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INTRODUZIONE
Questa tesi nasce da una lunga riflessione, durata per tutto il mio
periodo di studi, sul ruolo che il sociologo e la sociologia possono -e
devono- avere nei nostri giorni. In particolare mi sono chiesto cosa
possa voler dire per un sociologo urbano giocare il proprio ruolo nel
mondo, nella società, per renderli qualcosa di migliore.
Queste domande, tanto semplici nella loro formulazione quanto difficili
nella loro soluzione, mi hanno portato alla visione di uno studioso della
città responsabile, che grazie alla sua professionalità possa fornire un
contributo significativo alla realtà in cui vive, cooperando con altre
professionalità e compenetrandole, per arricchirle entrambe. Questa
possibilità, dal mio punto di vista, si è manifestata nell'ambito
dell'urbanistica, intesa come disciplina che guarda al proprio territorio
come un bene comune, cercando di prendersene cura. Se aggiungiamo a
questa idea l'importanza che da sempre attribuisco alla cooperazione, i
valori della democrazia (quella vera, proveniente dal basso, e non quella
dei salotti mediatici) e quel concetto che Leo Strauss chiama “ragione
critica” per indicare la capacità di tenere alta la guardia ideologica e
non lasciarsi raggirare da semplici belle parole di facciata, la
progettazione partecipata che mi propongo di analizzare in queste pagine
può essere vista come una diretta conseguenza del mio percorso
individuale di uomo, prima ancora che di sociologo.
Nel corso delle mie ricerche per svolgere un periodo di tirocinio presso
uno studio di architettura, ho avuto modo di valutare quanto questi
professionisti siano tendenzialmente diffidenti verso una reale
applicazione delle tecniche di ricerca sociologica al loro campo. D’altra
parte, l’interesse mostrato dai pochi che mi hanno risposto e i colloqui
che ne sono seguiti, evidenziano possibilità di rapporti e
compenetrazioni tra le due discipline largamente inesplorate e
sicuramente proficue.
La differenza più evidente, e a mio avviso la principale causa del
mancato amore tra sociologia e progettazione architettonica, sta nelle
differenze di linguaggio usato dalle due scienze: molto articolato e
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“prolisso” quello della sociologia, che per spiegare adeguatamente la
complessità dell’agire umano deve per forza dilungarsi in argomentazioni
non semplici; molto schematico quello di architetti e urbanisti, che
nelle occasioni storiche più estreme hanno mostrato persino una forma di
totale disinteresse verso il destinatario dell’architettura, con quella
che Chiesi chiama sindrome AHP (Architects Hate People). Durante un
intervento nell’ambito del CERSAIE 2009, l’architetto Renzo Piano, nel
parlare del “Fare architettura” (titolo del suo intervento), insisteva
sull’esistenza di un rapporto biunivoco tra architetto e persone,
sostenendo che “l’architetto deve essere anche un antropologo, deve
capire la gente”. Questa osservazione mi ha portato a ribaltare il
ragionamento dal mio punto di vista e ad affermare che anche il sociologo
deve, in qualche misura, saper progettare e realizzare in favore delle
persone, e non solo studiarle per produrre una conoscenza “sterile”.
A parte interventi sporadici, come quello citato pocanzi, appare però
evidente come manchi nel background formativo di molti architetti e
urbanisti, un’attenzione verso il lavoro dei sociologi, visti più come
rudimentali “elaboratori di dati” che altro. D’altra parte anche le
scienze sociali, colpevolmente, si sono sempre affacciate in modo timido
verso una trattazione tra soggetto, spazio e modalità abitative o
insediative. Eppure un oggetto architettonico –o un oggetto città-
raggiunge il suo compimento solo quando viene abitato, o viene fruito, e
in fondo non si può che progettare per qualcuno.
Le stesse città, prima che prodotti urbanistici, devono essere
considerate quindi prodotti sociali -se non addirittura il prodotto
sociale per antonomasia- poiché causa ed effetto allo stesso tempo della
differenziazione funzionale Luhmaniana, su cui non mi soffermerò ma che è
bene tenere sempre presente durante questo tipo di trattazioni.
