7
proporzionalità della pena (per non parlare dell’astratto ideale di giustizia)
nei confronti della esigenza, diametralmente opposta, di lottare
efficacemente contro la criminalità organizzata, soprattutto di stampo
mafioso; non si può difatti sperare che valenti criminali, una volta presi e
condannati, decidano di fornire aiuto all’autorità giudiziaria o alle forze
dell’ordine spontaneamente e senza alcuna “ricompensa”. Solo una persona
che non conosca affatto il fenomeno mafioso può pensare che un membro di
Cosa Nostra collabori con la giustizia al fine di purificare la propria anima
peccatrice. Ed allora, se è giusto affermare che sia di gran lunga più
importante estirpare e distruggere le organizzazioni criminali, piuttosto che
“accontentarsi” di far scontare a qualche suo membro una (pur giusta) pena
lasciando pressoché intatto il potere della sociatas sceleris, si comprende
agevolmente come sia necessario “scendere a patti” con gli adepti catturati e
condannati; essendo poi, in generale, questi ultimi persone che assumono
come movente delle loro azioni il vantaggio personale in termini
utilitaristici, appare fin troppo ovvio che la promessa dello Stato in cambio
di collaborazione debba essere necessariamente superiore allo svantaggio di
mettere la propria vita e quella dei familiari o amici (finanche dei
conoscenti) in pericolo. E questa promessa, questo incentivo alla
collaborazione, dovrà essere, allora, allettante per il collaborante e coperta
da adeguate garanzie – in termini di veridicità delle dichiarazioni e di una
rilevante utilità che si può trarre da queste ultime – per lo Stato, che non può
permettersi di essere oggetto di strumentalizzazioni da parte dei pentiti e
delle loro associazioni criminali di appartenenza.
In questo lavoro si cercherà, pertanto, di analizzare i contenuti giuridici
della normativa concernente la collaborazione con la giustizia; una analisi
che dovrà tener conto dei differenti settori che investono tale collaborazione
e che, però, sarà prevalentemente incentrata sui caratteri esecutivi del
collaboratore della giustizia, senza dimenticare – al fine di comprendere
correttamente e completamente la tematica in esame – le diverse prospettive
che concernono quest’ultimo. Al centro del discorso, insomma, sarà situato
l’esame della esecuzione penitenziaria – vale a dire del concreto momento
8
della attuazione della pretesa punitiva, già accertata dal giudice nella
cosiddetta fase di cognizione – e delle (teoriche e, soprattutto, concrete)
modalità di esecuzione della pena nei confronti dei collaboratori della
giustizia.
Come ogni argomento, anche quello relativo alla analisi della
collaborazione con la giustizia, dipende logicamente da altri concetti:
pertanto, si inizierà il tema, affrontando la disamina del trattamento
penitenziario – concetto che permea tutta l’esecuzione penitenziaria – che al
proprio interno contiene quello specifico carattere, individuabile nella
differenziazione trattamentale, alla quale è dedicato l’intero capitolo
secondo. Una specifica differenziazione trattamentale è poi quella che
riguarda l’esecuzione penitenziaria degli autori di reati che,
presuntivamente, denotano spiccata pericolosità sociale, di cui i principali
soggetti sono gli appartenenti alla criminalità organizzata.
Si cercherà, quindi, di comprendere come nasce e si sviluppa il fenomeno
del pentitismo e come esso sia diventato il principale strumento di lotta alla
criminalità organizzata; il discorso giungerà, quindi, al cuore del tema di
questo lavoro, allorché, nei capitoli quattro e cinque, si analizzerà nei suoi
aspetti salienti l’esecuzione penitenziaria dei collaboratori della giustizia,
affrontando altresì come il nostro ordinamento garantisca protezione ed
assistenza ai “pentiti a rischio”. Infine, si darà conto delle recenti modifiche
apportate dal legislatore in tema di collaborazione con la giustizia.
Appare opportuno precisare che si cercherà di commentare le disposizioni
legislative regolanti la materia di questo lavoro, mediante un – diciamo –
“occhio critico”, volto a porre in evidenza certe sfumature, alcune
problematiche e le incoerenze logico-sistematiche che contraddistinguono
alcune di queste norme, senza peraltro tralasciare opinioni circa le scelte di
politica criminale che sono state adottate nel corso del tempo dal legislatore.
