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quello della follia, intesa come qualcosa che deriva dal maligno o come
alterazione della psiche, intesa come parte del corpo.
Racconti letterari dove è presente la follia li ritroviamo già nell’Iliade,
quando Omero parla di Bellerofonte (V canto), nell’ Oresteia di Eschilo,
come poi anche, nel Re Lear con i rimuginamenti di Poor Tom
(Shakespeare) e in molti altri scritti.
E’ dagli esordi della psichiatria che la ricerca sulla schizofrenia prosegue in
modo intenso, anche se da subito si è presentato il problema di fornire una
definizione univoca di tale patologia; ciò perché, con il termine
“schizofrenia”, non sempre si è indicato un singolo disturbo ed i criteri
diagnostici sono di conseguenza arbitrari ed inclini ad essere modificati nel
tempo. Le prime descrizioni della malattia, come è oggi conosciuta,
vengono infatti effettuate per la prima volta nel 1809 quasi
contemporaneamente da Pinel alla Salpetrière e da Haslam al Bethlem
Hospital di Londra. Entrambi descrissero alcuni quadri clinici caratterizzati
da un netto cambiamento della personalità ad insorgenza post-puberale,
dalla comparsa di profonde alterazioni dell’affettività e del pensiero e da un
progressivo deterioramento comportamentale. Il termine “demenza” fu
usato per la prima volta da Pinel stesso per descrivere questa sindrome ed è
stato successivamente ripreso da Morel nel 1860 come “demenza precoce”,
per descrivere il caso di un ragazzo di 14 anni con le caratteristiche
sintomatologiche descritte di Pinel e Haslam (Pancheri P., 1995). Alcuni
anni dopo, nel 1871, Hecker introduceva il termine “ebefrenia”, per
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indicare una condizione analoga e nel 1874, Kahlbaum descriveva il quadro
della “catatonia”, un tipo di psicosi caratterizzata da disturbi psicomotori di
tipo acinetico o ipercinetico che possono presentarsi separatamente, dando
luogo a 2 tipi di forme catatoniche: quella stuporosa e quella eccitata.
Quindi, benché altri prima di lui abbiano considerato l’argomento, è ad Emil
Kraepelin (1856-1926) che di solito viene attribuita la prima visione unitaria
delle sindromi psicopatologiche di tipo schizofrenico; il suo merito è stato
quello di aver dato un ordine e una coerenza interna a queste osservazioni
cliniche, identificandone l’elemento comune e unificante alla luce degli
elementi di stato, ma soprattutto, di decorso. Egli osservò che, tra i gravi
malati psichici che trattava, prima a Dorpat e in seguito a Heidelberg e a
Monaco di Baviera, alcuni avevano iniziato a manifestare sintomi quali
delirio e ritiro relazionale ad un’età relativamente precoce e che questi
soggetti avevano avuto un decorso progressivamente peggiorativo.
Kraepelin, allora, lavorava in stretta collaborazione con Alzheimer che,
come lui, studiava pazienti con grave compromissione e deterioramento
cognitivo, ma con esordio in età tardiva. Questi soggetti vengono ora
diagnosticati come affetti da demenza di Alzheimer.
I pazienti studiati da Kraepelin sviluppavano la loro “demenza” in un’età
precoce e pertanto decise di distinguerli da quelli ad esordio tardivo
definendoli affetti da Dementia Praecox (Kraepelin, 1896) e ne parlò ad una
conferenza alla Clinica Psichiatrica di Heidelberg, tenuta il 27 novembre
1898 dal titolo “Sulla diagnosi e la prognosi della Dementia Praecox”; i
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principi conduttori di questo lavoro vennero poi sistematizzati nella quarta
edizione del Trattato di Psichiatria (Kraepelin, 1899).
Nel relativo capitolo del Trattato, la Dementia Praecox viene definita come
un unico quadro clinico ad esordio precoce ed esito con grave
deterioramento delle funzioni cognitive, comprendente tre forme:
1. l’EBEFRENIA di Hecker;
2. la CATATONIA di Kahlbaum;
3. la DEMENTIA PARANOIDES, isolata dallo stesso Kraepelin.
I sintomi caratteristici includono le allucinazioni, le esperienze di
influenzamento, i disturbi dell’attenzione, della comprensione e del flusso
del pensiero, l’appiattimento affettivo e i sintomi catatonici. L’eziologia è
endogena, ovvero il disturbo origina da cause interiori. La “Dementia
Praecox”, sulla base di queste osservazioni, differisce nettamente da
un’altra sindrome che Kraepelin definì “psicosi maniaco-depressiva”, in cui
fasi di melanconia e eccitamento si alternano a periodi liberi da sintomi e
nella quale non si riscontra il deterioramento progressivo delle funzioni
cognitive (Kraepelin, 1899).
Kraepelin indica quindi come caratteristiche della malattia fossero:
• il deterioramento mentale (Dementia),
• l’esordio precoce (Praecox),
senza considerare la storia di vita del paziente, la sua personalità
premorbosa e la sua esperienza di malattia.