Il senso di smarrimento che spesso si prova percorrendo le nostre città,
soprattutto nelle periferie e nei quartieri privi di identità, è in buona
misura frutto della crisi delle certezze e della tragica perdita di
valori di una cultura urbana millenaria che ha sempre contraddistinto
l'Italia.
La mancanza di un disegno unitario delle città, il degrado edilizio, le
questioni perennemente irrisolte come gli aspetti della mobilità, il
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senso di non appartenenza e partecipazione che si vive in molti
quartieri, la percezione del brutto, il senso di insicurezza, sono
elementi che creano ambiguità e disagio sociale. Tutto ciò mentre si
avvertono nuovi bisogni emergenti: la necessità di moderni servizi,
l'opportunità di creare spazi di aggregazione per i giovani, ecc. Del
resto non ci si può certo rassegnare al degrado urbano, interpretandolo
come qualcosa di immutabile, un segno del destino: spesso il fatalismo e
l'ignoranza generano singolari stati d'animo che disarmano la gente
comune dalla consapevolezza di un diritto inalienabile per un'esistenza
migliore.
Inoltre, in questi anni di crisi politica ed economica anche la
democrazia e il governo della città ne hanno risentito fortemente. La
crisi della città è dovuta in parte ad un appiattimento della sua
complessità, del suo valore e del suo significato, e si collega alla
rottura tra dimensione pubblica e dimensione privata dell’uomo menzionata
da Simmel e che condiziona il rapporto tra uomo e società, presentando un
quadro di diffuso individualismo.
L’uomo è stato ridotto ad una dimensione economica: prima alla condizione
di mero strumento della produzione di merci, poi a quella di strumento
del consumo di merci.
L’alienazione del lavoro e quella del consumo hanno quasi ridotto il
cittadino a semplice cliente, e questo effetto si è poi trasferito sulla
politica, che ne ha risentito fortemente diventando a sua volta serva
dell’economia, appiattendosi e divenendo priva della capacità di
costruire un convincente progetto di società.
Una via di uscita da questa situazione si potrebbe individuare in un
richiamo generale all’interesse per il “Bene Comune”, che sembra essere
perduto ma forse rappresenta proprio l’orizzonte condiviso verso il quale
mirare per giungere ad una società più attenta ai bisogni di ciascun
cittadino. In questo senso il bene comune è da intendere come il “bene
politicamente possibile” che va al di là della mera somma degli interessi
individuali e al contempo si differenzia anche dalla nozione di interesse
generale. La sensibilità per il Bene Comune è quindi da leggere come un
elemento qualificante per una democrazia basata sulla partecipazione.
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Appare evidente quindi la necessità di studiare, ricercare, affrontare
nuovi temi per promuovere possibili soluzioni ai problemi urbani odierni,
senza trascurare il patrimonio insostituibile costituito dalla memoria
storica delle città. Oggi come ieri la strada maestra da seguire è quella
di un rinnovamento urbano, capace di rendere più visibili le nostre
città, ripensandole in funzione delle nuove esigenze della collettività,
che a sua volta deve reinventarsi.
In questo senso vorrei ricordare un recente pensiero del Premier
statunitense Barack Obama durante una convention americana sulla crisi
finanziaria del 2009, quando dice: “ saranno le scelte che facciamo oggi
a condizionare il nostro destino”, per capire che oggi, così come in
altri momenti del passato, è il tempo delle scelte, delle idee e dei
progetti per i quali la comunità sociale potrà sentirsi efficacemente
motivata.
Occorre procedere con realismo e concretezza, consapevoli dell'urgenza di
produrre nuovi modelli operativi che aprano la strada all'urbanistica del
futuro. Proprio per questo è necessario concentrarsi sulle capacità
effettive di governare processi di cambiamento a scala contenuta, con
regole e progetti efficaci e nuovi e flessibili piani di rigenerazione
urbana che non entrino in conflitto con la pianificazione generale. Serve
coniugare un nuovo modo di pensare l'urbanistica, con rinnovati modelli
di sviluppo che tengano conto dei nuovi problemi, con le possibili
positive ricadute finanziarie per gli enti locali; e paradossalmente ciò
appare più attuabile oggi, con la crisi economica che ha raggiunto il suo
zenit e con gli enti locali che attraversano una grande fase di
difficoltà per tenere in equilibrio i loro bilanci. È la storia ad
insegnarci che i momenti di crisi servono per rivoluzionare modelli di
vita e di pensiero che in tempi normali apparirebbero immodificabili.