Si tenterà altresì di proporre qualche soluzione ad alcune problematiche che
verranno messe in luce.
In definitiva, siccome – a parere di chi scrive – la collaborazione con la
giustizia rappresenta il principale mezzo per contrastare la criminalità
9
organizzata, e giacché a tutt’oggi manca una regolamentazione complessiva
di tale collaborazione, si proverà a mettere l’accento su quelle lacune che
purtroppo continuano ad essere presenti nella gestione giuridica del
pentitismo anche alla luce del recente intervento legislativo in materia.
Il potere di Cosa Nostra, nonostante alcune preoccupanti opinioni di certi
politici, non è oggi minore rispetto ad un decennio fa: semplicemente ha
“cambiato pelle”; non è più lotta frontale allo Stato, giacché la criminalità
organizzata preferisce seguire piuttosto una strategia di pacifico connubio
con le nostre istituzioni democratiche, che lo scontro aperto che l’ha vista
perdente. Ed allora l’auspicio finale sarà teso ad una maggiore coerenza del
sistema che regoli i singoli aspetti della collaborazione con la giustizia, che
garantisca allo Stato l’utilità nell’incentivarla e che appaia idonea a
promuovere la dissociazione dei membri della criminalità organizzata,
sperando che questi, attraverso la promozione di comportamenti dissociativi,
siano indotti a “passare dall’altra parte”, piuttosto che rimanere al servigio
delle associazioni criminali.
10
Capitolo I
Genesi e sviluppo del trattamento penitenziario
Sommario: 1. Premessa: il sistema penitenziario e il trattamento. – 2. Il trattamento nelle
teorie della pena correzionale. – 3. La rieducazione del condannato. – 4. Il nuovo
concetto di trattamento nella legge n. 354 del 1975. – 5. Analisi critica della disciplina del
trattamento penitenziario.
1. Premessa: il sistema penitenziario e il trattamento.
Questo primo capitolo cerca di dare una esauriente conoscenza dell’istituto
del trattamento penitenziario; la prima problematica è di tipo definitorio e
non può che essere risolta se non dopo aver chiarito altri concetti che
precedono per logica l’istituto in esame. Innanzitutto, sembra opportuno
chiarire il significato di trattamento penitenziario, non prima, però, di aver
cercato di dare una più generale accezione del concetto di sistema
penitenziario: Daga
2
risolve quest’ultimo quesito definitorio osservando che
per sistema penitenziario può essere fornita una definizione esauriente
allorché se ne colga l’intrinseca polisemia del termine. Esso, pertanto, in una
prima accezione che evidenzia il dato organizzativo, può essere definito
come quel complesso di organi e strutture deputate alla esecuzione delle
pene privative o limitative della libertà ed alla custodia dei soggetti in attesa
di giudizio; sotto il profilo funzionale, invece, come l’insieme di finalità ed
obbiettivi che si pone il sistema e, correlativamente, l’insieme dei metodi e
dei mezzi di cui dispone per attuarli; infine come insieme di regole e di
norme, di diverso valore formale a seconda degli ordinamenti, che regolano
l’organizzazione ed il funzionamento del sistema, se si considera l’aspetto
normativo.
Quindi, in una prima approssimativa accezione, il trattamento penitenziario
può essere inteso quale “complesso di interventi utilizzabili ai fini della
2
DAGA L., I sistemi penitenziari, in FERRACUTI F. (a cura di), Carcere e trattamento,
Giuffrè, Milano, 1989, pp. 1 e ss.
11
rieducazione di quei soggetti che abbiano violato con i propri
comportamenti le norme penali di un determinato sistema”
3
.
Dato che la nozione di trattamento e, conseguentemente, quella di
differenziazione trattamentale si sono formate e sviluppate nel tempo in
stretta correlazione col sorgere del carcere e con l’affermarsi ed evolversi
delle teorie della pena correzionale, appare opportuno iniziare il discorso
con le tappe più significative di questa evoluzione.
