gran parte vergine, dominato dalla mole del vulcano che
continua a dare spettacolo, mentre Ercolano riemerge da un agglomerato di case in gran
parte fatiscenti che certo non ne accentua il fascino. A differenza di Ercolano che
nasconde le rovine in antri bui, Pompei le lascia alla luce abbagliante del sole e questo
esalta il contrasto tra la vita e la morte che la vegetazione alla riconquista dei ruderi
accentua. Spostandoci più a sud rimaniamo affascinati dalla visione del teatro greco-
romano e dal panorama che lo circonda. Qui la bellezza di Taormina tocca infatti il suo
zenit. Le rovine si amalgamano col paesaggio, anzi ne fanno parte, immerse in uno
stesso mistero di creazione. I gradoni del teatro, gli archi, le colonne, la terra, il mare, il
cielo formano un solo scenario di vasta, composita bellezza nella quale la classica
architettura dell’Etna si contrappone al gotico verticalismo di colli più vicini. Scrive
Goethe che “mai il pubblico di un teatro ha potuto ammirare uno spettacolo più
meraviglioso”. E Gaston Vuillier: “la visione che abbiamo di fronte a noi, sotto un cielo
di turchese, in cospetto dell’Etna fumante, è di una grandiosità che non ha paragoni”
6
.
5
Albert Camus, "Noces à Tipasa", in Noces, Paris, Gallimard, (1938) 1970, p. 15. La traduzione è tratta da
"Nozze a Tipasa", in Il Rovescio e il diritto, Bompiani, Milano 1959, p. 66.
6
AAVV, Taormina e dintorni, Co. Graf. Editrice, Milano, p. 14.
10
Come non parlare poi dell’incantevole posizione della città di Agrigento, adagiata sul
colle che domina la meravigliosa Valle dei Templi, verdeggiante di mandorli e d’ulivi?
Questa città con i resti millenari di numerosi templi è famosa nel mondo. Famosi
scrittori e poeti, da Pindaro a Chateaubriand, da Goethe a Faure, hanno cantato le
bellezze artistiche e naturali di Agrigento. Riporteremo solo un brano di Pirro Marconi,
giovane archeologo immaturamente scomparso che, innamorato di Agrigento, la cantò
così:
“Divinamente bella e ridente è Agrigento, cerchiata da mura e da rocce gialle, tra cui
s’alzano, come continuandole e germogliandone, le colonne dei templi: Agrigento che,
giunta all’apogeo della ricchezza, costruì nel breve spazio di due terzi di secolo ben dieci
templi, con uno sforzo e un’aspirazione all’ideale unici nel mondo antico. L’Olimpieion
colossale, ornato di telamoni giganteschi; Il Tempio di Demetra, affondato nella pietra
della Rupe Atenea, con il misterioso spazio sacro e gli altari rotondi; e gli altri in cui si
conquista di mano in mano la perfetta forma del tempio dorico, fantastico quello di
Giunone, alzato sulla vetta del colle come un’offerta della divinità; quasi integro ancora
il Tempio della Concordia, semplice come se fiorito in una notte, immateriale ed eterno,
materia trasfigurata nella più pura forma, tutta bellezza e semplicità; il sole con perenne
fantasia ne trae, come mano dell’arpa, accordi cromatici e volumetrici di sapore eterno e
divino”
7
.
In questo modo si integra l’estetica dell’architettura con quella delle rovine, della
vegetazione e del paesaggio. Georg Simmel, a questo proposito, scrive: “Il fascino della
rovina sta in ciò, che qui un’opera dell’uomo venga percepita in ultima analisi come un
prodotto della natura”
8
.
La rovina si trova dappertutto; essa assomiglia, per usare un’immagine letteraria, a
Odradek, l’essere “mobilissimo” descritto da Kafka, che non ha nessun domicilio sicuro
perché sta ovunque
9
. Che cosa accadrà di lui? “ Può morire? Tutto ciò che muore ha
avuto prima uno scopo qualsiasi, una qualche attività, e così s’è consumato. Ma
Odradek? Scenderà le scale trascinando filacce tra i piedi dei miei figli e dei figli dei miei
figli?”