Diverse bibliografie in cui mi sono imbattuto durante la stesura di
questa tesi sono volte a dimostrare i limiti dell'urbanistica dal
dopoguerra ad oggi, la necessità di preservare l'ambiente e bloccare il
consumo di suolo, il nuovo possibile ruolo degli enti locali in tema di
“rigenerazione urbana” con le importanti ricadute economiche che tali
processi possono determinare. Temi fondamentali per eliminare l'equivoco
(anche legislativo) fondato sull'utilizzo degli introiti derivanti dagli
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oneri di urbanizzazione, un principio che a lungo andare non può che
rivelarsi illusorio, in quanto le risorse finanziarie estratte da
progetti di sviluppo edilizio vengono utilizzate impropriamente per il
funzionamento della macchina comunale. Si tratta di prendere ormai atto
che si è davanti ad una sorta di corto circuito perverso, che consente di
soddisfare alcuni bisogni pubblici che, per essere alimentati,
necessitano della produzione di nuove concessioni edilizie. Occorre una
compenetrazione tra scienze politiche, urbanistiche, architettoniche e
sociali che “corregga il tiro” e riporti la macchina pubblica sulla
giusta corsia.
A corroborare la mia ipotesi di interdisciplinarietà tra sociologia e
pianificazione territoriale è di sicuro interesse il dibattito sorto a
Modena, dove prima la comparsa di un documento intitolato “Modena
futura”, poi una serie di vicende politiche e sociali, hanno riempito le
pagine dei giornali dal 2008 a questa parte. La questione fondamentale
riguarda l’offerta abitativa del capoluogo di provincia e le modalità per
attuarla: un tema molto sentito dalla popolazione e sicuramente
influenzato dal “fattore crisi” degli ultimi anni, che logicamente va a
braccetto col tema della cementificazione. Viene da sé la necessità di un
nuovo paradigma, una nuova prospettiva capace di unire società,
territorio e progettazione urbanistica ed architettonica, per dare
risposte alla gente in termini di offerte abitative capaci di soddisfare
il più variegato spettro di esigenze. In Europa queste iniziative sono
sorte negli anni ’90, principalmente in Olanda, Danimarca e Regno Unito,
sotto il nome di Social Housing, concetto nato per rispondere alla
crescente domanda di qualità abitativa per le residenze sociali e coniato
in modo volutamente vago per dare libertà ad ogni paese dell’unione
europea di interpretarlo come meglio crede. Un interpretazione da fornire
anche nel senso delle possibilità di sviluppo future sia a livello
territoriale che nazionale.