2. Il trattamento nelle teorie della pena correzionale.
Il carcere moderno nasce e si sviluppa attraverso un percorso che lo porterà
da semplice prassi operativa nel medioevo a strumento della classe borghese
nell’epoca del cosiddetto “grande internamento”, per sfociare, infine, in
quella istituzione, quale comunemente la intendiamo oggi
4
. Il concetto di
trattamento si è formato ed evoluto, come abbiamo appena detto, in stretto
3
COMUCCI P., Nuovi profili del trattamento penitenziario, Giuffrè, Milano, 1988, p. 1.
4
Per la storia del carcere si rimanda alle opere di: PAVARINI M., Struttura sociale e
origine dell’istituzione penitenziaria, in Il Mulino, 1974; PUGH R.B., Imprisonment in
medioeval England, University Press, Cambridge, 1970; RUSCHE J. e KIRCHHEIMER
O., Pena e struttura sociale, Il Mulino, Bologna, 1978, e per uno sviluppo di queste tesi
MELOSSI D., PAVARINI M., Carcere e fabbrica, Il Mulino, Bologna, 1977; MOSCONI
G.A., L’altro carcere, Cleup, Padova, 1982; NEPPI MODONA G., Carcere e società
civile dall’Unità a Giolitti, in Studi in onore di Giuseppe Grosso, vol. VI, Giappichelli,
Torino, 1974; MORICHINI C.L., Degli istituti di carità per la sorveglianza e
l’educazione dei poveri e dei prigionieri in Roma, Roma, 1870; SCHIAPPOLI D., Diritto
penale canonico, in Enciclopedia del diritto penale, vol. I, 1904; PAŠUKANIS B.E., La
teoria generale del diritto e il marxismo, De Donato, Bari, 1975; AA.VV., Crime and
punishment in England – an introductory history, Ucl, Londra, 1996; IGNATIEFF M., A
just measure of pain, Pantheon, New York, 1978; VEXLIARD A., Introduction a la
sociologie du vagabondage, Parigi, 1956; GEREMEK B., Il pauperismo nell’età pre-
industriale (sec. XIV-XVIII), in Storia d’Italia, vol. I, Einaudi, Torino, 1973; DOBB M.,
Problemi di storia del capitalismo, Editori Riuniti, Roma, 1972; HOWARD J., Prisons
and lazarettos, Patterson Smith Publishing Corporation, New Jersey, 1973; BENTHAM
Y., Panopticon or the Ispector House, in The works of J. Bentham, vol. IV, Bowring, New
York, 1962. A tale proposito si veda anche MELOSSI D., Oltre il Panopticon. Per uno
studio delle strategie di controllo sociale nel capitalismo del ventesimo secolo, in La
questione criminale, vol. VI, 1980; SHEARES J.D., TEETERS N.K., The prison at
Philadelphia: Cherry Hill, New York, 1957; MACKELVEY B., American prisons. A
study in America social history, Montclair, New Jersey, 1977; BEAUMONT G. DE,
TOQUEVILLE A. DE, Sur le systéme pénitentiaire aux Etats-Units et de son application
en France, Parigi, 1833.
12
legame anche con la nascita e lo sviluppo delle teorie della pena
correzionale; in quest’ultimo ambito d’indagine il punto di partenza è
collocabile intorno alla fine dell’ottocento
5
. Nell’ultimo trentennio del XIX
secolo sorse, infatti, in Italia un originale movimento di pensiero, la
cosiddetta scuola positiva, che rivoluzionerà il modo di concepire la pena,
soprattutto per quanto riguarda la considerazione del criminale
6
. Cesare
Lombroso
7
, il più autorevole rappresentante di questa scuola assieme ad
Enrico Ferri ed a Raffaele Garofalo, nell’assegnare al diritto penale un ruolo
di profilassi sociale, incentrò la propria ricerca soprattutto sulla personalità
del delinquente, sottolineando il ruolo decisivo dei fattori fisici e biologici
nella genesi del comportamento criminale, aderendo e sostenendo
vigorosamente le teorie del determinismo biologico: con le teorie
lombrosiane l’attenzione si spostò, appunto, dal reato alla personalità del
reo, al fine di scoprirne, attraverso l’osservazione, le tendenze delittuose e di
curarle mediante un trattamento da attuarsi in una situazione di distacco
dalla società.