10
. Ecco, le rovine sono un po’ come le filacce sdrucite, lacerate, consumate di
Odradek.
7
P. Arancio, Agrigento, Editrice Atenea, Agrigento, p. 14.
8
G. Simmel, op. cit., p. 123.
9
A. Roberti, op. cit., p. 13.
10
J. L. Borges, Manuale di zoologia fantastica, Einaudi, Torino 1962, p. 116.
11
Il tempo, o l’uomo, dunque, prima distruggono e poi ci fanno rivolgere l’attenzione
verso nuove forme di godimento.
Cosa succede quando l’uomo distrugge? I tesori perduti sono innumerevoli, e si può dire
che delle civiltà che ci hanno preceduto restano solo alcuni relitti. Noi contempliamo ciò
che i nostri simili hanno voluto distruggere. Distruzione che è il risultato di continue
guerre, lotte civili e scontro fra concezioni religiose. Si tratta dei resti delle antiche civiltà
che ci hanno preceduto e che ci trasportano al momento prima della distruzione. Grazie
all’immaginazione, infatti, riusciamo a rimettere in piedi ciò che è stato abbattuto o
distrutto. La capacità distruttiva dell’uomo può anche essere vista come un’accelerazione
dell’opera del tempo.
Anche il tempo, certamente, molto più lentamente dell’uomo logora, corrode e “ci
ricorda che la parola eternità non si addice alle cose umane”. Il tempo fa aumentare il
nostro rammarico perché ci lascia tracce di ciò che è andato perduto
11
.
Edmund Burke sostiene che un popolo si riduce a ciò che ne è rimasto e solo le rovine,
ovvero i resti del passato, danno identità a un popolo e permettono di prefigurarne il
destino. Burke unisce all’amore per il nuovo la cura e la conservazione dell’antico.
Conservare le abitudini significa non perdere l’orientamento storico essenziale di una
nazione e promuovere la stabilità delle strutture già esistenti vuol dire non spezzare la
linea di continuità che unisce una generazione all’altra. Uno dei principi fondamentali
dell’estetica di Burke è infatti il permanere
12
. Permanenza, quindi, “una lunghissima durata
che ci fa misurare il carattere effimero dei destini individuali”
13
, che si ha quando
contempliamo paesaggi puramente naturali. La natura, con il suo continuo rinnovarsi,
infatti, abolisce la storia e il tempo. Se si considerano le rovine in aggiunta alla natura,
inevitabilmente esse aggiungono qualcosa che non appartiene più alla storia ma che resta
temporale.
11
C. Segre, La pelle di San Bartolomeo, Einaudi, Torino 2003, pp. 120-121.
12
F. D’Agostini, Edmund Burke e le rovine della tradizione, in Rivista di Estetica, 8, 1981, anno XXI, pp.
44-45.
La permanenza difesa da Burke è unicamente formale, poiché le tracce storiche non rinviano altro che a
se stesse. Il motivo per cui il suo punto di vista può essere considerato come un rapporto con il passato, è
il fatto che egli non considera in nessun caso il problema della giustizia ma si limita a tradurlo nei termini
della sopravvivenza.
13
M.Augé, op. cit., p. 37.
12
Contemplare rovine significa, appunto, fare esperienza del tempo e non un viaggio nella
storia: infatti esse sono temporali. Queste attestano una molteplicità di passati, tra i quali
si percepisce “una sorta di tempo al di fuori della storia a cui l’individuo che le
contempla è sensibile come se lo aiutasse a comprendere la durata che scorre in lui”
14
.