Di particolare interesse, poi, è un iniziativa di alcune famiglie
modenesi, intenzionate a realizzare un progetto di co-housing in un’area
ai confini del Villaggio Artigiano di Modena Ovest. Si tratta di una zona
cruciale per lo sviluppo della città nei prossimi anni: il progetto di
dismissione del tratto ferroviario (che fino ad oggi separava la città in
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due tronconi), infatti, consentirà l’unificazione di due parti della
città che prima non erano mai riuscite a compenetrarsi proprio per via di
quel confine. L’area del Villaggio Artigiano di Modena Ovest è in degrado
da diversi anni e alcune imprese necessitano urgentemente di una
ricollocazione; d’altra parte il Piano Operativo di Riqualificazione,
denominato MO-W e che prevede la creazione di uno spazio principalmente
dedicato alle industrie creative, è un progetto importante per consentire
un rilancio della zona, anche in termini di sostenibilità urbana. Le
comunità di co-housing combinano l’autonomia dell’abitazione privata con
i vantaggi di servizi, risorse e spazi condivisi (micronidi, laboratori
per il fai da te, auto in comune, sale lettura, palestre, stanze per gli
ospiti, orti, giardini...) con benefici dal punto di vista sia sociale
che ambientale. Le motivazioni che portano alla scelta del co-housing
sono l’aspirazione a ritrovare dimensioni perdute di socialità, di aiuto
reciproco e di buon vicinato e contemporaneamente il desiderio di ridurre
la complessità della vita, dello stress e dei costi di gestione delle
attività quotidiane. Sociologicamente possiamo considerare interessante
il contrasto tra società e comunità perché se, come conseguenza degli
sviluppi che hanno contraddistinto la città globale, l’adattamento
dell’individuo alla vita urbano-metropolitana ha richiesto la ri-
costruzione del legame sociale (come peraltro già spiegato esaustivamente
da Simmel in “La metropoli e la vita dello spirito”), allora è vero che
per recuperare i valori comunitari serve una rielaborazione, almeno
parziale, degli stessi elementi al fine di trovare quella nicchia di
socialità orientata affettivamente. Scopo di questa tesi è capire come
processi partecipativi, siano essi di co-housing, di rigenerazione urbana
(progetto MO-W) o in ambito rurale (come nel caso del circolo di Fiumana)
possano inserirsi in un ragionamento sociologico di questo tipo e
interfacciarsi con le altre discipline interessate a questi fenomeni.
Per ottenere questo obiettivo sono partito da un’analisi principalmente
storica della formazione di questi aggregati; nella fattispecie il
Villaggio Artigiano MO-W nel suo insieme, e il circolo di Fiumana,
cercando di inserire entrambi i processi nel loro contesto più esteso (la
provincia di Modena, sia nella sua dimensione di zona urbana che in
quella extraurbana, e l’abitato di Fiumana, appunto). Purtroppo, data la
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durata dell’iter di alcuni progetti, decisamente diluitisi nel tempo
rispetto alle previsioni iniziali, e a fronte dei continui intoppi
burocratici non è stato possibile seguire tutte le esperienze nella loro
interezza. Alcune strade si sono interrotte bruscamente e altre ho dovuto
interromperle malvolentieri. Rimane comunque la volontà e l’interesse di
esaminarne gli sviluppi in futuro.
Successivamente ho cercato di definire le linee guida per una teoria
dello sviluppo sostenibile futuro, affidandomi alle proposte di alcuni
tra i principali specialisti di programmazione del territorio. Lo scopo è
stato quello di redigere un capitolo che avesse anche una funzione
propositiva e non solo di analisi di quello che era successo fino ad ora.
Sono convinto che il lavoro sia in parte riuscito e possa offrire
innumerevoli spunti alle ricerche future su questi argomenti che, a mio
modo di vedere, dovrebbero entrare sempre più frequentemente nell’agenda
di ogni cittadino che voglia definirsi “virtuoso”.
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CAPITOLO 1 – I VILLAGGI ARTIGIANI DI MODENA
1. Trasformazioni socio-economiche e ambientali a Modena
1.1 Gli anni postunitari
Nel secondo volume dell'opera “l'uomo è antiquato”, Gunther Anders
scrive: La rivoluzione industriale degli ultimi decenni produce
l'alterazione irreversibile dell'ambiente e compromette la sopravvivenza
stessa dell'umanità. Noi siamo inferiori a noi stessi. Siamo incapaci di
farci un'immagine di ciò che noi stessi abbiamo. Mentre gli utopisti non
sanno produrre ciò che concepiscono, noi lo sappiamo immaginare ciò che
abbiamo prodotto
1
.
Certamente non erano questi i problemi che riguardavano la Modena di fine
‘800. Allora nessuno immaginava quanto il mondo potesse cambiare in meno
di cent'anni. Come avrebbero reagito gli oltre 330.000 modenesi del 1900
se qualcuno avesse descritto loro la Modena del 2000? L'incalzante
stupefacente susseguirsi di avvenimenti ha superato anche i voli più
arditi della fantasia. Cambiamenti di varia natura hanno finito per
consegnarci una Modena dai caratteri assolutamente inattesi e inediti.