Seppur si allontanarono da una concezione della pena come mera
retribuzione, il codice penale Zanardelli emanato nel 1889 e il successivo
regolamento generale per gli stabilimenti carcerari non recepirono ancora le
teorie ed i principi della scuola positiva: infatti, la pena ebbe ancora
significato di emenda, di strumento necessario per la riabilitazione morale
del condannato
8
, e al concetto di trattamento fu assegnato il solo valore di
regime carcerario per punire e rigenerare moralmente. Il modello adottato fu
un trattamento progressivo – cosiddetto irlandese – che consentì di attuare il
passaggio da un regime cellulare puro (tipico del sistema filadelfiano) ad un
regime più mite (di matrice auburniana) tenendo conto, per la valutazione di
5
Cfr., COMUCCI P., op. cit., pp. 1-11.
6
Nella feconda pubblicistica si può vedere tra tutti, VILLA G., Il deviante e i suoi segni.
Lombroso e la nascita della antropologia criminale, Giuffrè, Milano, 1985; oppure
FIANDACA G., MUSCO E., Diritto penale, Parte generale, III ed., Zanichelli, Bologna,
1995; oppure ancora MANTOVANI F., Diritto penale, IV ed., Cedam, Padova, 2001.
7
Vedi LOMBROSO C., L’uomo delinquente, V ed., Giappichelli, Torino, 1897.
8
Gli strumenti più idonei per raggiungere tali fini furono individuati nell’obbligo del
lavoro, nella partecipazione alle attività religiose, nel silenzio e nell’isolamento.
13
tale progressione, del tipo di pena, della sua entità e della condotta tenuta dal
reo
9
.
Tuttavia, i principi del positivismo andarono raccogliendo sempre più
maggiori consensi nell’ambito delle politiche criminali
10
e, seppur
parzialmente
11
, anche il legislatore italiano recepì tali teorie ed attuò una
riforma penitenziaria all’insegna dell’adeguamento “dei momenti operativi
delle misure privative della libertà (legislativo, applicativo ed esecutivo) alla
personalità del soggetto”
12
. Nel 1930 con l’emanazione del nuovo codice
penale venne introdotto, infatti, il sistema del cosiddetto “doppio binario”,
consistente nella previsione, accanto e in aggiunta alla pena tradizionale, di
una misura di sicurezza, una misura cioè fondata sulla pericolosità sociale
del reo e finalizzata alla sua risocializzazione; nel 1931, poi, il regolamento
per gli istituti di prevenzione e pena
13
previde l’osservazione iniziale della
personalità, da compiersi in isolamento, da parte del cappellano, del medico
e del direttore del carcere, il quale avrà anche il compito di disporre i
provvedimenti conseguenti ai risultati ottenuti. Sostanzialmente, quindi, si
può correttamente affermare che la “osservazione della personalità e
trattamento individualizzato vengono ancora collegati ad un modello
9
Cfr., COMUCCI P., op. cit., pp. 1-3.
10
Infatti, al Congresso di Colonia del 1911 si auspicò lo studio del delinquente anche dal
punto di vista psicologico, da attuarsi in laboratori universitari o medici, e nel 1929 la
Commissione internazionale penale e penitenziaria redasse delle “regole minime per il
trattamento dei detenuti” all’interno delle quali si fa riferimento ad un trattamento
rieducativo da attuarsi mediante un programma basato sullo studio della personalità, delle
capacità e dei bisogni del condannato. Infine, l’importanza anche scientifica dei problemi
penitenziari porterà alla nascita nel 1933 della Società italiana di antropologia e psicologia
criminale per la lotta contro il delitto.
11
La ragione di questo accoglimento parziale fu causata anche dal tentativo, operato dal
legislatore italiano, di conciliare e superare il contrasto fra la scuola classica e la scuola
positiva: mentre la prima difendeva la concezione retributiva della pena, sul presupposto
del libero arbitrio, quest’ultima respingeva l’idea retributiva proponendo, invece, un
sistema adatto al tipo di delinquente ed avente finalità terapeutiche o quanto meno – nei
confronti dei criminali irrecuperabili – scopi neutralizzanti.
12
COMUCCI P., op. cit., p. 2.