Il tempo puro è questo tempo senza storia e solo l’individuo che osserva le rovine può
prenderne coscienza intuendone il senso. Contemplare le rovine, siano esse quelle delle
lunghe mura che collegavano Atene al Pireo, o quelle di Tikal in Guatemala, e di Angkor
in Cambogia, significa, infatti, fare un’esperienza del tempo puro, non databile, ed equivale
quindi a riprendere coscienza della storia. Diversamente da Camus
15
, ci dice Augé, noi
dobbiamo reimparare a sentire il tempo per riprendere coscienza della storia. Abbiamo
bisogno di ritrovare il tempo per credere alla storia
16
, per credere che questa, nonostante
le apparenze, per fortuna non è finita. Infatti viviamo in un’epoca dell’istantaneità, della
velocità di trasmissione dei messaggi e delle informazioni. L’epoca in cui viviamo viene
chiamata da Augé surmodernità o nuova modernità. La surmodernità vive e si costruisce sul
presente, essa è l’effetto combinato di un’accelerazione della storia, di un restringimento
dello spazio e di un’individualizzazione dei destini
17
. Questo culto del presente elimina
ogni pensiero proiettato al futuro e fa sentire i suoi effetti anche a livello spaziale, di
organizzazione urbanistica e architettonica degli spazi. La surmodernità non produce
infatti rovine, ma solo macerie, sempre rimovibili per lasciare il posto alla ricostruzione.
L’architettura contemporanea, infatti, non punta all’eternità, ma al presente. Un presente
sostituibile. La durata della vita normale di un edificio oggi può essere facilmente
calcolata, ma è comunque previsto che, ad un certo momento, venga sostituito con un
altro. La città di oggi è pertanto l’eterno presente: edifici sostituibili gli uni agli altri che
non sono fatti più per invecchiare e ricostruzioni perfettamente originali. Le
14
Ivi., p. 41.
15
M. Augé, op. cit., p. 42. Camus è spaventato dalla storia futura che segnerà la perdita dei paesaggi della
sua infanzia.
16
Ivi, p. 43.
17
L’accelerazione della storia, dice Augé, è dovuta al fatto che, quotidianamente, veniamo a conoscenza di
numerosi nuovi avvenimenti; la sensazione del restringimento dello Spazio/Pianeta è dovuta agli stessi
motivi, aggiungendo lo sviluppo dei mezzi di trasporto e della circolazione delle immagini; quanto
all’individualizzazione dei destini può essere posta in relazione alle nuove forme di comunicazione.
13
ricostruzioni e le sostituzioni sono agli antipodi delle rovine, in quanto ricreano una
funzionalità presente ed eliminano il passato.
Solo una catastrofe può produrre, oggi, effetti paragonabili alla lenta azione del tempo.
Le distruzioni operate da catastrofi naturali, tecnologiche o da politiche criminali
appartengono all’attualità e pongono problemi quali: come sbarazzarsi delle macerie e
cosa ricostruire? Ci viene alla mente il caso tragicamente esemplare delle Twin Towers
18
.
Dalle ceneri di queste sono emerse le macerie della metropoli, del suo essere stata uno
spazio organizzato secondo forme, un luogo abitato.
La nostra epoca “non ha più il tempo” di produrre rovine, monumenti della memoria,
dunque, ma macerie. Il tempo, quindi, è contiguo all’esperienza delle rovine
19
. Le rovine
sfuggono al tempo reale, alla diretta, poiché risvegliano nell’osservatore la “coscienza della
mancanza”: l’occhio si posa su di esse come se fossero un oggetto contemporaneo e,
nello stesso tempo, una data incerta a loro attribuita rende quasi impossibile un
riferimento a un’epoca fissata nella memoria storica come immagine.
Così via dei Fori Imperiali a Roma è vista come un paesaggio, nel quale è possibile
intravedere diverse temporalità, dove è anche quasi impossibile distinguere gli interventi
nelle varie epoche. A Roma “si ha l’impressione (di vedere) una sorta di immensa rovina
senza età, nella quale chi passeggia innocente può trovare il puro godimento di un
tempo che nessun monumento e nessun sito riescono a imprigionare”
20
.