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Con Eugen Bleuler (1857-1939), psichiatra tedesco che pubblica nel 1911 il
libro “Dementia Praecox oder die Gruppe der Schizophrenien”, si ha un
viraggio d’attenzione sulla sintomatologia di stato a scapito dell’evolutività,
un approccio più psicologico alla patologia, come evidenziato dal nuovo
nome che dà al disturbo, definendolo appunto “schizofrenia” ,riferito
all’alterazione dei nessi associativi (Spaltung), in contrasto con “Dementia”,
riferito all’instaurarsi di un deterioramento cognitivo terminale.
Bleuler era convinto che i sintomi trasversali fossero caratteristiche utili per
la definizione della schizofrenia, più importanti del decorso e dell’esito.
Egli ha sottolineato che l’alterazione fondamentale e unificante della
schizofrenia fosse la compromissione cognitiva, che ha concettualizzato
come “scissione”o “allentamento del tessuto dei pensieri” (Spaltung);
riteneva che “il disturbo del pensiero” ne fosse il sintomo essenziale e
patognomonico e ha definito la malattia in base a questo sintomo:
“schizofrenia” o scissione delle funzioni psichiche (Bleuler E., 1911).
Bleuler ha descritto una serie di sintomi “fondamentali” per la diagnosi di
schizofrenia, detti didatticamente “delle quattro A” che sono:
1. APPIATTIMENTO AFFETTIVO (marcata riduzione dell’espressività
emotiva),
2. ALLENTAMENTO DEI NESSI ASSOCIATIVI (disorganizzazione dei
processi del pensiero),
3. AMBIVALENZA (indecisione concettuale),
4. AUTISMO (profondo grado di incapacità a relazionarsi con gli altri).
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Accanto a questi ha indicato come sintomi “accessori”: le allucinazioni e i
deliri (che erano stati una parte dominante nel concetto di Dementia
Praecox), le variazioni dell’umore, le alterazioni dello stato di coscienza e le
manifestazioni catatoniche. I sintomi produttivi come i deliri e le
allucinazioni sono stati considerati da Bleuler di secondaria importanza per
la diagnosi di schizofrenia, perché si possono manifestare anche in altre
malattie, come la malattia maniaco-depressiva. Quindi per definire la
schizofrenia ha dato importanza a quelli che oggi sono definiti come sintomi
negativi.
Per Bleuler la schizofrenia non è una malattia unitaria, ma esiste “il Gruppo
delle Schizofrenie” che include numerosi disturbi che condividono alcuni
aspetti clinici, ma differiscono per quanto riguarda l’eziologia e la
patogenesi. In particolare egli inserisce fra i sottogruppi la
SCHIZOFRENIA SIMPLEX, in cui mancano molte caratteristiche
principali della patologia.
Riassumendo, Eugen Bleuler ha, rispetto a Kraepelin, ampliato i limiti
nosografici della schizofrenia, ha posto l’attenzione più sulle caratteristiche
al momento dell’osservazione che su quelle longitudinali, ha messo in
discussione la concezione kraepeliana che la schizofrenia dovesse essere
inguaribile, sottolineando nei suoi scritti il fatto che alcuni pazienti fossero
andati incontro ad una remissione dei sintomi, ed altri avessero avuto un
decorso cronico, ma senza deterioramento cognitivo.
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I criteri di classificazione sindromica indicati da Kraepelin e Bleuler si sono
mantenuti praticamente invariati attraverso tutte le scuole psichiatriche che
hanno affrontato il problema della nosografia.
Mentre Bleuler esponeva le sue teorie negli Stati Uniti, in Europa Kurt
Schneider (1887-1967), clinico psicopatologo della scuola di Heidelberg,
insisteva in maniera analoga sull’importanza dei sintomi in un’ottica
trasversale e non solo longitudinale, ma rifiutava la distinzione fra sintomi
fondamentali e sintomi accessori, tendente a ingenerare, secondo lui,
confusione.
Egli ha classificato i sintomi in: SINTOMI DI PRIMO RANGO e
SINTOMI DI SECONDO RANGO.
I sintomi di primo rango sono 11 esperienze anomale e sono patognomonici
della schizofrenia, a meno che non siano legati in alcun modo ad una causa
organica, ed includono: i pensieri sperimentati come espressi a voce alta o
come eco, la fuga dei pensieri, l’inserimento dei pensieri e la trasmissione
dei pensieri, l’ascoltare voci che commentano i pensieri o le azioni dei
pazienti e voci che conversano con l’individuo in terza persona, sentimenti e
atti volizionali vissuti come se fossero sotto il controllo di qualche forza
esterna o di mediazione, esperienze somatiche passive e percezione
delirante. La presenza di un singolo sintomo di primo rango era sufficiente
per fare diagnosi di schizofrenia, sempre che la sua presenza potesse essere
stata stabilita con certezza.
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I sintomi di secondo rango sono invece esperienze anomale del paziente che
possono completare la diagnosi, ma non caratteristiche della schizofrenia,
perché riscontrabili anche in altre malattie. Essi includono i disturbi
psicosensoriali, le intuizioni deliranti, la perplessità, i disturbi depressivi od
euforici dell’umore, l’ottusità affettiva (Schneider K., 1955).