13
Una maggior accentuazione verso la struttura della differenziazione si può senz’altro
cogliere nel regolamento carcerario del 1931: i detenuti passano da un penitenziario
all’altro in forza delle classificazioni riportate, con la garanzia del provvedimento del
giudice di sorveglianza, nuova figura di magistrato introdotta dal codice Rocco un anno
prima.
14
concettuale di rieducazione intesa ancora come rigenerazione anche
spirituale del reo”
14
.
La realtà dei fatti di certo non diede ragione agli obiettivi istituzionali, dato
che una sia pur superficiale ricerca empirica avrebbe senza dubbio condotto
ad evidenziare come le carceri avessero mantenuto pratiche operative
esclusivamente retributive ed intimidatorie, senza lasciare il minimo spazio
a qualunque tipo di recupero per i detenuti soggetti al nuovo trattamento.
Nell’immediato dopoguerra il dibattito scientifico internazionale intorno ai
problemi penitenziari sfociò nell’affermazione di una nuova teoria: si tratta
della cosiddetta “nuova difesa sociale”
15
, diffusasi rapidamente per merito
della fondazione della “Sezione di difesa sociale” delle Nazioni Unite. I
principi di questa ruotavano attorno ad un nucleo centrale costituito da una
vera e propria ideologia del trattamento, visto come l’unico strumento, non
solo per difendere la società dal crimine, ma anche per ottenere un diritto del
reo alla risocializzazione attraverso interventi sulla sua personalità che gli
consentissero di essere salvaguardato dal pericolo di ricadere nel reato.
Infatti, le proposte del nuovo indirizzo erano fondate sul presupposto che
siano dei fattori esterni (quotidianamente a contatto col reo) a determinare
comportamenti criminosi; e questi fattori possono essere eliminati o, quanto
meno attenuati, in un primo momento mediante l’osservazione scientifica
della personalità avente lo scopo di individuarli e, successivamente,
attraverso la creazione di un apposito programma trattamentale strettamente
personalizzato, che consentirà al delinquente di non cadere più nel reato.
Altro obiettivo principale dell’indirizzo della nuova difesa sociale fu quello
proponente l’umanizzazione della pena e pertanto, sempre nel 1948, venne
approvata dall’Assemblea generale dell’O.N.U. la Dichiarazione universale
dei diritti dell’uomo che espresse questo obiettivo all’art. 5 dove si legge
testualmente: “Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a
14
COMUCCI P., op. cit., p. 3.
15
Si vedano, ad esempio, le considerazioni di DI MAMBRO R., NEWMAN G., Il
trattamento penitenziario, in FERRACUTI F. (a cura di), Carcere e trattamento, op. cit.,
pp. 97-100.
15
trattamento o a punizioni crudeli, inumani o degradanti”
16
. Le classi
politiche internazionali nel dopoguerra affrontarono, dunque, il problema di
una sostanziale riforma dell’istituzione penitenziaria e ovunque nacquero
commissioni di studio volti a questo scopo.
Come viene giustamente osservato “la questione penitenziaria per la prima
volta si pone storicamente, a livello planetario, come una questione
direttamente connessa al rispetto dei diritti dell’uomo, di cui alla
dichiarazione universale del 1948”
17
e si registrò, pertanto, l’inizio della
cosiddetta “fuga dal carcere”: un carcere che durante la guerra fu sovente
espressione dell’incondizionato ed incontrastato potere dei diversi regimi
totalitari nei confronti degli oppositori politici e che, quindi, non poteva più
essere come prima. Le linee riformatrici tenderanno, pertanto, verso un
miglioramento delle condizioni dei detenuti
18
, ma quello che più conta è la
riduzione dell’ambito di applicazione del carcere ed il correlativo aumento
delle misure alternative ad esso, incominciando con la riduzione dei tipi di
pena detentiva: infatti, alla moltitudine delle fattispecie di espletamento
della pena detentiva prevista nell’ottocento (galere, bagni penali, case di
forza, reclusione e deportazione) già il codice Rocco prevedeva solo
l’arresto e la reclusione.
Tornando all’ideologia del trattamento dell’indirizzo della nuova difesa
sociale, si può notare come essa inizialmente venne concretamente attuata
soprattutto nei paesi nordamericani e nordeuropei
19
, i cui relativi
ordinamenti previdero per lo più l’introduzione del sistema della sanzione
16
Ugualmente si esprimerà nel 1950 la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali. L’articolo 3 della Convenzione, infatti, afferma
che: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o
degradanti”.