Il numero degli abitanti è raddoppiato, l'attesa di vita alla nascita è
balzata da 35 a ottant'anni, l'analfabetismo è scomparso (nel 1900
superava il 70%), quasi tutta la popolazione vive oggi in centri urbani
(85% contro il 19% di allora). In Italia 18 nati su 100 non raggiungevano
il primo anno di età, a Modena ne morivano addirittura 28 ogni 100 nati.
Per l'inchiesta agraria Jacini del 1884 a Modena “gli animali godevano di
miglior salute che gli uomini”. Persistevano malattie come il tifo, il
morbillo, il colera. L'ignoranza, poi, alimentava credenze e
1
Bulgarelli, V., e C. Mazzeri. La città e l'ambiente - Le trasformazioni ambientali e
urbane a Modena nel Novecento. Carpi: APM, 2009. pag. 17
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superstizioni. C'erano contadini che desiderando un figlio maschio dopo
la nascita di una femmina, durante l'amplesso dovevano mordere forte
un'orecchia alla moglie. Strabilianti i rimedi sanitari: ai bambini che
soffrivano di determinazione si dava da mangiare una polvere fatta con un
verme emesso dal malato, e poi arrostito fino ad essere fatte in cenere.
La povertà dilagante e la disoccupazione del primo quarantennio
postunitario hanno costretto all'immigrazione 1500 modenesi ogni anno: è
il tasso migratorio più elevato della regione. In questo mare di
indigenza emersero organizzazioni e movimenti volti a dare una speranza a
tanti poveracci. Movimenti socialisti sorsero più robusti nella bassa
pianura, meno nel capoluogo e debolmente a sud della via Emilia.
Apprezzati sostegni provengano dall'esperienza mutualistica e della
costituzione di cooperative di consumo e di produzione; una rete tra le
più solide d’Italia. Poi, in meno di un secolo, la stragrande maggioranza
dei modenesi s'è lasciata alle spalle miseria, epidemie ed ignoranza. Un
tragitto che va di pari passo con quello dell'Italia e dell'Europa, si
dirà. Ma con una significativa differenza: il cammino compiuto qui è
stato assai più rapido e dirompente. Può apparire contraddittorio ma la
prima guerra mondiale, intrisa di lutti e tragedie, mise in moto novità:
immise forza lavoro nel processo produttivo e fece decollare la
formazione tecnico professionale (Istituto Fermo Corni). In quegli anni
la lotta politica visse giornate di tensione in occasione di infuocati
scontri elettorali: nel 1919 i socialisti ottennero un travolgente
successo, prendendo il 60% dei consensi, salvo poi precipitare dopo un
anno e mezzo al 36%. Poi il fascismo risolse il problema conquista del
potere con la forza.
La dittatura dispiegò una corposa attività dopolavoro istiga tanto da
collocare Modena al vertice delle otto province dell'Emilia-Romagna per
numero di cittadini inquadrati nel organizzazioni collaterali. Non è
dilagante disoccupazione colpì la vita dei modenesi. Un bracciante
lavorava 70-80 giornate l'anno. Nel 1933 diminuire addirittura il numero
degli abitanti della provincia: unico caso tra le otto dell'Emilia-
Romagna. Nemmeno la dura emigrazione nella Germania nazista (quella
modenese fu la più numerosa rispetto tutte le altre province italiane) o
quella in Africa orientale ridussero la disoccupazione. E nemmeno alla
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decisione della Fiat di dislocare a Modena parte delle sue attività nel
1928 apportò significativi benefici. Gli addetti crebbero allorché si
cominciarono a produrre parti di carri armati per la seconda guerra
mondiale.
Quando domenica 22 aprile 1945 gli anglo-americani fecero il loro
ingresso in Piazza Grande trovarono ad accoglierli al Alfeo Corassori, di
origine reggiane, da poche ore designato sindaco di una città liberatasi
da sé.
1.2 Il dopoguerra
Una grande mutazione economica ha segnato la storia modenese nel
successivo cinquantennio. Il reddito pro capite reale degli italiani dal
1950 al 1990 è aumentato sei volte, quello dei modenesi -inizialmente
simile alla media nazionale- è cresciuta addirittura di 10 volte. Nella
graduatoria del reddito pro capite delle 95 province italiane, Modena dal
40º posto occupato all'inizio degli anni ‘50, è salita al primo posto nel
1980.