Le rovine di Roma, così come quelle di Berlino o di Tikal, o quelle sparse in tutto il
mondo orientale, riescono a sottrarsi alla spettacolarizzazione. Esse riescono, come
dicevamo poco prima, a farci percepire un tempo che sfugge al “tempo della storia”.
Le rovine sono espressione dell’assenza, e con le loro molteplici epoche e irricostruibili
storie rappresentano la speranza.
Abbiamo parlato di tempo puro, un tempo che confonde epoche lontane e quelle attuali.
Il paesaggio delle rovine è la duplice prova di qualcosa che è andato perduto e di
qualcosa che è invece attuale.
18
Dopo l’attacco terroristico, a New York ci si è chiesti se bisognava rifare le Torri Gemelle o sostituirle
con qualcos’altro, conservando, però, sempre qualcosa del passato.
19
A. Roberti, op. cit.
20
M. Augé, op. cit., p. 104.
14
Le rovine “ci fanno fugacemente avvertire una distanza fra un senso passato,
scomparso, e una percezione attuale, incompleta (…). La percezione di questo scarto è
la percezione stessa del tempo, della subitanea e fragile realtà del tempo, cancellata in un
batter d’occhio dall’erudizione e dal restauro come dallo spettacolo e
dall’aggiornamento”
21
. Dispiace ad Augé che a Berlino le rovine del muro siano state
quasi completamente cancellate, e che sia difficile rendersi conto di come leggere la città
storica. La memoria di Berlino è così compromessa quando la forma cambia senza che
le rovine del passato ne accrescano il valore. Postdammerplatz ha preferito l’architettura
dei non-luoghi alle sue macerie. Ha preferito il consumo alla memoria, il turismo di
massa al viaggio.
Anche a Parigi, città dell’autore, l’architettura nuova non disegna una città nuova, ma
una città stereotipata, priva di passato e quindi di avvenire.
Il rischio è che le città finiscano per assomigliare sempre di più ad aeroporti.
Quando il mondo come oggetto di consumo marca la sua fine, le rovine sono ancora
segno di vitalità perché ridonano il senso del tempo, in quanto sono osservabili come
presenze attuali. Esse conservano l’enigma, il mistero.
Le rovine sono il culmine dell’arte nella misura in cui accolgono in sé molteplici passati
e, quindi, molteplici scritture di viaggio. La loro bellezza dipende dalla loro
inafferrabilità. Augé afferma che la bellezza è propria anche dei non-luoghi
22
. Questi,
con il loro porsi come oggetti dell’attualità, accedono al tempio della bellezza. Hanno la
bellezza di ciò che non esiste ancora.
Nella modernità, nella quale viviamo, c’è eccessiva informazione mediatica e ciò significa
accelerazione della storia. Se avvenimenti di rilevanza storica nei secoli precedenti
avevano un tempo di mesi o di anni, oggi siamo sottoposti a una ripetizione continua di
informazioni che accelerano il concetto stesso di storia e del corso del tempo.
Se il tempo accelera il passo, lo spazio si restringe.
21
Ivi, p. 26.
22
Si definisce non-luogo lo spazio indipendente da una localizzazione precisa e da un radicamento
definito nella storia e nella memoria: sono non-luoghi gli aeroporti, le autostrade, i grandi centri
commerciali, i parchi tematici come Disneyland.
15
Lo sviluppo dei mezzi di trasporto permette spostamenti sempre più brevi, ma non solo:
la circolazione delle immagini di ogni posto sulla terra ci fa sentire vicini a luoghi
distanti, accorciando virtualmente lo spazio che ci separa da essi.
Il mondo, i suoi tesori e le sue particolarità, sono quindi oggetto di una intensa attività
mediatica che ne svuota i contenuti e le valenze a favore di una percezione superficiale.