17
DAGA L., op. cit., p. 24.
18
Dagli anni sessanta si parla di veri e propri “diritti” dei detenuti, concetto più volte
espresso dalla nostra Cassazione: si veda a titolo esemplificativo la sentenza della
Cassazione Sezione I, 1 luglio 1981 in Rassegna penitenziaria e criminologia, 1981, p.
524.
19
La Svezia nel 1945 emana una nuova legge penitenziaria e la Francia modifica la
propria politica penitenziaria: per una analisi di quest’ultima si veda ANCEL M.,
CHEMITHE P., Le sistemes penitentiaires en Europe occidentale, Parigi, 1981.
16
indeterminata, la cui esecuzione venne ampiamente delegata ad organi
estranei al potere giudiziario: si optò, inoltre, per un trattamento
individualizzato attraverso la metodologia dell’osservazione scientifica e si
previde un sistema differenziato di misura alternativa alla pena detentiva.
In Italia, con l’avvento della Costituzione repubblicana, i principi di
umanizzazione della pena e di rieducazione ricevettero espresso
riconoscimento nell’articolo 27, comma 3°, della Carta costituzionale: ma la
scelta non certo felice del termine “rieducazione” sarà occasione per
dibattiti
20
, sia dottrinali che giurisprudenziali, incentrati sulla funzione cui la
pena deve tendere. Si sottolineò, inoltre, come il testo costituzionale non
sembrasse porre delle chiare direttive – nemmeno programmatiche – in
ordine alle scelte di politica criminale, il tutto senza dimenticare, tra l’altro,
come “l’affermazione del principio di rieducazione non abbia annullato le
altre funzioni in precedenza riconosciute alla pena (come la retribuzione e la
prevenzione generale), le quali devono continuare a coesistere nella
concorde consapevolezza della pluridimensionalità della medesima”
21
.
A questa situazione si aggiunsero poi anche i ritardi ed i tentennamenti
della classe politica nel riformare il sistema penitenziario al fine di renderlo
rispettoso dei principi costituzionali ed internazionali: una acuta analisi del
fenomeno mise in luce “la volontà politica di impedire una radicale
trasformazione delle istituzioni penitenziarie” perché “il carcere così come è
organizzato e gestito continua ad assolvere una funzione congeniale al
mantenimento degli assetti economici e politici più arretrati della società”
22
.
20
Sulla non univoca interpretazione, sia giurisprudenziale che dottrinale, del termine
“rieducazione” all’interno dell’articolo 27, comma 3°, della Costituzione si veda
COMUCCI P., op. cit., pp. 5 e ss.; oppure le interpretazioni diametralmente opposte di
BRICOLA F., La discrezionalità nel diritto penale, Giuffré, Milano, 1965, e di BETTIOL
G., Scritti giuridici, Cedam, Padova, 1966; si vedano altresì le riflessioni di NUVOLONE
P., Le leggi penali e la Costituzione, Giuffré, Milano, 1953, ovvero, infine, PAVARINI
M., I nuovi confini della penalità. Introduzione alla sociologia della pena, Martina,
Bologna, 1996, pp. 71-76.
21
COMUCCI P., op. cit., p. 6.
22
NEPPI MODONA G., Appunti per una storia parlamentare della riforma penitenziaria,
in La questione criminale, 1975, p. 360.