La straordinaria crescita economica ha provocato profondi mutamenti
sociali, politici, culturali ed etici. La fulminea crescita economica ha
reso possibile la diffusione di un benessere che in passato era
appannaggio di nave strettissima cerchia. I modenesi, la maggioranza
della popolazione attiva, sono diventati oggi un'esigua minoranza; gli
addetti al terziario sono in maggioranza. Tuttavia nel 1955 Modena e
ancora tra le otto province italiane con maggior tasso di disoccupazione,
favorendo il persistere di livelli retributivi infimi; gli imprenditori
operavano nel solco della vecchia politica volta a far leva più sui bassi
salari che sull'innovazione.
Lo scontro sociale e politico del secondo dopoguerra fu di inusitata
durezza con morti, feriti e l'arresto di centinaia di lavoratori cui
furono comminate detenzioni lunghissime. Il culmine della tensione fu
raggiunto il 9 gennaio 1950, occasione di tragici eventi che si
conclusero con l'uccisione di sei operai. Quella data segna una sorta di
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lenta inversione di tendenza. Era necessario ridurre lo stridente
contrasto tra quanto era stato solennemente fissato nella carta
costituzionale entrata in vigore nel 1948 e la realtà quotidiana.
Le cose cominciarono a cambiare. I flussi migratori provinciali, da
fortemente negativi, si trasmutano in altamente positivi. Prese il corpo
una immigrazione da altre regioni la cui entità, in termini relativi,
risulta superiore a quella verificatasi nel famoso triangolo industriale
Torino-Genova-Milano. All'interno della provincia si ebbero massicci
spostamenti dalla campagna alle città e dalla montagna alla pianura.
Il cambiamento più vistoso ha riguardato l'agricoltura. Nonostante
l'aumento complessivo della popolazione attiva provinciale, gli addetti
all'agricoltura calano di 120.000 unità. Contemporaneamente scompare la
figura del mezzadro. Nonostante questi cambiamenti, l'incremento della
produzione della produttività agricola furono spettacolari. Le nuove
modalità produttive stimolarono ristrutturazioni che integravano
agricoltura industria evitando di inciampare in ciò che invece accade
altrove: crescita dell'industria e marginalizzazione dell'agricoltura.
L'agricoltura modenese si è inserita meglio di altre nel nuovo contesto
dell'Europa verde, nonostante molti accordi penalizzazione gli
agricoltori.
I villaggi artigiani diventarono in breve tempo un originale
caratteristica del capoluogo e di altri importanti centri urbani della
provincia. La metalmeccanica assunse ben presto le caratteristiche di un
“distretto industriale”.
1.3 Lo sviluppo della provincia
Un primo distretto industriale fuori città venne formandosi nel sassolese
con la produzione di materiali ceramici collocando l'area ai vertici
mondiali: qui si concentrava l'80% della produzione italiana. Questo
gigantesco insediamento industriale, il primo per importanza nella
provincia, ha prodotto enormi problemi urbanistici, amministrativi,
sociali e ambientali.
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Il distretto della maglieria artigiana, invece, ha più degli altri
coinvolto le famiglie. Alla fine della guerra all'attività del truciolo
subentrò quella della maglieria. Il decollo della nuova industria fu
talmente rapidi ed intenso che in trent'anni (dal 1951 al 1981) la
popolazione di Carpi è cresciuta da 37.000 a 60.000 abitanti.
Infine l'economia mirando lese s'è lasciata alle spalle la tradizionale
prevalenza dell'agricoltura già trovato una propria vocazione industriale
con un decennio di ritardo rispetto al resto della pianura. Mentre tutti
gli altri centri se industrializzato hanno e organizzavano, gli abitanti
di mirandola scesero da 24.000 a 21.000. Ma dalla metà degli anni 60 ha
sorprendentemente preso piede nella bassa un settore industriale noto
come “distretto biomedicale mirandolese”, una novità assoluta nella
storia economica modenese.