I sintomi di primo rango costituiscono il primo tentativo di diagnosi
operativa e sono destinati ad esercitare notevole influenza sull’elaborazione
degli ICD (International Classification Deseases) e sui DSM (Diagnostic
and Statistical Manual of Mental Disorders) dell’American Psychiatric
Association (APA).
Dalle diverse definizioni della schizofrenia date dalle tante scuole di
pensiero che hanno affrontato questa patologia, è emerso il problema di
creare un linguaggio comune in psichiatria, per evitare che coloro che
formulavano la diagnosi, fossero in disaccordo sui parametri, abbassando
così l’affidabilità diagnostica.
Dagli anni ’70 sono quindi nati una serie di sistemi diagnostici basati sul
presupposto che le diagnosi formulate in base al riscontro di segni e sintomi
specifici e prestabiliti avessero maggiore probabilità di essere coerenti nel
tempo e tra le persone; esempi sono i criteri di St. Louis (Feighner et al.,
1972), il New Haven Schizophrenia Index (Astrachan et al., 1972), il
Sistema Flessibile (Carpenter et al., 1973), i Criteri Diagnostici di Ricerca
(Spitzer et al., 1975), ed i criteri di Taylor e Abrams (Taylor e Abrams,
1978). Poiché ognuno di tali sistemi definiva come schizofrenici pazienti
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molto differenti tra loro, è stato creato un nuovo sistema di criteri
diagnostici per definire i disturbi psichiatrici, il DSM-III (American
Psychiatric Association, 1980), con lo scopo di migliorare l’affidabilità
diagnostica e quindi facilitare la comunicazione clinica e la ricerca. Tale
sistema è stato soggetto a revisioni (nel 1987 con la creazione del DSM-III-
R), per arrivare all’attuale DSM-IV (American Psychiatric Association,
1994) la cui parte concernente i disturbi psicotici è stata ridefinita da un
gruppo di lavoro coordinato da N. Andreasen, J. Kane, S. Keith, K. Kendler
e T. McGlashan. Il DSM-IV definisce la schizofrenia mediante sei criteri
fondamentali che, in pratica, riprendono i criteri originali di Kraepelin sulle
caratteristiche sindromiche del disturbo e definiscono, attraverso criteri di
inclusione ed esclusione, i supposti confini diagnostici della schizofrenia. Di
questi, il criterio A valuta i sintomi, sia positivi che negativi (con evidenti
riferimenti ai sintomi descritti da Kraepelin, da Bleuler e da Schneider),
presenti nella fase attiva; il criterio B considera la riduzione della capacità di
funzionamento sociale e lavorativo di tali pazienti; il criterio C stabilisce i
limiti temporali arbitrari (presenza di segni continuativi del disturbo per
almeno sei mesi, con almeno un mese di sintomi che soddisfino il criterio
A), necessari per differenziare la patologia da forme clinicamente simili ma
più benigne (il Disturbo Psicotico Breve e il Disturbo Schizofreniforme); il
criterio D è un criterio di esclusione dei Disturbi Schizoaffettivo e
dell’Umore. Anche in questi ultimi due criteri si riconosce l’influsso
dominante di Kraepelin per quanto riguarda sia la durata, sia la dicotomia
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classica fra Dementia Praecox e psicosi maniaco-depressiva. Il criterio E
esclude dalla diagnosi gli effetti psichici dovuti all’uso di sostanze oggetto
di abuso o farmaci o alla presenza di una condizione medica generale; il
criterio F definisce i rapporti con eventuali pregressi Disturbi Pervasivi
dello Sviluppo, sottolineando l’indipendenza sindromica della schizofrenia.
Il DSM-IV, prevede inoltre quattro sottotipi all’interno della schizofrenia
(già presenti nel DSM-III-R), basati principalmente sul quadro clinico:
• la SCHIZOFRENIA PARANOIDE,
• la SCHIZOFRENIA DISORGANIZZATA,
• la SCHIZOFRENIA CATATONICA,
• la SCHIZOFRENIA INDIFFERENZIATA.
Contemporaneamente Crow (1980) e Andreasen (1982) hanno proposto uno
schema di classificazione in sottotipi, basato sulla presenza o assenza di
sintomi positivi e negativi. Crow ha ipotizzato due tipi di schizofrenia: tipo I
caratterizzato da sintomi positivi, assenza di disfunzione intellettiva,
struttura cerebrale normale e buona risposta ai neurolettici; tipo II con
prevalenti sintomi negativi, deterioramento intellettivo, anomalie strutturali
alla TC e scarsa risposta ai neurolettici. Andreasen ha definito tre tipi di
pazienti schizofrenici con un’unica fisiopatologia: pazienti con Schizofrenia
con sintomi positivi, con sintomi negativi e con sintomi misti, cioè con
sintomi sia positivi che negativi. Anche se tali sistemi non sono rientrati nel
DSM-IV, la distinzione clinica di queste diverse tipologie di pazienti è
importante per comprendere l’eterogeneità della schizofrenia.