17
Il dibattito politico-sociale che intervenne sulla scena italiana a metà degli
anni settanta, le proteste sempre più vibranti – sfociante non raramente in
frequenti violenze – del mondo carcerario
23
, riuscirono comunque a
prendere il sopravvento sullo statico conservatorismo e portarono
all’approvazione ed all’emanazione
24
della legge del 26 luglio 1975, n. 354,
intitolata: “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle
misure privative e limitative della libertà”. La tanto attesa legge
penitenziaria abbraccia, dunque, il principio del trattamento individualizzato
come metodo per la rieducazione del condannato, abbandonando il modello
medicale-autoritario per attuare, invece, le teorie del cosiddetto metodo
“umanista”. L’attenzione si incentra, infatti, sulla umanizzazione della pena,
considerando il detenuto non più come l’oggetto, bensì come il soggetto
attivo del trattamento; si sottolinea, inoltre, la necessità dell’adesione
spontanea e della collaborazione del detenuto nell’esecuzione penitenziaria
affinché lui stesso benefici dei risultati positivi che attraverso la riforma gli
vengono riconosciuti. La disposizione che traduce questi principi in realtà
normativa è l’articolo 1 della legge n. 354 del 1975, il cui comma sesto
testualmente recita: “Nei confronti dei condannati e degli internati deve
essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i
contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il
trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto
alle specifiche condizioni dei soggetti”. Il mezzo strumentale al
conseguimento di questi risultati è prontamente individuato dal successivo
articolo 13 che, trattando dell’individualizzazione del trattamento, enuncia
al secondo comma che: “Nei confronti dei condannati e degli internati è
predisposta l’osservazione scientifica della personalità per rilevare le
23
Fra la ricca pubblicistica di tipo informativo di quegli anni si veda, ad esempio,
SALIERNO G., RICCI A., Il carcere in Italia, Einaudi, Torino, 1971; oppure
NOTARNICOLA S., L’evasione impossibile, Feltrinelli, Milano, 1972; ovvero
INVERNIZZI I., Il carcere come scuola di rivoluzione, Einaudi, Torino, 1973; ancora sul
tema, LAZAGNA G., Carcere, repressione e lotta di classe, Feltrinelli, Milano, 1974.
24
Sottolinea i molti “ripensamenti dell’ultimo momento in senso regressivo rispetto alle
aperture prospettatesi nel progetto approvato dal Senato nel 1973”, COMUCCI P., op. cit.,
p. 6.
18
carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale.
L’osservazione è compiuta all’inizio dell’esecuzione e proseguita nel corso
di essa”. Infine, attraverso la previsione di possibili circuiti alternativi alla
detenzione – le cosiddette misure alternative – si cerca di superare la
barriera fra il carcere e la società libera che, come lucidamente notato dalla
grande maggioranza degli studiosi, ha reso “contraddittorio l’assunto
secondo cui tale modo di procedere possa dare come risultato la
risocializzazione di colui che vi si sottoponga”
25
.
Nel panorama mondiale prima ancora che l’Italia emanasse la legge n. 354
del 1975 emersero però dei dati allarmanti: tanto più miglioravano le
condizioni di vita dei detenuti, tanto più emergeva scetticismo sulle capacità
reali e concrete che il penitenziario ha nel rieducare. Si assistette, infatti, ad
un aumento della popolazione carceraria, e studi sulla recidiva dimostrarono
che chi esce dal carcere non solo non ha migliorato il proprio concetto di
educazione sociale, ma molto spesso lascia il penitenziario per farvi ritorno
in tempi abbastanza brevi; tralasciando le cause che portarono all’aumento
della popolazione carceraria
26
, si può sostenere che proprio gli studi condotti
sui delinquenti e la recidiva dimostrarono che non vi era dipendenza fra il
trattamento applicato e il ritorno a delinquere da parte del soggetto. Un
valente autore
27
non mancò di sottolineare la necessità di non ridurre al
controllo della recidiva la finalità del trattamento penitenziario e Svennson
28
dal canto suo fa notare come nessuna prova scientifica può rendere più
credibile o avvalorare l’opinione secondo la quale differenti forme di
trattamento possono influire sulla recidiva
29
.
25
Ancora COMUCCI P., op. ult. cit., p. 7.
26
Forniscono una convincente analisi sul problema gli scritti di RUSCHE J.,
KIRCHHEIMER O., op. cit., pp. 278 e ss.; per quello che concerne più strettamente
l’ambito italiano si veda La popolazione penitenziaria nel ventennio 1959-1978 in
Quaderni dell’Ufficio Studi, Ricerche e Documentazione, n. 17, Roma, 1984.
27
SPARKS R.F., Relations entre les types de traitements et les types de delinquants,
Strasburgo, 1967, pp. 3 e ss.
28
DAGA L., op. cit., p. 37.
29
Tranne – come sottolinea lo stesso Autore (DAGA L., op. loc. cit.) – la morte e la
castrazione.