La recente rivoluzione elettronica, le conseguenze novità economiche come
la globalizzazione e i processi di finanziare inflazione, hanno investito
un'economia provinciale che sta vivendo dagli anni 80 una difficile fase
di transizione. Le difficoltà sono riconducibili alla necessità di
rispondere a sfide inedite alle quali la società modenese si è attrezzata
di meno e più lentamente di quanto invece durante la fase di
industrializzazione.
1.4 L’impatto sul territorio
La multiforme ed esuberante industrializzazione ha prodotto effetti
sull'ambiente particolarmente virulenti. Da alcuni decenni a questa parte
la quantità e la qualità degli elementi inquinanti dispersi nell'ambiente
sono tanti e tali da non poter più essere assorbiti e neutralizzati
attraverso i naturali processi biologici. In questa provincia al tramonto
del XX secolo i liquami di oltre un milione di suini, i residui della
lavorazione della ceramica, quelli della verniciatura, delle tintorie,
dei trattamenti chimici dei metallici, la produzione giornaliera di 2000
tonnellate di rifiuti, l'uso smodato di prodotti chimici in agricoltura,
l'emissione degli scarichi dei 500.000 veicoli circolanti in provincia e
il transito di 2000 Tir al giorno tra autostrada e provinciali, hanno
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innescato un meccanismo che la natura non è più in grado di sopportare e
che l'uomo pare non riesca a governare. Non è bastato l'impegno degli
enti locali modenesi che hanno istituito, tra i primi in Italia, appositi
assessorati all'ambiente, apportato significativi adeguamenti alle
aziende municipalizzate, controllato gli scarichi delle automobili sin
dal 1972, raccolto e trattato residui di lavorazioni industriali come gli
oli emulsionanti e i fanghi e installato un moderno inceneritore nel 1981
in grado di smaltire 12 tonnellate di rifiuti all’ora, successivamente
potenziato e dotato di un sistema di recupero energetico.
Il problema, nella sua inestricabile complessità, rimane insoluto. Gli
interventi attuati a Modena non hanno evitato che per molti cittadini si
levasse il malcontento. In pochissimi decenni una mutazione ha divelto la
radice e stravolti caratteri e costumi di una storia plurisecolare,
forgiando nel contempo una società dei tratti assolutamente inediti.
Contemporaneamente va detto che i processi decisionali sono sempre meno
sensibili alle forze e dai poteri presenti all'interno delle nostre
piccole comunità. Sempre più spinte, le folate di vento e alcuni uragani
provengono da poteri sovranazionali messi in moto da una globalizzazione
e da onde agitate dei potenti mondi della finanziaria esazione i cui
centri decisionali sono assai lontani dalla galantina, spesso sono
invisibili, quasi sempre impalpabili, praticamente incontrollabili.
1.5 Più ricchi che colti
Benché non sia più di tanto pertinente con l'oggetto di studio, mi
permetto di far emergere una questione: siamo diventati più ricchi che
colti? Se il reddito pro capite è cresciuto di 10 volte mentre il numero
dei laureati e solo quintuplicato; se la diffusione di quotidiani è la
più bassa dell'Emilia-Romagna; se la percentuale di laureati sulla
popolazione è inferiore sia alla media regionale sia di quella nazionale;
se in Europa la popolazione in possesso di una laurea è pari al 24% e in
Italia al 12%, che dire?
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La sfida col passato -di natura prevalentemente materiale- l'abbiamo
vinta. E quella col futuro? Forse quanto si sta lodevolmente facendo è
insufficiente rispetto alla mutata consapevolezza dei singoli e ha
bisogno di rispondere ad una cruciale domanda culturale. Dobbiamo
padroneggiare meglio il recente passato ed affinare gli strumenti di
conoscenza del presente. O, per dirla con Leo Strauss, mettere in crisi
il concetto di autorità a favore della ragione critica.
Dobbiamo intensificare gli sforzi per impostare il futuro su nuovi
assunti, uno su tutti quello assai caro all’economista e premio Nobel
Amartya Sen, per cui l’irrefrenabile crescita materiale del PIL è sempre
meno sinonimo di progresso e di sviluppo civile, mentre la crescita
culturale rappresenta sempre un progresso umano.