Il monumento e la città, così come ogni luogo, diventano immagine.
Il patrimonio artistico, culturale e naturalistico delle nazioni “si presenta anzitutto come
un oggetto di consumo più o meno decontestualizzato, o come un oggetto il cui vero
contesto è il mondo della circolazione planetaria”
23
. Nelle città si delineano così due
tendenze fondamentali. La prima è l’uniformità dei non-luoghi: la circolazione dei
prodotti, il loro consumo e la loro comunicazione hanno tutti una forma simile, per cui
un senso di déjà-vu coglie l’osservatore in ogni luogo della terra
24
. Questa uniformità si
contrappone alle singolarità architettoniche, ad esempio la piramide del Louvre.
La seconda tendenza riguarda il carattere artificiale delle immagini. Basti pensare al
restauro, del quale Augé non ha una buona opinione. Esso fa parte della classe delle
ricostruzioni e delle riproduzioni. Ridipingere la facciata di un palazzo e costruirvi poi la
struttura nuova viene associato alla ricostruzione fedele, alla copia dell’originale, e questa
spettacolarizzazione rende ogni giorno più tenue il confine tra la realtà e la sua rappresentazione, tra la
realtà e la finzione.
Quello che resta però alla fine di questo processo non è storia, né passato, né memoria,
ma solo spazi di solitudine aperti a un futuro ancora ignoto, in attesa di uno sguardo e di
una parola che rendano loro una dimensione simbolica e sociale.
23
M. Augé, op. cit., p. 52.
24
È il caso degli aeroporti, delle stazioni, di molti edifici commerciali, del troppo-pieno della generic city di
Rem Koolhaas, nella quale i quartieri sono tutti uguali, senza memoria della propria identità, quartieri che
rispecchiano la moda planetaria.
16
1.1.1. Viollet-le-Duc e Piranesi: Post-modernità e tarda modernità
L’interesse per le rovine non è tanto un ritorno al passato quanto la registrazione di
alcuni tratti del nostro essere moderni, contemporanei.
Con l’atteggiamento postmoderno si decostruisce la pretesa totalità del moderno
25
continuando a costruire, nella consapevolezza di farlo con macerie; per il tardo-
moderno, invece, si tratta di ritrovare nel passato, nelle sue rovine, nelle sue tracce, il
senso del nostro declino e di mantenere sia le tracce che le rovine.
Viollet-le-Duc
26
e Piranesi hanno questi differenti pensieri: per l’uno è importante il
restauro e quindi la ricomposizione delle rovine del passato, per l’altro, invece, le rovine
devono restare tali e addirittura, preso dal loro fascino, scopre la novità nel crearne di
nuove.
In Piranesi le rovine non danno l’idea un po’ malinconica della decadenza, ma al
contrario ne suggeriscono l’eternità.
Per i moderni le rovine sono un semplice termine di riferimento, a partire dal quale essi
possono sentire il valore della propria modernità
27
.
Il postmoderno è una critica al moderno. Con esso abbiamo l’avvento di una radicale
filosofia delle rovine: della metafisica, dell’ideologia, così come afferma Lyotard. Esso,
inoltre, è semplicemente ciò che segue il moderno, ciò che succede al declino dei grandi
racconti della modernità, è l’effetto epocale di un declino.
Il progetto di Viollet-le-Duc è restaurare il vecchio con il nuovo.
Il postmoderno è principalmente una dottrina decostruttiva e, pur considerando il
mondo contemporaneo come rovina, si lascia sfuggire il valore evocativo dei ruderi,
delle tracce del passato.
25
M. Ferraris, Viollet-le-Duc o Piranesi: postmodernità e tarda modernità in Rivista di estetica 8, 1981, anno
XXI, p. 22.
26
Architetto francese, conosciuto soprattutto per i restauri degli edifici Medioevali.
27
Ivi, p. 24.